Diceria su Diceria dell’untore

Gesualdo Bufalino, tratto da www.galrev.comDiceria dell’untore è un libro che fin dal titolo propone un’atmosfera iperletteraria. L’untore è per noi lettori post-manzoniani una figura unicamente finzionale, romanzesca, quasi mitologica, che non può esistere al di fuori di un racconto o di un romanzo: è un concetto, un’astrazione, un simbolo. Nessun lettore s’aspetterebbe mai di trovarsi un untore in carne e ossa sull’uscio di casa o in ufficio o al bar, e se anche ne incontrasse uno non lo riconoscerebbe, perché dell’untore si può dire solo ciò che si dice di Dio nel vangelo: nessuno l’ha mai visto.

L’altro termine del titolo – diceria – rafforza ulteriormente questa impressione di letterarietà mitologica. Nelle istruzioni per l’uso poste in calce al racconto, Gesualdo Bufalino spiega che

«Diceria» vale racconto, dettato, monologo con in più un’insinuazione di scarsa credibilità, come di uno sproloquio mormorato all’orecchio.

E cosa può essere un dettato di scarsa credibilità se non finzione, fola, inganno, depistaggio, menzogna ovvero – per dirlo con una parola sola – letteratura? Qui il titolo funziona come i frontespizi di certi libri antichi, dove una porta che s’apriva sul mondo misterioso e arcano del testo avvisava il lettore che, procedendo oltre, egli s’avventurava in un altrove fantastico, dove le leggi e i rapporti dell’esperienza sensibile perdevano validità e vigore.

Diceria dell’untore. E subito la mente si sposta in un Seicento d’appestati e d’ispaniche tirannie, di monatti e bravi, donabbondi e innominati, frati mondani e monache stanche di clausura. E invece no. Con una sana scoppola ben assestata sulla nuca del fantasticante lettore, il testo precisa subito che qui il secolo è il ventesimo, l’anno il ’46, e i luoghi non sono lombardi, ma siculi. Il lazzaretto è mutato in cronicario e alla peste ormai debellata è subentrata la tubercolosi.

Il sanatorio ospita uomini, donne, bambini, reduci di guerra e scampati allo sterminio, tutti in lista d’attesa per morire, e tutti ugualmente impegnati a differire l’appuntamento intrattenendosi a vicenda con discorsi, chiacchiere, dicerie appunto. C’è tempo per stringere amicizie, discutere fra atei e credenti, bere e fumare di nascosto, innamorarsi e darsi a improbabili fughe. I malati, insomma, fanno esattamente quel che fanno i sani per dimenticarsi di essere tutti contagiati dalla morte, malattia incurabile e letale nel cento per cento dei casi. In contrasto con il realismo dell’ambientazione e dell’intreccio, la lingua del racconto è alta, colta, impreziosita da termini rari e da numerose citazioni letterarie. I dialoghi sono parti drammatiche, i personaggi attori, i luoghi scene: tutto è volutamente, intensamente, irrevocabilmente fittizio e quasi onirico.

Ora, mio incauto lettore, immagina te medesimo che leggi questo libro: ti trovi in un sanatorio siciliano, nel 1946, stregato da una lingua preziosa, immerso in un’atmosfera di sogno, quand’ecco che i tuoi occhi increduli trasmettono al tuo cervello questa frase:

Lettore, ti è mai capitato, stando in piedi sulla scala mobile di una Rinascente, di vedere i gradini che ti separano dalla piattaforma d’arrivo inesorabilmente assottigliarsi, e uno dopo l’altro nel loro guscio sparire? Così i giorni di quell’estate.

Ed eccoti strappato via all’improvviso dalla storia e scagliato a mille chilometri di distanza, nel tuo presente, a Milano (sì, perché la Rinascente è a Milano per definizione, anche quella di Palermo), su una scala mobile che non può certo stare in un sanatorio della Conca D’Oro nel 1946, a guardare i gradini che sfilano e spariscono uno dopo l’altro.

Il primo effetto è quello di una sveglia mal puntata che si mette a strillare nel cuore della notte. Dev’essere un errore, pensi, una svista, un colpo di sonno dell’editor. Poi, continuando a leggere, ti accorgi che non stai più leggendo come prima: sei più attento ai particolari, più ricettivo, più lento. Il discorso è diretto in primo luogo a te: sei stato chiamato in causa.

