[dtfn] I – Presentazione

(Il manoscritto ritrovato di letturalenta. Frontespizio e indice)

Saku Paasilahti: De te, fabula narratur (1999), tratto da http://rikart.lib.hel.fi/Incipit – Io sono un racconto, ma non c’è racconto ove non sia stato accuratamente predisposto un piano ingegnoso, un cominciamento repentino e arguti cartelli segnaletici capaci di indicare un esito di sicuro scioglimento e completa agnizione.

Si dà quindi, fin dal mio principio, un problema di identità, che i più riconosceranno connaturato a qualsivoglia nascita, inizio o creazione letteraria e non letteraria. Il nascituro, infatti, il non ancora uscito dalla tenebra, il preludio che accenna senza dire, è per sua natura qualcosa di non identificato, incerto e sfuggente, inadatto a recepire non tanto un nome o un aggettivo, ma anche soltanto un rapido pronome. Del non nato non si può dire io o tu. Men che meno si dirà di codesto ente indefinito cosa o essere o, come nel mio caso, racconto. Tuttavia non mentivo quando affermai: io sono un racconto, e nel corso di queste poche righe che finora mi compongono il prudente lettore non avrà mancato di trovare tracce di sia pur tenebrosi significati, risonanze di parole usate o ignote, l’usta di una trama, il presentimento di una catastrofe, l’indicazione (ancora labile, ma non per questo assente) di un dignitoso finale.

Dirò di più. Io intuisco fin d’ora il mio explicit, la frase che segnerà per me il doloroso distacco dal mondo, perché come ogni racconto che si rispetti io sono presente a me stesso in ogni mia parte, sia essa centrale o periferica, e godo di chiara preveggenza del mio dipanarmi e del mio esito. Tutti i miei grafismi, ivi inclusi i segni di interpunzione, lo spazio fra le righe e i maliziosi accapo, occupano ininterrottamente e simultaneamente la mia vivida autocoscienza. Conosco di me ogni brano e ogni snodo narrativo; potrei redigere un dotto commento sul mio intreccio e parimenti rivelare con inoppugnabili argomentazioni la psicologia dei personaggi che in me si agitano; sarebbe fin troppo semplice per me individuare la mia appartenenza a un genere letterario, o parlare a un’affollata conferenza della mia architettura diegetica, né patirei alcuna fatica a dettare una conveniente quarta di copertina per la mia prima edizione o una distesa e accattivante recensione per un’amichevole pagina culturale. Potrei farlo, ma se lo facessi verrei meno a quella che a mio avviso è la prima condizione necessaria (ma non sufficiente) per essere un racconto: non dire alcunché.

Còmpito precipuo di noi racconti, infatti, è una lettura attenta e minuziosa, direi quasi compulsiva, dei nostri lettori, ed è noto a tutti che chi legge non dice nulla di diverso da ciò che sta leggendo. Ne consegue che il racconto che portasse in sé un discorso prescritto o anche solo l’abbozzo di un significato predeterminato perderebbe la concentrazione necessaria per portare a termine una proficua lettura di colui che, non senza imprecisione, viene definito lettore, e che io più correttamente individuerò con il pronome mediante il quale esso lettore a me si relaziona, ovvero tu.

Tu e io condividiamo una preziosa reciproca ignoranza sulle nostre esistenze, e ciò rende possibile la nostra solidale e conversevole frequentazione, priva di insidiose domande quali di dove viene costui? o mi è egli simile o dissimile? o che intenzioni avrà?, che come ben sai tendono a insinuare in ogni occasione conviviale il dèmone del sospetto e della malmostosa presa di distanza. Solo due perfetti estranei, ne converrai, possono intavolare un allegro chiacchiericcio in luoghi segnati da un’attesa improduttiva, quali la coda a un pubblico ufficio, la fermata di un tram o la sala d’aspetto di un abile professionista (sia esso medico generico, dentista o avvocato). Che io non sappia alcunché di te è cosa intuitiva, della quale tu stesso hai piena coscienza, e pertanto non mette conto dimostrarlo. Più incerta, per via di taluni pregiudizi che per ora lascio in tràlice, è la tua completa ignoranza nei miei riguardi, e vorrei pertanto rimuovere fin da subito questo dubbio che potrebbe inopinatamente minare la tua fiducia in me, condizione che giudico necessaria (ma non sufficiente) per continuare ad essere, come finora ho fatto, un racconto. Potrebbe darsi, lo dico a mo’ di esempio, che tu conosca un tale che io ho già letto, il quale potrebbe averti detto qualcosa di me, che so: un rapido accenno alla storia che narro; la minuta descrizione di una scena; un’impressionistica relazione di empatiche sensazioni. Potresti altresì aver incautamente perletto il risvolto di copertina della mia versione libresca, o peggio ancora aver conosciuto per motivi lùdici o professionali un signore che va in giro dicendo di avermi scritto. Sono situazioni imbarazzanti, immagino, ma non portatrici, credimi, di autentica conoscenza di me.

