Questa testimonianza di Andrea Camilleri su Antonio Pizzuto è stata pubblicata nell’edizione di Ravenna uscita per i tipi di Polistampa nel 2002 a cura di Antonio Pane. La ripropongo qui per gentile concessione dell’editore. Questo brano di Andrea Camilleri non può essere riprodotto senza l’esplicita autorizzazione di Polistampa.
Due debiti con Pizzuto
di Andrea Camilleri
Di e su Antonio Pizzuto si è detto e discusso tanto che oggi uno storico della letteratura italiana del ‘900 non può che ripercorrere sentieri già battuti, è costretto a riproporre un misto di luoghi comuni (lo scarto tra il tardivo esordio e l’assoluta novità della proposta, ad esempio) e di acutezze continiane. Non essendo né un recensore né uno storico, qui mi piace dire in tutta libertà del mio personale rapporto di lettore. E di debitore. Debitore non in quanto scrittore, ma in quanto uomo di teatro.
Ebbi la fortuna d’imbattermi nella prima edizione di “Signorina Rosina” nel 1956 in una libreria di Roma. Ne sfogliai qualche pagina, le odorai, sapevano di buono, andai alla cassa. Non sempre capita che sia tu a comprare un libro, certe volte succede che il libro si faccia comprare da te. Nei giorni seguenti lessi il romanzo almeno tre volte, sempre più preso e divertito, ricordo persino che a un certo momento mi provai (cosa che prima non avevo mai fatto) a munirmi di penna e matita per tracciare una sorta di, per dirla con Ruggero Jacobbi, minima statistica delle presenze della signorina Rosina nel suo continuo apparire e sparire da fiume carsico, nel suo ripresentarsi di volta in volta trasformata, altra (zingara, asina, cuoca, ecc.). Questo certosino esercizio, se non mi fornì del tutto la mappa del labirinto, mi mise almeno in grado di conoscere l’elemento principale del labirinto stesso, vale a dire la mancanza del senso del tempo come viene comunemente e rassicurantemente inteso anche in narrativa, dove l’azzardo è il flash-back, l’alterazione sequenziale, il monologo interiore. Qui è diverso. È infatti praticamente impossibile rispondere a questa pur semplice domanda: in quale arco temporale si può racchiudere la vicenda del romanzo? Pochi anni? Dieci anni? Una vita? Oppure si tratta, cito ancora Jacobbi, di una atemporalità che è il significato immanente di un’attesa perpetua?
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