Il retrobottega di Federico Platania

Sandro Botticelli: Sant'Agostino nello studio, tratto da digilander.libero.it/McArdalQuando ho proposto a Federico Platania di mostrarmi il retrobottega del suo libro, lui mi ha risposto così:

Ciao Luca,

allego alcuni stralci dal mio taccuino di lavorazione che ho aggiornato durante e dopo la stesura di “Buon Lavoro”. Da una parte continuo a pensare che questo “dietro le quinte” del libro d’esordio di uno scrittore sconosciuto non interessi a nessuno (tranne a te che me l’hai richiesto esplicitamente!). Dall’altra parte il mio ego di scrittore non ha resistito…

A dispetto della scaramanzia di Federico, io continuo a credere che ficcare il naso nell’antro di uno scrittore – esordiente o veterano, conosciuto o meno – sia un’esperienza molto positiva per i lettori. Praticandola si può scoprire come è nata l’idea di un libro, quali difficoltà ha dovuto affrontare l’autore per venirne a capo, perché ha scelto certi accorgimenti formali piuttosto di altri. Tutte informazioni che gettano luce sul concepimento e la gestazione di un libro, informazioni che nella maggior parte dei casi restano nascoste ai lettori.

Così questi estratti che Federico mi ha inviato rappresentano un po’ la cronaca della sua gravidanza letteraria: appunti e tracce che il lettore può divertirsi a confrontare con le sue impressioni di lettura. Per esempio, io che ho pensato a Buon lavoro come una discesa agli inferi del povero lavoratore condannato in eterno al posto fisso, sono rimasto piacevolmente sorpreso di leggere nel taccuino dell’autore questo suo pensiero: Le aziende per me sono il territorio del diavolo.

Per farla breve, oltre a consigliare ancora il bel libro di Federico Platania (Fernandel), consiglio anche di approfittare del buco della serratura che qui si offre per spiare, non visti, il suo laboratorio di scrittura.


Frammenti dal taccuino di lavorazione di Buon lavoro

di Federico Platania

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per scrivere Gracchiante sono partito da uno spunto autobiografico. Già nella primissima stesura questo spunto ricopriva un ruolo estremamente marginale nell’economia del racconto. Nella stesura definitiva lo spunto è scomparso del tutto. Questa caratteristica è comune a tutti i racconti della raccolta. Non so perché, ma questo fatto mi piace molto. Mi piace che l’embrione di ogni racconto sia poi scomparso nelle versioni definitive. È come se i racconti, in questo modo, fossero più “autentici”. Mi sento come se, avendo raccontato cose totalmente inventate, senza ricorrere all’aiuto di fatti realmente accaduti, io abbia vissuto in modo più autentico il mio ruolo di narratore. Che poi, in realtà, io partivo sempre da vicende autobiografiche, solo che a un certo punto me le perdevo per strada, le stravolgevo completamente, spesso le abbandonavo proprio. Con il tempo ho utilizzato consapevolmente questa tecnica. Quando dovevo iniziare a scrivere un nuovo racconto mi mettevo lì a pensare a un mio episodio lavorativo del passato che mi era rimasto impresso nella memoria. Dopodiché cominciavo a pensare a una trama che prima o poi conducesse alla narrazione di quell’episodio, sapendo però, fin dall’inizio, che quell’episodio lì non avrei dovuto raccontarlo e che avrei invece dovuto immaginare qualcosa di diverso, qualcosa che dovevo inventare

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lo spunto autobiografico risaliva all’epoca del mio lavoro presso gli uffici della *** (era l’estate del 1998). Ero stato assunto come informatico da una piccola società di consulenza che lavorava per il Centro Elaborazione Dati della ***. Gli uffici si trovavano in un luogo desolato ai margini del Grande Raccordo Anulare. Io, come sempre all’inizio di un nuovo lavoro, ero un po’ emozionato, inquieto. La mattina ero partito da casa con il proposito che – comunque fossero andate le cose in quella prima giornata di lavoro – io sarei andato a pranzo da solo, in un bar o in una tavola calda vicini a quegli uffici che non avevo mai visto e lì avrei riflettuto. Per come sono fatto io, per il mio carattere, è sempre molto importante sapere che nell’ambito di un avvenimento critico riuscirò comunque a ritagliarmi uno spazio tutto per me in cui poter riflettere con calma. È una cosa che mi tranquillizza e mi permette di affrontare meglio i problemi.


