Pro o contro Pizzuto? Un dialogo di Gualberto Alvino

Antonio Pizzuto negli anni '20, tratto da www.lavieri.itSettima puntata della pizzuteide di letturalenta (si veda la categoria Pizzuto per l’elenco completo degli interventi) e secondo contributo del battagliero professor Gualberto Alvino, che non ringrazierò mai abbastanza per la sua disponibilità. La pizzuteide, come sanno i lettori più affezionati, è la mia privata celebrazione di Antonio Pizzuto nel trentennale della morte. Pizzuto è uno dei maggiori autori italiani del Novecento, nonché uno dei meno conosciuti in Italia. La sua scarsa notorietà deriva soprattutto dal suo essere un autore difficile, che molti critici, anche tra i più esperti e qualificati, non hanno esitato a definire illeggibile.

Il punto è che Antonio Pizzuto non accetta letture distratte e frettolose, ma al contrario costringe il lettore a lavorare, a faticare, a conquistare il testo quotidiano col sudore della fronte. Queste sue parole, riportate nell’articolo di Alvino, rendono bene l’idea:

«Il problema della comprensibilità è questo: che il lettore deve educarsi a comprendere quello che legge, non che lo scrittore deve sforzarsi a fargli capire, perché sennò diventa Fröbel lo scrittore, no? Noi non abbiamo preoccupazioni pedagogiche, l’autore non ha preoccupazioni di questo genere […] Il lettore non interessa, il lettore non deve interessare. Lo scrittore non deve preoccuparsi del lettore. Io avrò venticinque lettori, forse meno. Ma che cosa mi importa?»

Sono parole che fanno pensare molto, specialmente in questi tempi in cui sembra dominare l’idea che la letteratura debba per forza essere portatrice di un messaggio, che debba comunicare qualcosa, che debba competere con altri mezzi di comunicazione. Antonio Pizzuto costringe a ripensare da cima a fondo questi luoghi comuni, e a ribaltarli.

Comunque, bando alle ciance. Vi lascio alla lettura dell’articolo di Gualberto Alvino, che ragionando su Pizzuto tocca questa e molte altre questioni di notevole interesse. Chi soffre la lettura a video può scaricarlo in formato pdf (176 KB) e stamparlo.

GUALBERTO
ALVINO

Tra biscia e camaleonte

Dialogo dello scettico e
del fautore

(Da «Il Caffè illustrato», n. 24,
maggio-giugno 2005, pp. 32-41)

Scettico. Mi dispiace che lei la prenda così. Del resto, quando ci si fa strenui partigiani degli esiti estremi di Pizzuto, bisogna pure attendersi qualche dissenso. Capisco benissimo le sue ragioni, ma io voglio sentire il reale al fondamento di tutto. Realtà. Umanità. Normali connessioni logiche. Odore di storia. Di verità. Vuole condannarmi per questo?

Fautore. Lo stile, egregio signore, lo stile è l’unica realtà estetica. La letteratura è un fatto di lingua, pertanto il suo proprium consiste nell’organizzazione formale dei contenuti. Il vero e solo significato si annida fra le crespe del significante. Ormai dovrebbe essere un dato universalmente acquisito, invece, a quanto pare…

Scettico. Non lo nego, ma un’opera narrativa che si sottrae all’immediata comprensione (anzi: alla comprensione tout court) è un controsenso, ne converrà lei stesso. Lei pone la questione in termini troppo netti: Pizzuto sì, Pizzuto no. E ipotizza che io ne sia un negatore. Non è affatto così. C’è un Pizzuto uno e due, e il primo — quello di Avignone, Rosina, Bambole — è straordinariamente vivo e vitale, in quanto è ancora realismo, ancora realtà, benché il suo mondo sia terribilmente piccolo-borghese: come dire? eleatico, convenzionale. Non per gli argomenti, beninteso. Per il modo di accostarli. Un modo che denuncia la mancanza di un dramma autentico della coscienza, di un senso tragico della storia. Da Paginette in poi è inutile cercare trame, perché non esistono; s’incontrano pezzi stupendi, è vero, variazioni magistrali, ma il più annega in un mare di virtuosismi che ci si stanca di ammirare. La parola pare librarsi in spazî altrettanto inabitabili quanto i buchi neri di cui parlano gli astrofisici. Sordità mia, ma ho l’impressione di trovarmi di fronte ai detriti di un eroico naufragio.

Fautore. E le pare niente? Non basterebbe questo a rendere appetibile un autore? Mi lasci dire che la sua eccezione è quantomeno singolare e, per dir tutto, pretestuosa se si considerano, a parte le avanguardie, precedenti come Ulysses o Finnegans Wake, da decennî metabolizzati perfino dal consumatore meno eletto. Chi, come Pizzuto, giunge a respingere in toto il nesso di causalità — e dunque i fondamenti istituzionali della logica —, dichiarando esplicitamente di cominciare «da dove il fatto cessa di avere una validità, anche quale antefatto», e di agire fra le pieghe, sul ritmo, sulla musica, non può non reputare l’intreccio tradizionalmente inteso (solido, trasparente, placidamente consequenziale, specchio d’una perfetta armonia tra uomo e mondo) una griglia artificiosa, utile solo a trasformare la narrazione in un arido processo registrativo. Quanto dire struttura avverso poesia, ritratto contro risonanza interiore.

Scettico. Ma perché il filo degli eventi è esposto a continue lacerazioni? Saper gestire l’intreccio non è una delle doti basilari del romanziere?

Fautore. Per il semplice motivo che importa non già verbalizzare la realtà («Dove termina questa? Anche i sogni non sono forse realtà? Che vogliamo dire con questa parola?»), ma intercettare la vita quando è ancora battente, in divenire, per restituirla al lettore in tutta la sua vorticosa mutevolezza. Pizzuto a Margaret Contini: «Il iv [di Sinfonia] è tutto pervaso dallo spirito del 1° giugno, ma bisogna avvertirlo più che ritrovarlo in re: non ve ne sono che i riflessi e l’ essenza, niente del fatto».

