I cosi non sono le cose

Libera nos a malo«C’è molto rame in casa, secchi, testi, stampi, leccarde, paioli». Questa frase apparentemente innocua si trova a metà del tredicesimo capitolo di Libera nos a malo, il capolavoro di Luigi Meneghello. A prima vista non è che una dimessa elencazione di vetusti arnesi da cucina affratellati da una comune natura cuprica, eppure mi è rimasta in mente per ore. Anche adesso che ho doppiato la pagina che la ospita, essa si ripresenta a intervalli regolari e si sovrappone alle parole che vado leggendo, dolce come una litania melodiosa e arcana, ossessiva come il ritornello di una canzonetta: secchi, testi, stampi, leccarde, paioli. Che sarà mai? Donde verrà questa malìa che a queste parole m’incatena? Devo disvelare il segreto di codesto incantamento, spezzarlo per poter completare libero da sortilegi la degustazione delle pagine rimanenti.

Il libro, innanzitutto, overossia il contesto in cui quella frase opera. Libera nos a malo è un racconto dominato da un acuto senso di displacement, di extraterritorialità, di migranza, di alloglossia perfino. È un memoir scritto in italiano da un italiano imbevuto di lingua inglese che dentro di sé, negli strati più profondi e radicali dell’essere suo, parla il dialetto di Malo, provincia di Vicenza. La lingua e il paese nativo, non l’io narrante, sono i protagonisti indiscussi di un sofferto rimpatrio, un tentativo disperatissimo e matto di ricostruire pezzo per pezzo le cose dell’infanzia e dell’adolescenza attraverso il recupero delle parole usate per renderle presenti. Il dialetto di Malo è dunque il linguaggio naturale della vita vissuta, dell’esperienza, mentre l’italiano è quello artificiale della cultura, delle idee ricevute, dello studio.

Secchi, testi, stampi, leccarde, paioli. Il libro contiene molti elenchi come questo. Appena venti pagine più in là eccone un altro: «C’erano i canolari, i mestelari, i bottàri, i priari, i carrari, i soccolari; c’erano i moletta erranti e i careghetta, e gli ombrellari, gli stramazzari, i mas’ciari, e insomma tutti gli altri». Si tratta di un elenco di artigiani d’arti per lo più scomparse, nominati uno a uno con parole italianizzate, ma di chiara derivazione dialettale.

Ecco il nodo da sciogliere: la frase che m’incanta e mi ossessiona è fatta tutta di parole italianissime. Perché? Si tratta dopotutto di oggetti familiari, oggetti che stanno in casa, presumibilmente in cucina, la stanza che altrove l’io narrante e rimembrante non esita a definire la più importante di tutte, all’epoca della sua infanzia. Perché un’intera schiera di artigiani può essere nominata nella lingua madre, mentre questi oggetti di casa no?

Sembra quasi che proprio qui, a metà del tredicesimo capitolo, l’ordigno mnemonico preposto al recupero delle parole primigenie si sia inceppato. Qualcosa non ha funzionato: queste cose che mamma e zie del protagonista usavano forse quotidianamente non hanno un nome nativo. E se non esiste la parola dialettale per nominarli, vuol dire che allora, all’epoca dell’io bambino, questi oggetti non esistevano: niente parole, niente cose. Non sono io a sostenerlo ma Luigi Meneghello che altrove ebbe a dire «morendo una lingua non muoiono certe alternative per dire le cose, ma muoiono certe cose»

Se secchi, testi, stampi, leccarde e paioli non esistevano per quel bambino, perché compaiono nel ricordo? Chi o cosa ha inculcato nella memoria questi fantasmi infanti? Che essi non avessero un nome dialettale è affatto improbabile: non c’è dialetto privo di vocaboli per gli oggetti d’uso comune. Può darsi invece che quei cosi fossero sì nella casa, ma che non facessero parte del vissuto quotidiano del bambino. Quando le donne di casa li usavano per preparare il pranzo o la cena, lui era probabilmente a scuola, o alla dottrina, o a ruzzare con gli amici. Così ha sempre visto i cosi in stato di quiete, appesi alla modanatura del camino o allineati sopra la credenza, ma non ne ha mai udito i nomi. Prova ne sia che poco dopo il misterioso elenco tutto italiano la scrittura rende presente un dialettalissimo panaro, ovvero una sorta di tagliere rotondo atto a ospitare la polenta appena fatta. Il panaro era usato a tavola durante i pasti e il piccolo l’avrà sentito nominare centinaia di volte.