Le cose invece andarono in un altro modo: all’ora di pranzo, infatti, i miei nuovi colleghi – che avevo conosciuto da poche ore – mi invitarono ovviamente ad andare a mangiare con loro. Io rifiutai, perché non volevo rinunciare a quell’oasi di intimità cui miravo fin dal giorno precedente. Ma questa cosa, questo mio rifiuto, fu piuttosto imbarazzante, per me e per loro. E poi, quando finalmente andai a mangiare da solo, come volevo, mi resi conto che lì intorno non c’era niente, tranne un piccolo bar che era visibilissimo dalle finestre dell’ufficio in cui lavoravo. E mi dava terribilmente fastidio mettermi a mangiare ai tavolinetti del bar sapendo che mi avrebbero potuto vedere i colleghi a cui poco prima avevo detto no. Così presi un panino o una cosa simile e mi incamminai in questa periferia desolata, fatta di sterpaglie e terra secca, con il timore che qualcuno potesse vedermi e dire “ma dove va quel matto?”, “ma è quello nuovo che è arrivato oggi…”, etc.


Insomma il mio piano di starmene un’oretta in pace a riflettere sul mio nuovo lavoro era totalmente fallito. Mangiai in fretta, rientrai in ufficio prima della fine della pausa, senza essere riuscito a tranquillizzarmi o a pensare ad alcunché.


Ecco, questo io volevo raccontare in Gracchiante. Invece, poi, questa vicenda non solo non ha costituito una trama secondaria rispetto a quella principale, ma è proprio scomparsa del tutto. Se ne trovano piccole tracce all’inizio quando la nonna chiede al protagonista “Ma per mangiare come fai?”. E poi la domanda senza risposta che il protagonista fa a Vernaschi (“C’è un bar laggiù, vero?”). E poi di nuovo alla fine quando il protagonista chiede a Garofalo (ancora una volta una domanda senza risposta) “Dove andiamo a mangiare?”. Sono tre passaggi totalmente ininfluenti ai fini del funzionamento del racconto ed è probabile che chi lo legga non li noti neanche. Io però so che sono i tre resti dell’idea iniziale (l’ossessione per la ricerca di un posto tranquillo dove mangiare, la pausa pranzo vista come un’oasi di quiete nello scombussolamento di un primo giorno di lavoro) poi abbandonata

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in tutta la raccolta, i personaggi non riportano mai, nel discorso indiretto, il loro stato d’animo. Nessun personaggio dirà mai, ad esempio, "Rossi è entrato di colpo, mettendomi paura", ma, eventualmente, "Rossi è entrato di colpo. «Mi hai messo paura», ho detto io".


La differenza è fondamentale. Nel primo caso l’io narrante ci rende partecipi di un suo sentimento e per l’effetto della sospensione d’incredulità il lettore è portato a ritenerlo un sentimento sincero. Nel secondo caso non sappiamo se la frase riportata ("Mi hai messo paura") sia stata detta sinceramente o se non sia invece funzionale a qualche fine che ancora non ci è noto.


Di fronte alle frasi del discorso diretto e ai fatti riportati in modo crudo, senza descrizioni soggettive, diventa molto più difficile parteggiare per questo o quel personaggio. Io volevo che il senso di oppressione e assurdità che aleggia negli edifici aziendali emergesse da questi racconti in modo puro, oggettivo, non fazioso.


Allo stesso modo, nessun personaggio ci fa mai sapere cosa pensa di quel che accade. Frasi del tipo "La risposta di Rossi mi è sembrata sospetta" oppure "Rossi mi ha fissato come se volesse fulminarmi" non compaiono mai nella narrazione

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la descrizione di un personaggio (tra l’altro uno degli strumenti più versatili in possesso di chi scrive per dare colore alla narrazione e cercare di creare figure memorabili) rischia di divenire una considerazione soggettiva su ciò che vede il protagonista.