Scettico. Non il fatto, ma la sfaccettatura…

Fautore. Non la storiografia, bensì la storia: «Se noi vediamo la stoffa di questo vestito che tu indossi, la guardiamo e, a un certo momento, vengono fuori delle domande istintive: da quali erbe tintorie sono tratte le essenze che sono servite a colorare la stoffa della gonna che porti? Quando è stata raccolta questa essenza? Da chi? Chi erano questi uomini? Ci sono più? Se ne sono andati? Avevano figli o non li avevano? Tutte queste domande noi ce le rivolgiamo non per un pettegolezzo, ma per avere tanti riferimenti quanto più è possibile, che ci permettano di identificare la nostra esistenza di quaggiù, con quello che noi speriamo, con l’eterno. Sono una quantità di domande, fallendo una sola delle quali noi sentiamo venir meno la nostra certezza, la nostra sincerità. Ora, trovare una risposta a tutte le domande che ci sorgono spontanee e che hanno questo scopo determinato è importante. Non sono delle domande oziose, non sono delle domande di lusso, ma sono domande essenziali. Dire: “Perché hai messo quel gioiello?” Non so, la domanda viene ad acquisire dei valori assoluti (se, pure, si può dire ‘valore assoluto’, perché sono due termini in contrasto l’uno con l’altro). Questo è un punto essenziale. A quel modo che il verificatore dei biglietti della Banca d’Italia concentra l’attenzione sulla omissione o aggiunta di elementi che non ci dovrebbero essere o che ci dovrebbero essere e non ci sono. Quindi, questa è la storia».

Bisogna rassegnarsi all’evidenza: l’arte del prosatore siciliano non contempla, in ciò, alternative possibili. È così difficile prenderne atto e rinunciare al proprio orizzonte d’attese?

Scettico. La verità è che Pizzuto ingrandisce al microscopio una lotta di formiche e la spaccia per una guerra fra tirannosauri. È bravissimo. Ma vuole illuderci che una scala superiore non esista. È un deviatore, un divertitore, un pacificatore. Ciononostante un validissimo scrittore, non ho alcuna difficoltà ad ammetterlo…

Fautore. Tutti dicono così, perfino qualche pizzutista di vaglia, nascondendo in tasca il pollice verso.

Scettico. … ma già Ravenna segna il punto di non ritorno nella sua folle evoluzione stilistica da alpinismo di sesto grado, e — come dicevo — a partire da Paginette ci troviamo dinanzi a stupefacenti, astratti emblemi che rivelano l’assoluto vuoto delle esperienze umane. Questo è un dato incontestabile.

Fautore. Qui è il punto: che significato, e soprattutto quale valore dobbiamo attribuire, in letteratura, a questo concetto? La forma, anche se ostica e impervia, quando è energia trasfiguratrice, non è esperienza umana? E la musica, ancorché semanticamente muta, non è forse la più sublime delle esperienze umane? O per e. u. intendiamo esposizione, preferibilmente piana e cristallina, di fatti e vicende concernenti ee. uu.? Se intendiamo questo, Pizzuto non può parlarci, come non possono parlarci i maggiori poeti dell’altro secolo. Dico poeti, badi bene, perché Pizzuto, da Sinfonia in poi, non ha più voluto narrare un bel niente («Non le cose, ma la poesia delle cose io sento di narrare. Allora la distanza fra prosa e poesia si restringe e contrae»): natus ex se, ha fatto musica con le parole, inventando non solo un sistema di apparecchiature espressive ontologicamente autosufficienti e latrici di una sensibilità inaudita, ma un modo d’essere della letteratura, rispetto al quale tuttora non possiamo dirci posteri.

Provi a leggere Pizzuto come legge Mallarmé, e il suo giudizio muterà di colpo.

Quanto alla «scala superiore», lei avrebbe il coraggio di asserire che il Giudizio universale vale piùdelle puttane di Picasso? Io dico che in arte il martirio del Figlio non ha maggiori diritti del sospiro d’un batterio.

Scettico. Ritmo, musica… Confesso di non essere completamente insensibile a certe suggestioni; tuttavia concordo con Segre quando afferma che «l’impianto musicale della prosa pizzutiana dice che lo scrittore non s’è posto in modo critico, giudicante, di fronte alla sua materia […] Se il narrare di Pizzuto voleva essere una rivalutazione della vita contro la pietrificazione del racconto tradizionale, bisogna concludere che l’ultimo Pizzuto viene spinto a una nuova pietrificazione: quella dello stile, del suo stile, ormai sovrapposto violentemente alla materia narrata; la vita scorre lontana, forse offesa». I contenuti, prosegue il critico, restano inalterati, come se Pizzuto continuasse a «rivangare, inesauribilmente, una stessa storia, la sua […] Parole e costruzioni eterogenee, invece di “fare a pugni” fra loro (traumatizzando, secondo volontà dello scrittore — vedi Gadda — chi legge), glissano dall’una all’altra, secondo una successione magari vertiginosa di toni, che però trovano il loro accordo in un intuibile spartito[…]. Già sarebbe sintomatico un censimento dei sentimenti: ironia, malinconia, struggimento, rassegnazione, evasione contemplativa sono le coloriture percepibili più spesso nelle pagine di Pizzuto (rare invece le ribellioni, le condanne, le polemiche) […]. Alla “gaddian” società lombardo-piemontese, pluristratificata, mobile, tesa all’affermazione economica, e soggetta pertanto alle crisi, ai rigurgiti, alle goffaggini della continuamente cercata adeguazione al mutare dei tempi e delle fedi, fa riscontro nell’ opera di Pizzuto una società molto più statica e conservativa».