L’italiano era dunque inevitabile, ma resta il problema: perché pescare dal vocabolario italiano i nomi di cose inesistenti? Per farle esistere, per strapparle all’oblio. Tutto il mondo antico di Malo deve rivivere nel racconto e l’autore è disposto a barare pur di raggiungere questo risultato. Quando fra le cose dialettalmente esistenti s’intrufolano cosi anonimi, ma in qualche modo vissuti, egli non si fa scrupolo di dar loro un nome e un’esistenza artificiale. Si tratta di una scelta che rischia di mandare in frantumi l’impalcatura ideologica del libro, fondata sul postulato che il dialetto è la lingua della vita: secchi, testi, stampi, leccarde e paioli sono frammenti di vita che sfuggono alla regola. Dovendo scegliere fra la fedeltà assoluta ai presupposti ideologici e la scomparsa definitiva di quei cosi, Meneghello non ha dubbi: i cosi non sono le cose, ma devono esistere, sia pure d’un’esistenza dimidiata e artificiosa.

Io me lo vedo, il Meneghello tormentato dal dubbio atroce: è di nuovo a Malo dopo lunghissimi anni trascorsi in Albione, attanagliato dall’urgenza del ricordo e della ricostruzione delle macerie giovanili. Davanti a sé ha una vecchia fotografia: la mamma e le zie in posa, sedute sulle sedie impagliate della cucina, le mani in grembo, sorridono timidamente. Dietro di loro si spalanca la bocca del focolare domestico, col grande paiolo della polenta appeso alla catena. Sparsi un po’ dappertutto – sulla credenza, sull’acquaio, alla base del camino – stanno gli arnesi innominabili. Cossa ze ch’el ze? Cos’è dunque, mormora osservando intensamente una leccarda appoggiata alla parete del camino, come si chiama? E ripete la domanda ai secchi, ai testi, agli stampi, ai paioli. Ma per quanto si sforzi di ricordare, i cosi si ostinano a tacere: sono forme senza sostanza, pure immagini, eppure un tempo furono vive. Lotta ancora a lungo con la memoria inceppata, il Meneghello, e con il dubbio: consegnare quegli arnesi all’oblio in via definitiva, o truccare le carte per immortalarli? No, dice, non si può lasciarli lì, nella foto. Devono stare nel libro! nel libro! E allora scrive, il Meneghello, scrive lentamente: secchi, testi, stampi, leccarde, paioli.

Oh là! Fatto! Adesso posso fnirlo in santa pace. Gran libro, Libera nos a malo, da leggere, a passo d’uomo.

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15 Responses to “I cosi non sono le cose”

  1. Sei sempre più bravo. Di questo non lento ma veloce passo, dove arriverai? :-) Complimenti.

    Bart

  2. letturalenta says:

    Troppo buono, Bart. Bravissimo è Luigi Meneghello, del quale per mia massima colpa avevo fin qui letto solo un altro libro, Fiori italiani, molto inferiore a questo.

    Dove arriverò? boh. Il problema di noi lettori lenti è che non abbiamo una direzione precisa: gironzoliamo or qua or là nel vasto mare letterario a bordo di barchette prive di bussola e di motore. Talvolta arriviamo da qualche parte, ma sempre in ritardo e senza capire bene dove ci troviamo.

  3. Dal mio blog di luglio (archivio):- )

    MAMA, COSSA GHE ZÉ

    HAMLET: Now, mother, what’s the matter?
    QUEEN: Hamlet, thou hast thy father much offended.
    HAMLET: Mother, you have my father much offended.
    QUEEN: Come, come, you answer with an idle tongue…

    AMLETO: Mama, cossa ghe zé, cossa gavìo?
    REGINA: Ucio, te ghe ofendesto to popà.
    AMLETO: Mami, gavì ofendesto me popà.
    REGINA: Dai, dai, ste cuà le zé risposte ossiose…

    Eccetera.

    (Luigi Meneghello, “Trapianti”, Rizzoli)

  4. gabryella says:

    lei, sì lei, con questo testo qui m’ha completamente cosata, lo sa?!