La sveglia, in effetti, suona in un punto di svolta del testo, all’inizio del quartultimo capitolo, a meno di trenta pagine dalla fine. Da lì in poi tutto cambia: la scena si sposta fuori dal sanatorio; il ritmo aumenta in vista dello scioglimento finale; i protagonisti hanno un guizzo di vitalità improvviso; la monotonia dei giorni-gradini si spezza. Quella frase, insomma, è un segnale preciso, simile al campanello che suona per annunciare l’ultimo giro di giostra.

Naturalmente non posso dimostrare che l’effetto che quella frase ha fatto su di me sia stato cercato intenzionalmente dall’autore. Non posso escludere che sia una svista, un incidente di percorso, un errore, anziché il magistrale artificio che sembra a me. Ma in fondo cosa cambierebbe? L’effetto ormai c’è stato ed è irrevocabile.

Ecco tutto, lettore. Nient’altro che una diceria, uno sproloquio mormorato all’orecchio. Se da me t’aspettavi altro – che so, una recensione, un fine discorso critico, comparazioni sapienti, l’interpretazione di significati riposti – mi dispiace d’averti deluso, ma non so che farci: qui, quando si tratta di libri, non si fa altro che chiosare divagando (o divagare chiosando).

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10 Responses to “Diceria su Diceria dell’untore”

  1. Miku says:

    Intendo e chioso: il lentista ha natura divagativa… :-D

  2. Bella pagina di scrittura, Luca, assai godibile. Come ormai ne escono spesso dalla tua “penna”.

    Riguardo alla tua annotazione, non ricordo bene, ma mi pare che nel romanzo si ricorda oggi ciò che accadde nel 1946. Se ciò è vero, mi pare accettabile la similitudine di una cosa (la scala mobile) in uso ai nostri giorni, anche se resta la meraviglia che rilevi tu di una similitudine modernissima in mezzo ad un linguaggio “anticato”.

    Bart

  3. gabryella says:

    tanto per rimanere sulle dicerie: malgrado l’autore rigetti ogni ipotesi di contaminazione, al lettore pare proprio d’essere lì lì per cadere da “la montagna incantata”

  4. CalMa says:

    E’ singolare il fatto che un’attenta lettura lenta permetta di cogliere questa sorta d’apallage tanto profonda e paradossalmente ipercinetica da svolgere il ruolo di un efficace “switch context” (oh, i complimenti già fatti da Bart alla tua penna li reìtero, chetelodicoaffa’)

  5. letturalenta says:

    Sì, Miku, quando si agisce con lena bradipale si dimentica a ogni passo la direzione che s’era presa col passo precedente. Il risultato è un’andatura ondivaga, flaneristica e bustrofedica. Di ciò non meno vanto, sia chiaro, e rinnovo quotidianamente oneste intenzioni di ravvedimento.

    Esatto, Bart. Il punto di osservazione dell’io narrante è il 1971, quindi la scala mobile non vìola il principio di verosimiglianza, ma si limita a interrompere per un attimo la finzione scenica, costringendo il lettore a “rientrare in sé”.

    gabryella, il calco manniano è così evidente, ma così evidente, da dover essere giocoforza intenzionale, anche se l’autore nega. D’altronde, si sa, l’autore è il peggior giudice della propria opera, intenzioni e moventi inclusi.

    CalMa, “switch context”, ecco l’espressione giusta. I complimenti sono balsamo per l’autostima e veleno per l’umiltà. Li accetto volentieri, e prometto che cercherò di farne buon uso :-)

  6. Dimenticavo, Luca.

    vibrisse ha linkato il tuo sito.
    Su vibrisse penso di mettere prima o poi anche una mia lettura della “Diceria dell’untore”. Vabbe’, dirati tu, e a me che me frega:-)

    Bart

  7. letturalenta says:

    Orpo! il link vibrissico me l’ero perso. Grazie della segnalazione, Bart. Quest’anno è il decimo anniversario della morte di Bufalino, quindi la tua lettura della Diceria cascherebbe proprio a fagiolo.

  8. Da non dimenticare che Bufalino amava disarcionare il lettore almeno quanto irretirlo: le sue torture squisite pungevano come hapax selvatici, come broccati rigidi di costumi di scena, come scomodi coturni che siamo costretti a indossare – e non vediamo l’ora d’indossare – all’ingresso, all’inverso di come si fa in certi templi, e tempi. Ma questa, mi rendo conto, è una diceria.

  9. letturalenta says:

    Ben vengano le dicerie, mangi’, specie se impreziosite da broccati e coturni: un tocco di ellenica eleganza non guasta mai.

  10. Allora, Luca, lo farò.

    Bart

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