Referto impeccabile, non trova?

Fautore. Mi dica: in virtù di quale inviolabile legge lo scrittore dovrebbe obbligatoriamente temprarsi al fuoco sacro della storia e al suo senso tragico, rappresentare la società e insieme sottoporla a giudizio, pena l’affondamento nelle sabbie mobili del più vacuo atletismo formale? Pretendere che il Nostro giudichi è come accorciare il collo alle creature di Modigliani. L’essere delle cose — sostiene Pizzuto contro il determinismo meccanicistico, in perfetta sintonia col pensiero di Cosmo Guastella — non è che l’essere percepito, poiché l’oggetto conosciuto dipende esclusivamente dal soggetto senziente: «Noi non possiamo conoscere che i nostri giudizi. Noi non siamo però i nostri giudizi, siamo vita. Intanto, questo pure è un giudizio: donde un dualismo insuperabile, essendo ben chiaro che giudizi e vita si presuppongono a vicenda e che ogni tentativo di risolvere tale dualismo conduce ulteriormente e sempre ad analoghe affermazioni. Lo scetticismo è pure un giudizio, così come qualsiasi istanza definitoria, che anch’essa vi riconduce in perpetuo o, più esattamente, adduce a traguardi tautologici».

Se lo spirito è un fatto, la materia è un’ipotesi: «Dunque la nuova narrativa detesta le forme troppo definite, preferisce un pergere a qualche un fanciullo andava e così via. Ciò non toglie nulla al passato, ma noi non siamo passato, poiché il tempo non è un oggetto, ma un processo da punti di arrivo ad altri punti di arrivo, con l’io in epentesi (altra ragione di invalidare la storiografia); come lo spazio non è un oggetto, bensì possibilità (= spazialità), con noi ancora in epentesi». E siamo al cuore della poetica pizzutiana: una poetica di straordinaria apertura all’interazione (contuizione il termine tecnico), incardinata sulla sospensione del giudizio congiunta al più radicale indeterminismo. Di qui l’olimpica atarassia dell’artefice — mai lambito dal flusso vitale che scorre sotto i suoi occhi bonariamente ironici — e l’annientamento di tutte le gerarchie, con l’inevitabile omologazione dei contrarî (o anche solo dei diversi) che ne discende: il presente al passato, il superfluo all’ essenziale, il verso alla prosa, il discorso diretto alla voce autoriale. L’infinitesimo all’universale.

L’errore è credere che lo stile stia da una parte e la materia narrata dall’altra, quando si tratta di un binomio inscindibile. Di un’equazione. Lo stile è la materia. E viceversa.

Scettico. Da questo riguardo il filologo piemontese è al di sopra d’ogni sospetto: a lui si devono memorabili analisi di carattere…

Fautore. Mi lasci finire, la prego. In quel saggio, non meno prezioso che discutibile, Segre scrive che in Pizzuto la ricchezza sinonimica consente «di fissare in brachilogie efficaci ciò che si stempererebbe altrimenti in particolari o in locuzioni lise», e allega fra gli altri un brano di Ravenna, che incarna splendidamente uno dei tratti fondamentali dell’umorismo pizzutiano: l’antropomorfismo degli oggetti (nella fattispecie, una banale azione dattilografica straniata in un pervicace duello di dignità guerriera):


Per ogni battuta, repentine erigentisi dall’anfiteatro, calavano le dotte leve fulminee a beccare il foglio. Col primo errore quella predestinata subito era addosso alla falsa, accavallamento, l’accorrere della terza, sveglia la quarta, giù quinta sesta settima formando capanna; poi separate da tali corpo a corpo esse ricadevano umili nei loro alvi.

«dove — chiosa il critico — con anfiteatro si sintetizza la disposizione dei tasti della macchina da scrivere, in beccare il foglio si concentra la morsura operata dai tasti sulla carta, con formando capanna s’indica il loro aggrovigliarsi quando sono premuti contemporaneamente». Sorvolando sul fatto che anche il verso più celebrato di padre Dante, «e quindi uscimmo a riveder le stelle», se ridotto all’osso semantico, si stempererebbe in una «locuzione lisa» come ‘e di qui uscimmo all’aperto’, forse che Gadda — da Segre amatissimo —, parlando di una serva analfabeta non giunge a scrivere: «Gli occhi, pieni di un cattivo epos, arpionarono quelli enfiati e rossi del medico»? E a proposito dei lamenti d’un’infortunata che esclama «Madonna, Madonna, la gamba, la gamba»: «non finiva più di emettere senarî a coppie dalla bocca scontorta»? Eppure si tratta dello stesso artificio, o m’inganno?

Scettico. Quella che i semiologi chiamano transcodificazione: una trasformazione di senso dovuta a cambiamento di codice.

Fautore. Per l’appunto. Quanto al resto, eleatico è Gadda, amico mio, perché se il suo mondo è mobile e pluristratificato, lo sguardo resta sempre il medesimo. Sempre. E in letteratura è l’occhio che conta, non l’oggetto osservato. Mi creda: non esiste autore più eracliteo di Pizzuto, e se avrà la buona grazia di prestarmi orecchio vedrò di provarlo in modo tangibile.

Scettico. Non chiedo di meglio. Sarò un lettore sprovveduto, istintivo, ma ho tanta voglia d’imparare.

Fautore. Ribellioni. Condanne. Bisogna innalzare barricate per meritare la qualifica di ribelle? Non è segno di rivolta l’inquietudine d’una scrittura che interroga perfino se afferma, e séguita a investigare — in un’ansiosa ricerca di sostrati e rispondenze — anche quando sembra aver trovato («Che nascondi, pensiero?»)? Non è condanna dell’ovvio e del prevedibile, del saputo a pro del conoscibile, il fatto che tutto in lui sia sottoposto alla centrifuga del dubbio e viaggi in perpetuo all’insegna della mutazione, dell’autorinnegamento, della transustanziazione elevata a canone? Tra biscia e camaleonte.