  5. letturalenta says:

    Grazie per l’ulteriore lacerto meneghelliano, Lucio. Se è un invito a leggere i trapianti, consideralo accolto.

    gabryella, è cosa mai abbastanza ribadita, questa cosa che i testi cosano: spero che non si sia fatta male, cosandosi. Meneghello, se posso chiederle di credermi sulla parola, è cosatore eccelso.

  6. gretsch says:

    Buongiorno a tutti. Mi permetto di consigliare, del grande Meneghello, “Maredè, Maredè”, studio meticoloso e geniale sul dialetto vicentino, che ho trovato appassionante benché io non sia di quelle parti.

  7. letturalenta says:

    Si permetta, egregio gretsch (mi perdoni l’assonanza), si permetta senza riserve. Ogni consiglio di lettura è qui più che gradito.

  8. gretsch says:

    A commento del secondo commento: leggere a caso è l’unico modo che conosco. E forse non è un caso.

  9. perché la memoria è un organo vicariante, come l’anima e come la lingua. e pur di evocare i fantasmi, s’arrangia con tutte le risorse che ha. tanto, il sortilegio non è del tutto legato alle parole, come non è del tutto legato all’elenco, o del tutto legato all’immagine: il sortilegio è nel nominare le cose, nella sequenza, nel gesto di farle esistere. per questo gli elenchi continuano a risuonarci dentro, perché ne assaporiamo la natura magica e rituale. ci sono romanzi che sono proprie leggende sacre e locali, ripetute come si deve (non sono stati mai, ma saranno sempre, diceva qualcuno). La lingua originaria è rifondata ogni volta, così. Un caro saluto.

  10. gretsch says:

    E noi (ri)conosciamo la potenza dei suoi atti evocativi, signora, e la sua passione per elenchi, indici, cataloghi, bestiari, novene e tridui. A forza di maneggiarla e rimescolarla, la materia non solo si trasforma, ma genera altra materia. Non tolga il grembiale, e continui la sua opera: la lingua originaria è in buone mani. (Meneghello, più sornione che mai, annuisce).
    Mi scuso per il commento agiografico, non si ripeterà (anche se repetita come si deve iuvant).

  11. letturalenta says:

    Egretschio (mi perdoni la crasi), lei è libero di agiografare quando e come meglio crede. Se poi gli agiografrati sono scrittori capaci di mantenere le parole nei pressi delle cose, chi la potrebbe biasimare?

    Quanto al leggere a caso, che dire? Per me è fatale e inevitabile, ma conosco lettori abilissimi capaci di darsi delle regole e di stabilire percorsi di lettura molto precisi e accurati. Un po’ li invidio, creda, ma a volte o come l’impressione che loro invidino me.

  12. Solo per fare la battuta: La scritturalenta ti ha consunto la h (“o come l’impressione”)

    Che non succeda nella letturalenta!

    Bart

  13. gretsch says:

    Crasi pure. Shine on.
    Per “leggere a caso” intendo tutto quello che non fa parte dei percorsi di lettura programmati. Può essere il suggerimento di un amico o di un nemico, l’attrazione per un titolo, una copertina o una pagina, e questi incontri possono avvenire nei locali più disparati, non necessariamente librerie o biblioteche. Insomma, il Caso che mi fa incontrare libri o persone è lo stesso, un Caso casuale a modo suo. Grazie per la licenza d’agiografare. Mi sento a mio agio. Infatti:
    “E’ segno di mediocrità lodare sempre moderatamente”. (Vauvenargues).
    Ci si può anche citare addosso, qui?

  14. letturalenta says:

    Bart, il tuo occhio allenatissimo di lettore si nota anche da questi dettagli. Lascerò il typo a futura memoria ed esortazione a migliorare. La mia tampa più notevole rimane però un ‘Des Essaintes’ scritto ripetutamente con la ‘a’ in una recensione all’incolpevole Piersandro Pallavicini.

    gretsch, autocitazioni, agiografie, apologie, anafore: tutto ciò che inizia con la A mi sembra lecito. Analizzerò il resto dell’alfabeto nei prossimi venti-trenta mesi. Nel frattempo non si faccia comunque eccessivi scrupoli.

  15. […] p.s. pubblicato dopo aver letto questo post e soprattutto avere riletto questo. […]

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