Se l’io narrante descrive come gli appaiono il capufficio, la segretaria, il collega, etc. inevitabilmente li giudica in qualche modo. Da qui la drastica decisione di non descriverli mai. Si genera così un doppio effetto, utile ai fini estetici della raccolta: da un lato tutti i personaggi sono appiattiti su una sagoma neutra e dunque rispecchiano l’appiattimento cui si tende in azienda; dall’altro lato il lettore è costretto a considerare la narrazione senza farsi influenzare dalla fisicità dei personaggi, limitandosi dunque a ciò che viene riportato, detto, descritto.


E, alla fine, a me sembra che i personaggi (non tutti, certo), vengano fuori dalle pagine, nonostante li abbia privati della loro dimensione fisica. Penso ad esempio al furente Ferrario (Il topo respira ancora), alla scrupolosa Bacalini (Non sopporto le cimici), all’insopportabile Romoli (L’uccellatore).


I punti critici sono diventati punti di forza: spesso chi scrive si appoggia comodamente sulla propria varietà lessicale e inizia a inanellare aggettivi, non sempre efficaci. Se invece io mi impongo di non descrivere un personaggio, di non dire nulla di lui, di non giudicarlo, sono poi costretto a inventarmi qualcosa che lo renda riconoscibile al lettore, che lo imprima nella sua memoria. E questo qualcosa non può essere un dettaglio fisico, sopracciglia folte, particolari dell’abbigliamento, ma deve necessariamente essere ciò che fa e ciò che dice

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i sei racconti della sezione centrale sono stati i più difficili da scrivere, perché mancavano di quel tratto dominante di cui invece disponevano la prima e l’ultima parte della raccolta (rispettivamente dunque l’entrata e l’uscita dal mondo del lavoro). L’argomento del primo giorno di lavoro, ad esempio, costituiva già una giustificazione narrativa per i primi tre racconti. Per quanto riguarda invece la sezione centrale era necessario trovare una situazione narrativa forte che catturasse l’attenzione del lettore. Bisognava dargli una coesione che poi è risultata appunto quella del dentro, dell’essere ormai entrati dentro la macchina e vedersela coi suoi ingranaggi.


Paradossalmente il primo racconto che ho scritto per la sezione Dentro è stato L’appuntamento con Leoni che è tutto ambientato fuori dall’azienda. Ma il racconto che apre la sezione (Non sopporto le cimici) è invece perfettamente in linea con il tono dell’intera sezione. Qui l’azione si svolge davvero tutta dentro l’azienda (la presentazione di un nuovo progetto al proprio Direttore), si fa riferimento a episodi passati (una precedente presentazione miseramente fallita) che radicano i protagonisti in un vissuto comune e nessun personaggio estraneo all’universo-azienda compare nella narrazione (come invece accadeva sempre nei tre racconti precedenti in cui il comune denominatore era dato proprio dalla presenza di uno spaesato neoassunto). Non sopporto le cimici mi sembrava così un ottimo modo per inaugurare la sezione centrale

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l’idea del racconto nasce da un episodio che non ho vissuto ma mi è stato riferito. Un giorno, ai tempi del mio lavoro come "operatore grafico" nelle dirette televisive, dovendomi assentare ho lasciato la postazione a un ragazzo che aveva cominciato da poco a lavorare insieme a me. A diretta iniziata il ragazzo commise un errore e fu preda di un vero e proprio attacco di panico. Un’altra persona presente in regia si accorse della cosa e lo toccò per scuoterlo. Mi raccontarono poi che il ragazzo era praticamente "paralizzato dal terrore” e che “il suo braccio sembrava di marmo” (questa espressione viene ripetuta da Stazza nel corso del racconto). Il ragazzo fu portato di peso in infermeria dove si riprese dopo pochi minuti