Scettico. Lei è molto abile, ma non riuscirà a convincermi che…

Fautore. Proprio così. Transustanziazione. O, se vuole, reincarnazione. A cominciare dalla punteggiatura, che è semantica e insieme ritmica; prenda il punto in alto alla greca: cos’è, se non una terza via interpuntiva fra virgola e punto e virgola, aspirante a una concertazione più facoltosa, rastremata? Idem la minuscola dopo il punto fermo. E che ne dice di una frase come «Allora respinto il piano di sorprendere in movimento l’esercito era inverso a difesa», in cui esercito, grazie alla posizione mediana, non si contenta d’essere oggetto di quanto precede, ma si spacca in due, tramutandosi anche in soggetto del séguito?

Tra biscia e camaleonte è pure il congegno neologico dell’ultimo Pizzuto, sempre meno confinabile nel carcere della definizione univoca, vettore di un’evasività semantica e d’un’ambiguità metaforica senza confronti. Come altrimenti configurare il formidabile concentrato di polisemia d’un tartineggioso?

Scettico. Ricordo bene quel passo di Giunte e virgole: «tenue il corista modulante cadenza pei recitativi, in rima la cavata, pedale tartineggioso».

Fautore. Perfetto. In cui, se al linguista compete la mera documentazione del processo genetico (risalire al compositore e fisico acustico settecentesco Giuseppe Tartini), al critico incombe il dovere poco meno che intrepido d’attivare la più ampia gamma di dispositivi esegetici, movendo dal parallelismo fra il terzo suono scoperto da quel musicologo e l’andamento ascendente dell’epiteto-quinario, per giungere alla ragione dell’opzione suffissale: non, allora, il puro –oso, ma –eggioso, al fine di evocare la monotonia ripetitiva (uggioso) peculiare sia alla struttura del terzo suono sia, metaforicamente, alla melodia azionata da quel pedale; ripetitività enfatizzata in sede retorica dall’iterazione del fonema /t/.

E deve armarsi di altrettante strumentazioni interdisciplinari chi voglia penetrare la multiforme natura di zelada: «troppa la fronte, collinosa e zelada»: indubbiamente participio passato di zelare, ma come trascurare la lenizione iberizzante che allude (forse) alla tradizione ritrattistica spagnola da Velázquez a Goya? Ah, non conosco onomaturgo più gustoso, più divertente di Pizzuto.

Penso a sfincterallasvega, univerbazione di sfin(c)tere, a e Las Vegas, una vera e propria “riscrittura”: «E allora il Gadda […] in quell’affare del ducato in fiamme […] aveva detto che lo sfintère di quello là aveva ceduto di fronte a uno di quei maccheronici drammetti che mette lui, e allora io questo ’ho migliorato, perché l’ho fatto diventare una slot-machine, quella che fa precipitare i soldi, e ci ho messo “sfincterallasvega”, perché si chiama Las Vegas il posto lì, nel Nevada […]. Credo di averlo perfezionato rispetto a Gadda. Quello suo è troppo realistico e puzzolente».

Penso ad alapigno («che smaniasse bene il marito a.»), dal lat. alapa (dial. alapata) ‘schiaff ’ col suffisso –igno: ‘manesco’.

Allo stupendo alzillo («nunzio usciere a soprana a.»), incrocio di alzare e arzillo: ‘lesto a scattare in piedi’, per ossequiare il superiore che passa.

A gemuli («G. a raccattarsi pian piano cocci testé omenti di fulgidi silicati»), incrocio di gemente e tremulo; ma forse anche da gemere che, nell’Italia settentrionale, acquista talora il significato di ‘trasudare, stillare’.

A giuliettislazuli («g. digesti novelle enigmi»), dalla shakespeariana Giulietta e lapislazuli: «Ho foggiato [questa voce] mediante un suffisso prezioso a un nome che dice tutto, per rappresentare ciò che si percepisce, attraverso le sottili pareti, da una moderna camera quando la animano sposi in luna di miele».

A romualde («Alimenti inflitti, r. veglie»), perfetto e pieno come un uovo: da San Romualdo, fondatore dell’eremo di Camaldoli, del quale si dice non sopportasse una fissa dimora: ‘smaniose’; ma anche dall’antico romire ‘rumoreggiare’ (qui comicamente, in senso “dantesco”) col suffisso  aldo.

A tetrorchide («stridere la pantera t.»), da tetra- e dal greco órchis ‘testicolo’ col suffisso –ide: ‘dotata di quattro testicoli’: i quattro agenti della Volante, allora detta “pantera”.

A tritmiche («liquidità t. rinterzanti gli azzurri»), dal greco tmetós ‘tagliato’ col prefisso tri : ‘ritmicamente tripartite, caratterizzate da tre ritmi’.

È evidente come, in quest’ottica, ogni traguardo si converta fatalmente in punto di partenza, ogni prospettiva spalanchi a innumerevoli fughe, nell’infinita circolarità — feconda e insieme disperante — d’una visione poetica che è soprattutto chiave di conoscenza e civiltà. L’universo in una pallina da tennis.

Scettico. Una pallina che non rimbalza, perché più dura del diamante, e si resta lì, con la racchetta in mano, esclusi, disorientati, increduli. Riconosco la sua grande capacità d’impressionare e coinvolgere. Ma è un suo merito. Pizzuto c’entra ben poco.

Fautore. Non crede che l’efficacia e la complessità della parola critica siano perfettamente misurabili sulla complessità e sull’efficacia dell’oggetto esaminato? Ma il discorso ci porterebbe lontano. Mi lasci continuare.

