Ombra fugace di una parola assente

Perec(Ricordo a eventuali perecchiani distratti di passaggio che quest’anno – come mostrato dal francobollo postale qui riprodotto – ricorre il settantesimo genetliaco del grande Georges Perec).

W o il ricordo d’infanzia di Georges Perec è un libro composto da due racconti alternati, intitolati rispettivamente W e Il ricordo d’infanzia. Il primo è un racconto fantastico su un luogo chiamato W situato in una delle mille isole della Patagonia, sede di una strana società fondata sull’ideale olimpico, ma tutt’altro che idilliaca o decubertiniana. Il secondo è per l’appunto un ricordo d’infanzia, un’autobiografia a tutti gli effetti, secondo la miglior tradizione memorialistica francese.

Essendo questo un libro a due vie, ha anche due incipit, uno per il primo filone e uno per il secondo. Il secondo incipit è «Non ho ricordi d’infanzia» ed è straordinario per due motivi: primo, perché restituisce drammaticamente l’immagine di un orfano; secondo, perché nega senza troppi complimenti il titolo del racconto che va a incominciare. È come se Agostino avesse iniziato le Confessioni scrivendo «Non ho niente da confessare».

Eppure quell’incipit è profondamente sincero. Tocca leggere tutto il libro per rendersene conto, ma alla fine si capisce che non si tratta di ricordo nel senso che intendiamo abitualmente, ma di ricostruzione di un passato sconosciuto attraverso testimonianze esterne – come le foto dei genitori o i racconti di alcuni parenti – e attraverso suggestioni che solo apparentemente sono ricordi. A questo secondo gruppo di fonti appartengono i numerosi casi in cui Perec crede di ricordare di aver avuto un incidente, il braccio al collo, un tutore clavicolare, salvo poi scoprire che erano incidenti altrui che lui attribuiva a sé stesso per goderne la parte consolatoria, quelle dimostrazioni eccezionali di affetto e protezione che gli adulti offrono istintivamente ai bambini malati.

Nell’ottavo capitolo Perec trascrive due testi sui suoi genitori risalenti a quindici anni prima (quindi al 1960) ed entrambi fondati principalmente su una manciata di vecchie fotografie. Perec nacque nel 1936, suo padre morì in guerra nel 1940, la madre fu deportata ad Auschwitz all’inizio del 1943, ma Perec non la vedeva già da qualche mese, da quando alla Gare de Lyon lei l’aveva messo su un treno diretto nella Francia libera, per salvarlo dai campi di sterminio.

Al termine dei due scritti sui genitori, Perec aggiunge a mo’ di commento alcune considerazioni sul suo progetto di scrittura autobiografica, in una pagina molto intensa e commovente. L’incipit del secondo racconto – «Non ho ricordi d’infanzia» – qui viene allargato e circostanziato in una riflessione che colpisce per immediatezza e sincerità. Quel grande costruttore di monumenti verbali e finzionali che fu Perec, depone gli artifici e gli attrezzi del mestiere, e mostra senza veli il lato tragico della sua arte, fondata sull’assenza dei genitori e sulla necessità di uccidere il loro ricordo per poter vivere.

Non so se non abbia niente da dire, ma so che non dico niente; non so se quello che avrei da dire non venga detto perché indicibile (l’indicibile non si annida nella scrittura, al contrario, è ciò che ne ha innescato il processo); so che quanto dico è vuoto, neutro, è il segno definitivo di un definitivo annientamento.

È questo che dico, è questo che scrivo e questo racchiudono le parole che traccio, le righe che queste parole disegnano, gli spazi bianchi che traspaiono tra una riga e l’altra: se anche facessi la posta ai miei lapsus (per esempio avevo scritto «ho commesso» invece di «ho fatto» a proposito degli errori di trascrizione nel nome di mia madre), o mi perdessi a fantasticare per due ore sulla lunghezza della mantella di mio padre, o cercassi nelle mie frasi, ovviamente trovandole subito, squisite eco dell’Edipo o della castrazione, non troverei, pur ripetendomi, mai altro che l’ombra fugace di una parola assente alla scrittura, lo scandalo del loro e del mio silenzio: non scrivo per dire che non dirò niente, non scrivo per dire che non ho niente da dire.