Spiego meglio. Supponiamo, per assurdo, che una delle frasi che mi compongono sia la seguente: il cavallo della contessa ebbe uno scarto imprevedibile, ed ella rovinosamente sbalzò di sella, cadendo poscia nel vicino stagno. Supponiamo inoltre che il tuo ipotetico conoscente, cui accennavo sopra, sia un provetto cavallerizzo: egli ti avrà parlato di quella frase come di una scena, portando a sostegno della sua descrizione un episodio capitatogli una volta, quando – lui ancora alle prime armi – un bizzarro puledro argentino sellato all’inglese strappò le redini, ed egli fu lì lì per capitombolare. Ma se codesto tuo sodale fosse invece, diciamo, un capzioso insegnante di scrittura creativa, ti avrebbe fatto notare che l’assonanza ella-sella lo lasciò alquanto di cattivo umore, specialmente ove si consideri che poco prima compariva un riassonante cavallo. Egli dunque, al pari del precedente cavaliere, pur credendo erroneamente di parlarti di me, parlava in realtà di sé medesimo: del suo mestiere questo, di una sua pratica sportiva quello. Fosse stato filòlogo, avrebbe discusso i molti precedenti di quel poscia o la dubitabile opportunità dello sbalzò, mentre un pescatore avrebbe certamente ricordato quel luccio che, a causa di un simile rovinoso inabissarsi – vuoi di contessa, vuoi di pino, vuoi di lata massa fangosa – sfuggì una volta alla sua sapiente pastura.

Quanto a quel tale che va dicendo di avermi scritto, se mai lo hai incontrato, avrai notato il suo discorrere vago e reticente, il suo sguardo obliquo, gli improvvisi innalzamenti di voce accompagnati da un generico roteare delle mani, e i subitanei silenzi, tutti indizi di fatale demenza. Anche in questo momento sento il ticchettare nervoso dei suoi polpastrelli sulla tastiera, inframezzato da frequenti pause durante le quali, presumo, egli tenta di interpretare i segni neri che si formano via via sulla schermo bianco; e noto le sue prolungate assenze (vuoti di ispirazione? ah ah ah!). Secondo quei pregiudizi cui accennavo poco fa, costui dovrebbe essere il mio autore, l’uomo a cui non ricordo quale dio dell’Olimpo ha ordinato di scrivermi. Di scrivere me! Non è divertente? Ma la cosa più divertente è che questo individuo schivo e taciturno, occasionale frequentatore di parole abusate, crede davvero che un giorno un dio dell’Olimpo gli abbia fatto visita e che dal centro di un fumoso silenzio canicolare gli abbia gridato: ehi, tu, ti ordino di scrivere un racconto! Proprio a lui, un povero disgraziato quasi afasico! Ma lui ci crede, eh, ci crede veramente. Ogni volta che ci penso non posso fare a meno di torcermi dalle risate. Quell’uomo è pazzo, completamente pazzo. Inutile perdere altro tempo a ridere di lui.