Ha ragione, la lingua di Pizzuto (e chi dice lingua dice mondo, non lo dimentichi) è più dura del diamante. Ma altrettanto cangiante, prismatica, nient’affatto statica e conservativa, come lei afferma sulla scia di Segre. Guardi il sostantivo, che abdica alla sostanza per farsi qualità, aggettivo («aria tramonta», «occhi perle», «salamine», «trafàlgare») o avverbio («serpere pantere cobra» ‘le pantere strisciano come cobra’) o per trasformarsi addirittura in preposizione.

Scettico. Lei si prende gioco di me. Come può un nome mutarsi…

Fautore. In preposizione, certo. Qualche esempio? In Pagelle I abbiamo «bassorilievo parete» nel significato di ‘calorifero’; in Pagelle II «sboccanti giù soglia galleria» e «cenere lì lìorlo sigaro»; in Ultime «come nelle carte napoletane, groppa cavalspade» e «autonomo ingegno bassorilievo facciata»; in Penultime «epe ciondole belvedere». Pizzuto: «Lì c’è un termosifone: questo termosifone è contro la parete, insomma si può trovare una forma preposizionale per dire com’è. Ma se io, invece di questo, uso un nome appropriato, la figura diventa un’altra. Se io dico, invece, che il termosifone è “bassorilievo parete”, è un altro il valore. Non mi pento di averlo usato, perché è molto più espressivo. Mi spiego: semanticamente sarà più espressivo chiamarlo radiateur, come lo chiamano i francesi, ma che abbia il valore poetico di questa immagine, che dà proprio la plasticità dell’oggetto, questo no».

Scettico. Non sono d’accordo. In realtà il sostantivo in questione, nonché dissolversi incarnando un ruolo esclusivamente preposizionale, se ne appropria conservando intatta natura e funzione nominale. L’espressione «bassorilievo parete» in che modo sarà da intendere se non ‘bassorilievo alla, sulla parete’? Salva, naturalmente, la valenza poetica dell’operazione.

Fautore. Complimenti: valenza poetica. Lei tocca il punto cruciale.

Scettico. Si tratta pur sempre di minuzie. Formiche, non tirannosauri. Mi rifiuto categoricamente di ridurre l’arte a un repertorio di innovazioni grammaticali.

Fautore. Non è il solo, gliel’assicuro. Ma segua il mio ragionamento. Apro a caso un manuale di storia dell’arte di medio calibro e leggo questa nota sulla Battaglia di San Romano: «La prospettiva delle battaglie di Paolo Uccello rimane una proiezione sul piano: e sul piano si scompongono le figure nell’astratta geometria delle armature, sul piano si scompone il chiaroscuro formando zone giustapposte, sul piano si risolve il rilievo rappresentato dalle curve perfette dei contorni, sul piano il colore forma come un intarsio di zone piatte e ritagliate, sul piano la luce si immedesima col colore». Di che si parla se non di forme e di strutture, ossia di grammatica? Il guaio è che la critica letteraria si ostina a sostituire le leggi delle cose alle leggi dei segni che le esprimono, e per questo è distante anni luce dalla critica d’arte. Contini: «Ogni posizione grammaticale è una posizione gnoseologica». Altro che formiche! Come non riconoscere che la lingua è tutto, e che l’osservazione ravvicinata del tessuto grammaticale può consentire una vista molto più generale e panoramica di qualunque altro approccio?

Però, mi scusi, non ho ancora concluso il mio discorso sulla transustanziazione.

Scettico. Prosegua pure, ma resto dell’avviso che un lettore non possa e non debba necessariamente comportarsi come un anatomopatologo. Chi narra ha un solo compito, un solo fine: quello di comunicare il più efficacemente possibile col destinatario della sua operazione: il fruitore. Preso per concesso che Pizzuto sia — come lei proclama — uno dei massimi scrittori del Novecento, che ne è di un genio se la sua opera non viene letta? Quanto quell’opera è grande o si può considerare tale?

Fautore. Se non in buona, lei è in folta compagnia, gliel’ho già detto. Anni fa, a un giovane critico d’assalto che definì Pizzuto «lo scrittore più virtuosistico ed algido del nostro Novecento», un portatore di «asperità formali», un «atleta dello stile» che è doveroso emarginare «là dove lo si può più facilmente trovare: pressoché invenduto su un banco di Remainders in qualche mercato dell’usato» obiettai quanto segue: «Come si distingue un libro buono da un libro cattivo? Facile: basta calcolare il numero delle copie vendute. Un romanzo finisce a Remainders? Ebbene, è un pessimo romanzo». Lei pensa davvero che un libro di successo sia, solo per questo, un grande libro, e che la risposta del pubblico conti più del due a briscola? Sul tema della ricezione Pizzuto ebbe parole definitive; ascolti: «No, il problema della comprensibilità è questo: che il lettore deve educarsi a comprendere quello che legge, non che lo scrittore deve sforzarsi a fargli capire, perché sennò diventa Fröbel lo scrittore, no? Noi non abbiamo preoccupazioni pedagogiche, l’autore non ha preoccupazioni di questo genere […] Il lettore non interessa, il lettore non deve interessare. Lo scrittore non deve preoccuparsi del lettore. Io avrò venticinque lettori, forse meno. Ma che cosa mi importa?».