Scrivo: scrivo perché abbiamo vissuto insieme, perché sono stato uno di loro, ombra tra le ombre, corpo vicino ai loro corpi; scrivo perché hanno lasciato in me un’impronta indelebile e la scrittura ne è la traccia: il loro ricordo muore nella scrittura; la scrittura è il ricordo della loro morte e l’affermazione della mia vita.

«So che quanto dico è vuoto, neutro». Questa è una confessione in piena regola: lo scrittore dichiara che le sue parole non dicono alcunché, sono segni vuoti e insignificanti, tracce afasiche innescate da qualcosa di indicibile, «ombra fugace di una parola assente». Difficile immaginare qualcosa di più labile, di più evanescente, di più fantasmatico. Eppure, a dispetto di questa drammatica consapevolezza del vuoto che le parole delimitano, non viene meno la volontà di scrivere, la necessità di scrivere per uccidere il vuoto e per affermare la vita: il vuoto, l’assenza, l’indicibile non possono essere detti, ma devono essere scritti. È necessario tracciare sul foglio quelle righe che non dicono nulla: non tracciarle significherebbe rinunciare a vivere. Credo che questa sia una delle testimonianze più acute e tragiche sulla necessità di scrivere.

Una pagina come questa per me vale il libro intero e forse molto di più, perché rivela una zona d’ombra della letteratura che spesso si tende a sottovalutare: le parole scritte non significano altro che loro medesime e non c’è niente di profondo, di vero, di vissuto che un discorso scritto possa comunicare. La scrittura può avvolgere un essere umano come una seconda pelle, ma è pur sempre pelle, epidermide, superficie. Il dolore, l’angoscia, la paura della morte, la speranza, la gioia, l’amore, tutto ciò che un essere umano casualmente impegnato a scrivere sente e vive sotto la pelle non è cosa che le parole possono dire, pur essendo l’innesco della scrittura.

Il che equivale a dire che non si scrive per dire qualcosa, ma solo perché si è al mondo, perché si vive o si è vissuto o si è creduto di vivere: «Scrivo perché sono stato uno di loro, ombra tra le ombre, corpo vicino ai loro corpi». La scrittura prolunga quelle ombre e quei corpi; la scrittura è il prolungamento della vita con altri mezzi e lo scrivere, così come il vivere, non aiuta in alcun modo a dare un senso alla vita.

E io lettore, io che raccolgo l’esito di questo strano procedimento che parte dall’angoscia dell’indicibile per arrivare al vuoto e al neutro dell’insignificanza, riconosco non tanto ciò che le parole dicono, ma proprio quell’angoscia, quel vuoto e quel neutro. A libro chiuso so che questo libro non mi ha detto un bel nulla sul suo autore, ma so anche che il terrore e il «segno definitivo di un definitivo annientamento» che l’hanno generato sono miei come di chi quel libro ha avuto la ventura di scrivere. (E forse questo è quel che accade ogni volta che si chiude un libro di autentica, grande letteratura).

[Georges Perec, W o il ricordo dell’infanzia, traduzione di Henri Cinoc, Einaudi 2005]

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15 Responses to “Ombra fugace di una parola assente”

  1. melpunk says:

    lettura cosa sempre gradita leggere di perec. mille di questi post
    e buona pasqua!
    mel

  2. michele says:

    E’ vero. Ma così è costruzione di un “personaggio”. Adesione “solo” personale. O visione parziale dell’annullarsi per riconoscere il “vuoto”. Poi, oltre con altri stati d’animo o altri personaggi si può costruire (si deve) il riconoscimento e il percorso. La verità non è parziale, non è solo un faro che illumina settori, ma è la luce del giorno con tutto. Almeno si deve tendere a questo. Questo è il compito del romanzo, ampliarsi per decifrare o tentare di capire (con onestà) tutti gli aspetti. Chisà se mi sono fatto capire? Guarda, se non sbaglio stiamo remando dalla stessa parte, resta da capire se sullo stesso vascello. buona mezza giornata che rimane michele

  3. letturalenta says:

    Grazie del gradimento e dell’augurio, mel. Ricambio entrambi.