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c’è anche un’epifania sinistra, quella del "malocchio" (il momento in cui l’io narrante passa sotto la scala e l’operaio lancia quella che sembra essere una maledizione silenziosa), argomento che mi è totalmente estraneo, ma che in questa raccolta ho usato per rafforzare l’atmosfera di totale sgancio dal reale, dalle sicurezze concrete. Il punto è che le aziende vengono viste come luoghi aridi, estremamente razionali, asettici. Invece, per me, è vero proprio il contrario. Io ci vedo un numero incredibile di elementi occulti, sulfurei, soprannaturali. Le aziende per me sono il territorio del diavolo

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9 Responses to “Il retrobottega di Federico Platania”

  1. Sto leggendo il libro di Raffaele Mangano “Andiamo a bere la pioggia”, poi leggerò “Buon lavoro”.

    Difficile dimenticare icl:-)

    Bart

  2. michele says:

    Mi sento al margine di un già margine letterario. Non ho letto buon lavoro, è nulla è diretto sia al libro che all’autore. Il mio margine è l’incomprensione, come io facessi parte del club, “io non capisco, ci sei anche tu?”. Poi d’un tratto mi viene il dubbio, che diventa sempre più certezza, di non aver capito nulla. Personalissimamente, perdonate la nota “io”, credo che un personaggio sia solo strumento dell’idea, ed è il perchè dell’idea è la ricerca del chiaro, della fuga infinita, dei muri inventati o reali, delle presunzioni, delle finte presunzioni, insomma l’inseguirsi fino ad ammettere le cose come stanno a rendere ridicola la funzione dello scrittore, se è solo quella. Attenzione, in questo caso credo che funzione(materialmente scrivere) è solo fine a se stessa, quindi solo proiezione.Quindi, due volte quindi, si deve partire, se si è mai partiti, di nuovo. Letturalenta è, e naturalmente non è, nota polemica. Vacci a capire qualcosa?

  3. melpunk says:

    sono convinto che sia un’esperienza addirittura “illuminante”. serve davvero acomprendere “cosa” sia un’opera letteraria, insomma. pensa che a volte trovo interessante perfino i rileggere, a distanza di mesi o anni le mie note relative ai miei racconti. saluti
    mel

  4. letturalenta says:

    Bart, come già ti dissi, sono sicuro che Buon lavoro sarà per te una buona lettura.

    michele, sentirsi ai margini è normale quando ci si interessa di libri, e anche non capirci niente è normale (e non è detto che sia un male).

  5. letturalenta says:

    Proprio così, mel. Tra le mie letture preferite metto senz’altro le riflessioni degli autori sul loro lavoro, che di solito non considero “biografia” in senso stretto, ma piuttosto esercizi di autocoscienza.

  6. michele says:

    Ora mi è tutto chiaro, “De docta ignorantia” , una sottrazione di pluralità all’infinito. Un ombellico verdeggiante di pascoli arcaici. L’urlo nell’arena, ed il salto nello spazio. PerDiana, ci si fa una ragione, ci si può anche appendere il cappello, infondo ombelico più, ombelico meno, chiarezze, purezze, bianchi, tesi cristalline, intelligenze piegate, sempre in trasparenza naturalmente, ormai non sò dimmelo tu, solo nella dotta stupidagine. Tutto che mangia tutto, sopratutto me.

  7. melpunk says:

    a questo proposito, se ti interessa, leggi i taccuini di henry james. io ne ho un’edizione di qualche anno fa di theoria. tanto per citarne uno

  8. Secondo me non bisognerebbe mai aprire troppo il retrobottega. Un po’ sì, va bene, ma quello che conta è la bottega.
    Nicolò

  9. letturalenta says:

    A proposito di bottega e di Philip Roth, c’è giusto giusto un suo libriccino che si intitola Chiacchiere di bottega, Einaudi, che raccoglie interviste, lettere e saggi tutti più o meno centrati sul mestiere di scrivere. C’è anche una splendida intervista di Roth a Primo Levi che da sola vale la spesa.

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