La vedo pensieroso, e ne ha ben donde. Torniamo a noi. Lei dice grammatica; e i personaggi, allora? Si moltiplicano, slittano l’uno nell’altro, scompaiono, riappaiono, si lasciano supplire fino alla rimozione totale. Prenda Signorina Rosina: sa quante volte si reincarna Rosina in quel romanzo? Rosina I: la vecchietta deforme e paralitica che vive in casa di Bibi; Rosina II: la zingarella del Luna Park che ricuce un bottone a Bibi; Rosina III: la cuoca del seminario dove Bibi è ospitato; Rosina IV: si chiamano tutti Rosina gli asinelli che trasportano studenti e sismologi nella zona terremotata; Rosina V: è Santa Rosa il nome dell’isola-penitenziario in cui Bibi lavora al restauro di un muro; Rosina VI: ha nome Rosina la nave che porta Compiuta sull’isola; Rosina VII: «Di Fausto non c’era che una zia, la signorina Rosa»; Rosina VIII: la figlia del capoguardia dell’isola che canticchia «Arriva la banda».

Scettico. Un caso unico. Direi sconcertante.

Fautore. E il Foco di Ravenna? Senta qua: «Molti mi hanno frainteso, perché il personaggio sul quale gioca l’equivoco, il personaggio è completamente cambiato, il personaggio è un altro. L’unità è data dalla casa, è la casa che è rimasta uguale, ma il personaggio con il quale si chiude il libro è un altro».

Scettico. Affascinante, lo ammetto. Ma lei insiste sulla prima stagione. È l’altra fase, quella astratto-informale, che trovo repellente. Perché, scusi, non avere il coraggio di salutare nell’ultimo Pizzuto la totale e totalitaria insignificanza? Credo si sentisse spogliato d’ogni materia, come avrebbe voluto fosse la sua scrittura…

Fautore. Astrazione? L’esatto contrario. Un corretto e spregiudicato campionamento dei dati consente di rilevare la disarmante minimalità di quel riconoscibilissimo microcosmo popolato di pensionati, casalinghe, muratori, impiegati, caldarrostari, maestrine, vedovelle e lor consolatori, galline, agli, tartufi, veglie, prosciutti cotti un pochino, la regina Pomarè nuda come dio la fe’, in pacifica convivenza con suntuose elucubrazioni sui massimi sistemi. Ecco, allora, le galline farsi democritiche, l’aglio trionfatore, romualde le veglie: donde lo spaesamento, la suprema ironia e il conseguente effetto di nebulizzazione informale, di cubistica scomposizione. Ma si tratta solo di effetti.

Insignificanza? Mi permetta di leggerle alcuni brani di Giunte e virgole, uscito in edizione critica nel 1996:


Cieli altissimi retrocedenti lumaca alle vette arboree, e mai del tutto in tenebre, raro che stellati, urgervi incontro tumultuoso un gran fiume, greve di moli


Vigilia; una spesa grossa dal macellaio, poi giù in piazza per pagliaccetti, balocchi, calendole, martagone.
Con aiuto del portinaio fante sopraccarica, roba in porto, gli apparecchi solerti, odorini ghiotti, gran soffi vaporieri la casseruola extrastrong a martirologi


Tristezza, perché non trasformarti in sorriso, lui ognora ben pronto a rivestire il tuo saio?


Ricondursi nel silenzioso alberghetto di smorzo, riscaldato così da starvi nottetempo finestre aperte; nessuno incontrando mai in corridoi o passaggi, stabile con l’ingresso un sentore sui generis. Mattinate di esami; poi la ceruta trattoria, ivi ambiguo unibile gusto da mandarino a stufato

Vede? Nulla di più figurativo. Il primo brano ha una musica, una potenza che non esiterei a definire dantesca, e l’unica deviazione dalla lingua standard è rappresentata da lumaca, nome-avverbio che significa ‘con la lentezza di una lumaca’. Il secondo non ha bisogno di spiegazioni: è più perspicuo del più terso cristallo (forse troppo perspicuo, troppo realistico, troppo minimale, ma insignificante no davvero); un ostacolo alla comprensione immediata può esser dato dalla «casseruola extrastrong a martirologi», e l’apparato genetico soccorre alla nota 7: «soffiare |gran soffi| |soffi| da vaporiera |da casseruola| a pressione in martirologio»: si tratta d’una semplice pentola a pressione. Sul terzo (che è un’intera pagella) che dire? chiaro come la luce del sole; lo definisca poesia, petit poème en prose, ma non dica che non significa un fico secco. E il quarto? Ammetto che quel ceruta è quanto mai ostico, ma stavolta è il glossario ad aiutare il lettore che vuol cercare di capire (come deve cercare di capire Finnegans wake e tante altre opere del Novecento): «Dal cognome del pittore settecentesco Giacomo Ceruti, detto il Pitocchetto per le tematiche popolari espresse nelle sue opere. ‘Misera, da quattro soldi, frequentata da straccioni’».

Scettico. Non c’è dubbio che questi passi siano, entro certi limiti, comprensibili, anche se la direzione di marcia va verso l’indecifrabile (comunque il pregio è tutto della lingua, che stava diventando cinese). Ma quella comprensibilità ci rivela un mondo orribilmente censurante e censurato, com’era del resto il mondo del suo Contini, al quale piacevano gli Scapigliati solo per le loro trasgressioni linguistiche.

Fautore. Potrei dirle che il critico domese ha sempre negato validità estetica alle manipolazioni delle forme linguistiche ereditarie fini a sé, cioè a dire non rispondenti a una profonda «lacerazione morale e conoscitiva»; potrei ricordarle che secondo lui «la mira finale d’un qualsiasi discorso su un qualsiasi autore va all’integrità di questo autore; investito da un riflettore unico, piazzato in un sol punto, con le sue enfatiche sproporzioni di luci e di ombre, è però tutto l’autore a essere colpito»; invece mi limito a richiamare la sua attenzione sul fatto che nessuno ha contribuito alla comprensione degli Scapigliati (e non solo) più del mio Contini. Almeno su questo sono sicuro di riscuotere il suo pieno consenso… Noto, però, che vengo interrotto sempre sul più bello.