    Michele, da anni e anni ormai sostengo fieramente (fra me e me, beninteso) che compito del romanzo e della letteratura in genere è non avere compiti. Inoltre, per decifrare occorre ammettere che qualcuno a un certo punto abbia cifrato, e questo apre la strada a questioni metafisiche che non sono in grado di discutere, specialmente dopo pranzo.

  4. melpunk says:

    letturalenta
    torno a invadere questo spazio per dirmi stratosfericamente d’accordo con te. è da tempo che vado rompendo i cabasisi, come scrive camilleri, a chi ritiene che il romanzo o la letteratura debba essere questo e quello. ma perché? che bisogno ha la letteratura di avere dei compiti? e chi glieli dà, la maestra dalla penna rossa? perché la letteratura, che è espressione umana, deve avere dei compiti? a che pro? e se fosse davvero che l aletteratura ha dei compiti significherebbe escludere tutta quella letteratura che di compiti, almeno apparentemente, non ne ha? ancora lodi a letturalenta e saluti sentitissimi
    melpunk

  5. letturalenta says:

    Lieto di apprendere che siamo almeno in due, mel. Numero più che sufficiente per fondare un movimento, un gruppo di opinione, una lobby, o per lanciare un appello mondiale per la decompitizzazione della letteratura.

    Credo che sia lecito evidenziare a posteriori compiti casualmente e involontariamente svolti dalla letteratura, ma prescriverle ruoli, mansioni e destini mi sembra improprio. E anche pericoloso: tra chi ha dato compiti alla letteratura c’è pur sempre gente come Goebbels, Bottai, Zdanov…

  6. melpunk says:

    letturalenta
    senza dubbio. è pur vero che nascono le avanguardie, nascono i generi, le scuole, le correnti. ma non credo nella premeditazione della letteratura. i compiti non si assegnano, nascono si sviluppano e muoiono tutt’al più come è normale che sia. difficile pensare il contrario, sapendo che la letteratura è influenzata anche dalla storia, dalla società ecc ecc.

  7. se posso, contane tre.

    e ci metterei anche quella splendida allegoria del romanzo ne “La vita istruzioni per l’uso”, dato dal percorso degli acquerelli delle marine che tornano a sciogliersi nel luogo nel quale sono stati dipinti solo dopo essere stati giocosamente scomposti e ricomposti.

  8. letturalenta says:

    Benvenuto nel club, Mauro. Ormai siamo legione: la lotta agli orrendi compitisti letterari sarà dura, ma vinceremo!

  9. zop says:

    perperec e perqueneu! z

  10. letturalenta says:

    zop ci ricorda, e giustamente, che oltre al settantesimo compleanno di Perec quest’anno ricorre il trentesimo anniversario della morte di Queneau. (E volendo esagerare, anche il ventesimo di Borges).

  11. Antonio says:

    Tema spinoso.
    Post ottimo.
    Anche se questa tua frase (“compito del romanzo e della letteratura in genere è non avere compiti”) apre davvero molti interrogativi.
    A presto
    Antonio

    p.s. dove posso scriverti in privato? avrei delle cose da dirti.

  12. letturalenta says:

    Antonio, è mia umilissima opinione che le domande siano sempre più interessanti delle risposte, quindi sono ben contento di aprire interrogativi.

    Puoi trovare il mio indirizzo email nella pagina “chi sono?” (interrogativo), in alto a destra nella home page del blog.

  13. zycron says:

    che ci fa il mio gatto sulle spalle di perec?
    Mi sa che ha una doppia vita parigina che conduce durante le sue scorribande notturne.

  14. letturalenta says:

    Prova a sussurragli all’orecchio “lavimoddempluà”. Se inarca la schiena e soffia, è lui.

  15. michele says:

    Mi sono dovuto assentare. Daccordissimo niente compiti. Niente penna rossa e blu. Non sono io quello. Ci siamo riduttivamente mal capiti. Intendevo rinnovare la mia adesione ho detto ampliarsi per decifrare o tentare di capire tutti gli aspetti. Comprendo che si può mal capire la parola compito. Ma il romanzo in questo caso è oggetto non il soggetto “prima” della creazione” poi, dopo so da me che vi è indipendenza che non appartiene più a niente e a nessuno. Ma intendevo l’uomo e il suo percorso. Non vi è solo automatismo dello scrivere, non vì è solo poesia, vi è prima l’uomo così come è, poi testimonianza. Ecco era esattamente l’opposto di quello che avete inteso. So che sono eccessivo, ma intendiamoci testimonianza significa comprendere che si è testimoni, che vi è bisogno di decifrare (o cercare di farlo) la realtà (chiamatela come vi pare) è qui vi è in gioco l’onestà, la difficoltà è questa: essere onesti. Non parlo di metafisica. Ne di visione geografica dell’io umano, ne antropologia, ne allucinazioni di auto analisi, corrente alternata tesa a questo o a quello. Non vi è, a me pare, una sola interpretazione, non vi è un solo aspetto, non trovo che vi sia un solo colore, il romanzo non ha il compito, ma nel romanzo ci devono essere gli aspetti i diversi aspetti dell’osservazione, prego non riducete tutto all’osservazione da gabinetto chilurgico, semmai evidenziate l’esigenza e il perchè vi è stato solo analisi da gabinetto chilurgico. Sono stato astratto ed incomprensibile, è vi è certo bisogno di certezze in questo periodo di facili suggestioni, e di suggestionati avrei voglia di continuare, d’essere più concreto. Insomma io me lo sono posto questo problema, e non vado oltre, mi sembrerebbe di cattivo gusto mi parrebbe di parlarmi addosso. Ora parliamo di quanto scritto qui sopra. E’ molto pericoloso scivolare nei preconcetti. Ma siete stati voi a costruire un compito, e addirittura avete costruito il caso della mia letterarura ideolocizzata, come io avessi inteso questo, come io avessi detto questo, assegnato il compito alla socializzazione, alla costruzione di ideali pre razzistici, invece è l’inverso. E’ da poco passata la pascqua cattolica, e pochi giorni prima la pasqua ebraica. Nella pasqua ebraica si celebra (questo lo sanno tutti lo so) la fuga dall’Egitto. Ma molti non sanno cosa significa veramente. A me sembra che con distrazione, è qui vi sono nate molte incomprensioni cattoliche-ebraiche, sull’ interpetrazione. L’una è la casa dell’ interpetrazione, l’altra è la non casa, la ricerca con la R maiuscola, non si specifica un aspetto, ma si tende ad analizzarli tutti. Si usano e si devono usare metri diversi e se questi non ci sono si devono trovare unità di misura atte a comprendere. Questa è la pasqua ebraica. Il padre con i suoi figli e i figli vedono diversamente la soluzione di un problema la soluzione non è data dalla visione (di quel figlio ad esempio il dotto) o di quell’altro figlio con la sua visione e soluzione, o la visione di quell’altro ancora. Ma la soluzione è la comprensione delle differenti visioni. Mi fa specie pensare, che in un mondo che deve tanto all’ebraismo, (non finiremo mai di ringraziare le menti che nascono da questa religione che sono figlie di questa religione) questo mondo occidentale comprende solo quello che a lui interessa, cioè interpretare la realtà e dichiarare il giusto percorso -prodotto di una commissione- e in questa commissione nasce la realtà ed è difficile poi parlare di cose diverse… ti saltano addosso in nome di una verità finemente elaborata, anche la non-verità e il suo percorso e la negazione di questo. Insomma il corredo dell’ideologgia inconscio. Si è propensi solo a storicizzare, ma mai ad analizzare. Così la domanda, non è solo quello dell’orfano al padre ombra tra le ombre (il Dio non si nomina, il Dio non si figura, è questa per la religione ebraica di massima importanza) la morte del padre è la sua pasqua la comprensione, forse la misura di questa comprensione. Sono le interminabili piaghe che hanno dovuto e che devono subire gli uomini e le donne di religione ebraica, la continua non comprensione verso la religione ebraica (che è poi la nostra, con l’interpretrazione del nuovo testamento )la presunzione nel voler eliminare la questione o le questioni con dei sott’intesi. E’ vostra l’interpetrazione del non compito, ma a guardar bene vi siete subito prodigati, in un nuovo corso di interpetrazione nel compito, che il romanzo è solo arte divinatoria, ed è solo il caso, il solo “io trovo e non cerco” . Mi scuso ancora, per le polemiche, ma trovo che oltre vi possa essere il sogno di una idea, chissà se si è in buona fede. michele

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