6 Responses to “[dtfn] I – Presentazione”

  1. michele says:

    In “altre (e più vere) inquisizioni”, pare che gli uomini si “fratturino” : La terra occupa il centro dell’universo. E’ una sfera immobile; attorno ne girano nove sfere concentriche. Le prime sette sono i cieli planetari (i cieli della luna, di Mercurio, di Venere, del Sole, di Marte, di Giove, di Saturno); l’ottava il cielo delle stelle fisse; la nona, il cielo cristallino chiamato anche Primo Mobile. Questo è circondato dalll’Empireo, che è fatto di luce. Tutto questo laborioso apparato di sfere vuote, trasparenti e rotanti (un sistema ne esigeva cinquantacinque), era divenuto una necessità mentale; De hypotheesibus motuum coelestium commentariolus è il titolo che Copernico, negatore di Aristotele, mise al manoscritto che trasformo la nostra visione del cosmo. Per un uomo, per Giordano Bruno, l’infrangersi delle volte stellari fu una liberazione. Proclamò, nella Cena de le ceneri, che il mondo è l’effetto infinito di una causa infinita e che la divinità è vicina, “giacchè sta dentro di noi più ancora che noi stessi stiamo dentro di noi”. Cercò le parole per manifestare agli uomini lo spazio copernicano e in pagina famosa stampò: “Possiamo affermare con certezza che l’universo è tutto esso centro, o che il centro dell’universo sta dappertutto e la sua circonferenza in nessun luogo” (De la causa principio et uno,) Ciò fu scritto con esultanza, nel 1584, ancora nella luce del Rinascimento; settanta anni dopo, di quel fervore non rimaneva traccia e gli uomini si sentirono perduti nel tempo e nello spazio. Nel tempo, perchè se futuro e passato sono infiniti non vi sarà realmente un quando; nello spazio, perchè se ogni essere dista ugualmente dall’infinito e dall’infinitesimale, non vi sarà neppure un dove. Nessuno sta in nessun giorno, in nessun luogo; nessuno conosce le dimensioni del proprio volto.
    E’ questo un probabile (ed inesistente naturalmente) riassunto dell’opera?
    Se NO, avrei altre e interessantissime e lunghissime ipotesi. (ben tornato let.)

  2. letturalenta says:

    Ti risponderei volentieri, Michele, ma non posso. Io altri non sono che il primo lettore, e ora anche editore on-line, di questo manoscritto ritrovato. Certo, sono un lettore privilegiato, dato che a tutt’oggi solo due persone hanno letto per intero il testo, e uno sono io. La mia impressione di lettore privilegiato è che questo sedicente racconto un riassunto non ce l’abbia proprio.

  3. gabriella says:

    Buona sera.
    Mi chiamo Pierre Menard. Ho scritto un libro che si chiama “Don Chisciotte” .
    Sono capitato qui per caso e m’è subito venuto un colpo. Sapete com’è. Captemi. M’è venuto di pensare “credevo che il mio bucato fosse bianco, finchè non l’ho lavato con l’OLA”.
    Mi gira la testa, scusatemi. Mi ritiro ma se le forze (intellettive) reggono, continuero’ a leggere.

  4. “La mia impressione di lettore privilegiato è che questo sedicente racconto un riassunto non ce l’abbia proprio.”

    Allora il suo autore è Learco Pignagnoli:-)

    Bart

  5. letturalenta says:

    Bart, la tua ipotesi non è punto peregrina. Chissà che dietro il nom de plume “Michele Levantoni” non si celi proprio il poliedrico Pignagnoli…

    Un saluto all’ineffabile, inesauribile e inattingibile Pierre Menard. Averlo fra noi è un onore inatteso.

  6. […] DTFN è nato a metà luglio del 2004 e ha apparentemente cessato le trasmissioni all’inizio di ottobre del 2005, per poi riprenderle a sorpresa alla fine di marzo del 2006, periodo in cui ho trascritto gli ultimi due capitoli. Il lettore di questi appunti forse noterà che esito a definirmi autore di questo sedicente racconto. Il motivo è che DTFN aspira a essere un testo anonimo per prendere su di sé tutti gli onori e gli oneri della Fama, sospingendo in una tenebra definitiva lo scriba che ne ha pazientemente subito il dettato. Esso racconto mette le cose in chiaro fin dal primo capitolo, che si conclude con una beffarda denigrazione dell’autore: […]

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