Scettico. Mi scusi, ma lei è un treno in corsa, pone questioni a valanga, e se non la fermo ogni tanto rischio di finire sotto le ruote.

Fautore. Non io, Pizzuto pone questioni a valanga. Pizzuto è un treno in corsa senza freni. E sono in grado di fornirle ulteriori prove.

Scettico. Senta, perché non cerchiamo un punto d’accordo? A me pare incontestabile che le forme — spesso eccentriche, sempre estremamente ingegnose — si dispongano come pure monadi, ciascuna sufficiente a sé, in sé esplosa e consumata, senza relazione non dico con un significato generale, ma con le altre forme. L’unica legge è la falcidia, il prosciugamento, quasiché l’unica, massima aspirazione fosse la negazione della scrittura, il silenzio (ricordo che uno dei suoi primi recensori lo avvicinò a Pollock). Non solo un episodio non si riallaccia a un altro, ma neppure una frase continua nella successiva, valendo per sé in modo assoluto. A queste condizioni come diavolo si può…

Fautore. Riguardo al silenzio lei coglie nel segno. Pizzuto a Contini: «Conosco pochissimo il cinese, che adoro e considero la lingua ideale per la modesta arte mia (salvo le insufficienze della rudimentale sintassi, ma a che servirebbe dove è poesia anche l’ufficio del Registro, e in 15-16 pagine ci sarebbe tutta Signorina Rosina con più immediatezza e espressività che non consenta la nostra?)»; d’altronde Penultime si conclude con uno dei componimenti più concisi della letteratura occidentale: «Tutte vie esauste. pergere in infiniti calchi offerentisi ogni dove»: dieci parole.

Falcidia, sì, prosciugamento programmatico. Il suo è un idioletto transitaliano generato dalla fusione dei costrutti agglutinanti proprî a più sistemi linguistici (ai classici: flessione nominale, ablativo assoluto, accusativo seguìto dall’infinito, coniugazioni perifrastiche attiva e passiva; ai moderni occidentali: condensazione brachilogica, uso del gerundio, genitivo sassone; agli orientali: assimilazione di verbo a sostantivo) in una progressione geometrica verso strutture essenziali — minimi mezzi per massimi fini —, non meno contratte d’un’algebra armonica.

Quanto al resto siamo alle solite. Nelle arti plastiche e figurative si è pronti ad accettare qualsiasi innovazione, anche la più estrema, persino la più impensabile, mentre in letteratura siamo ancora alla clava. Ciò che lei dice è vero, ma non capisco per quale misterioso motivo questa originalissima tecnica narrativa debba rappresentare un punto a sfavore.

Scettico. Tecnica narrativa? Ha voglia di scherzare? Io vedo solo nebbia, disprezzo del lettore, dilettantismo da quiescenza, gusto dell’impenetrabile e del…

Fautore. Si chiama collage, se vuole saperlo: innesti d’altre vicende nel tronco della narrazione. Pizzuto: «Un procedimento irrazionale, nel quale sono messi in connessione (non associati, eh? non si tratta di associazione) fatti arbitrari, separati l’uno dall’altro […]. Il collage sarebbe l’equivalente moderno del divisionismo, il divisionismo che tu trovi in Picasso, per esempio, in quelle facce […]. Di questi collages ne ho fatti più d’uno, perché sono come i tempi di una sonata, che hanno un nesso fra loro, ma il nesso è soltanto convenzionale, vero? Prendiamo, che so, la quinta sinfonia di Beethoven: c’è un nesso fra l’allegro con brio, l’andante con moto, lo scherzo, ma è un nesso non logico».

Scettico. Confesso la mia ignoranza. Non credevo che per leggere un’opera narrativa occorresse un tal bagaglio di competenze.

Fautore. Non sempre. Le librerie traboccano di merce da intrattenimento.

Scettico. E come funzionerebbe questo… collage?

Fautore. Ha presente Viandanti, il xvii di Ultime? È una riflessione sulla morte attraverso la passeggiata di un uomo e una donna in un parco. Spaziosi viali, grandi alberi. Una ragazza è seduta non lontano da loro su una panchina clorosa incinta (cioè verde e dalla sagoma rigonfia: la panchina, non la ragazza; uno scolio autoesplicativo avverte: «equivoco cercato per umorismo»). D’un tratto una donnola sfreccia tra le frasche e lei urla di paura ( strillettosa, variato in un puro acuti). L’uomo e la donna ascoltano lo stormire delle foglie, osservano un formicaio (le sedule tribù), poi si alzano e si chiedono dove andare (dopo sosta nuovo cammino, tal meta qual sciarada).

Attacco di collage. Mutano di colpo ambientazione e personaggi. Ed ecco

un predace orso aggirarsi ognora questuoso, [prima la donnola, ora l’orso: entrambi animali selvaggi, entrambi fonte di spavento: questa la “connessione”]

impaurirla, [dunque anche qui c’è una donna, generata dalla precedente]

serrargli il braccio, [e c’è anche un uomo, “connesso” al primo]

ambidue allucinandone, [hanno l’impressione di vedere orsi ovunque]

pari nel timore quanta la bramosia dei flutti rubificanti: [da una nota di Pizzuto apprendiamo trattarsi del lago di Tovel, presso Trento, le cui acque assumono in tarda estate una colorazione rosso-sangue dovuta a un microrganismo]

calato [l’orso] mostruosi unghioni da impensabili forre. A incontri fortuiti tratte insieme insieme, [ci s’incontra per caso, si fa un tratto di strada in compagnia]

per indi ritrovarsi più soli bisognosi miserrimi, verso l’istante ove ognuno attore stupendo. [la morte, che ci rende tutti meravigliosi attori, perché protagonisti unici e insostituibili]

Scettico. Comincio a capire… Ma santoddio, si rischia la meningite! Lei dice insomma che Pizzuto è accessibile solo ai filologi. Se la conclusione è questa, io non ho speranza.

Fautore. Dico che Pizzuto fa saltare le sinapsi e ne istituisce di nuove; dico che Pizzuto è roba per palati sottili e cervelli fini. E che il lettore è obbligato a scandagliare le successive fasi del percorso formativo, se non vuole smarrirsi nei meandri d’un testo impenetrabile a qualsivoglia tentativo di lettura orizzontale, nuda, diretta, che non fori la spessa crosta del dettato conglobandolo in tutta la sua integrità. In che modo, d’altronde, catturare l’essenza fluida, poco meno che volatile, di concrezioni sintattiche tipo «inconsapevoli ultimo di parlate assente interlocutore possibile», se non interrogando le stratificazioni correttorie, grazie solo alle quali sarà dato appurare, oltreché l’indole insospettabilmente avverbiale di ultimo — preceduto dalle spie variantistiche costituite da talvolta e talora —, la diatesi passiva dell’altrimenti arcano parlate e la natura ablativale della chiusa?: «di essere parlate ormai |di essere ormai parlate| |di essere parlate| senza possibile interlocutore |senza interlocutore possibile|». Di più: come avventurarsi a ricostruire la trama inaudita di certi formidabili neologismi semantici («un’occhiata lassù, troppo rapida per accorgere la napoleonica intenta») espellendo dall’orbita fruitiva le preziosissime glosse («perché fa più di una cosa alla volta», come l’imperatore francese) che costellano il testo?

Sì, l’ultimo Pizzuto va letto in edizione critica. Lo trova scandaloso?

Scettico. Sarebbe l’unico caso nella storia della…

Fautore. Pizzuto è unico. Ed esige lettori altrettanto unici.

Scettico. Trascendentali, vorrà dire. Stiliti disposti a passare la vita in cima a una colonna per guadagnarsi il privilegio di decifrarne gli oracoli.

Fautore. La metta pure così. Se lei cerca la pace della mente, lasci stare, si rivolga altrove. Del resto non ho alcuna intenzione di evangelizzarla.

Lettori che sappiano, ad esempio, svelare il lavoro della citazione. Mi spara se le dico che vale più una fulminea riscrittura di Pizzuto che cento romanzi dei nostri giorni? Un solo esempio. In Ravenna leggiamo: «già ne ebbe Saffo scorgendo solamente quel bellimbusto seduto contro la piccola giaggiolina in sorrisi». La fonte è appunto la poetessa greca: «A me beato sembra come un dio / l’uomo che siede a te dinanzi, ed ode / da vicino le tue dolci parole ed il tuo dolce / riso amoroso». Rosalba Galvagno: «Il fortunato… viene degradato da atleta quasi divino… ad atleta del muscolo, “bellimbusto”. Dei versi rimanenti, soltanto ghelaìsas ha una corrispondente trasposizione nel sintagma “in sorrisi”…; al pronome toi viene sostituito un sintagma nominale con l’inserzione di un fiore, di una metafora quindi (il giaggiolo è fiore assai caro a Pizzuto ed anche a Saffo). L’effetto erotico poi, di seduzione, dell’avverbio iméroen, centrale nell’ode per la situazione amorosa che connota,… viene incorporato enfaticamente e con maliziosa tenerezza nella frase “la piccola giaggiolina in sorrisi”».

Scettico. Un’operazione da Pontificio Istituto Biblico. Neanche le Sacre Scritture richiedono tanto spiegamento di…

Fautore. Per caso lei saprebbe dirmi chi sono le «Fatali Sorelle» dell’Ulysses e cosa significa «Buckbasket»?

Scettico. Fatali…? Ma che c’entra, scusi? Non credo di meritare tanto sarcasmo.

Fautore. Sono le sorelle di Yeats, che fondarono una casa editrice per poter pubblicare le opere del poeta; e «Buckbasket» allude al canestro che serve per la beffa a Falstaff in The Merry Wives of Windsor. Lo chiami pure lavoro da Istituto Biblico, ma tant’è: se vuole capire Joyce deve attrezzarsi. Questo non vale, ripeto, per tanti campioni dell’odierna romanzeria. D’altronde ogni lettore, si sa, ha gli autori che merita.

Scettico. E viceversa. Infatti non c’è scrittore più emarginato di Pizzuto. O sbaglio?

Fautore. Mi lasci concludere col mio Contini: «Anormale è che uno scrittore della sua portata sia male accessibile in comune commercio. Anche chi avesse riserve su Finnegans Wake non si sognerebbe di non stampare tutto Joyce. Qui invece pare che tocchi passare per maniaci ad auspicare che sia sanata quest’anormalità».

Gualberto Alvino

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2 Responses to “Pro o contro Pizzuto? Un dialogo di Gualberto Alvino”

  1. michele says:

    Quando leggo Pizzuto provo amore perchè? Perchè quando mi manca e vado a cercarlo, lui già dopo due righe e lì al mio fianco? Non conosco molti scrittori, scusate uomini, che hanno questa facoltà. E’ un poeta, questo si sà, ma sembra così riduttivo dire è un poeta, sa di sentimentalistico, invece Antonio è prima di tutto un uomo, sentiamo cosa dice: ….”Si era candidi e semplici, alieni da ogni metacritica alla critica. Credere e inclinazione coincidevano. Quanto diverso è l’oggi: rimane in comune col passato un sol punto, e cioè il non sapere che cosa cerchiamo e come, ma qual differenza in tutt’altro”….. Un punto che non sono assolutamente d’accordo e credo un luogo comune, e sulla difficoltà di lettura. E’ una voce la sua, chiara e limpida, basta ascoltarla che problema c’è.

  2. Calma says:

    Ch’io mi sia infettato è cosa a te nota. Grazie per l’unzione (o l’untura?)

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