[dtfn] IX – Chimica

(Il manoscritto ritrovato di letturalenta. Frontespizio e indice)

Saku Paasilahti: De te, fabula narratur (1999), tratto da http://rikart.lib.hel.fi/Più ti leggo e più mi convinco che tu nutra un sincero amore per la verità e un’ottima disposizione d’animo nei confronti dell’attesa e delle avversità. Raramente un uomo vede i suoi sogni realizzati nel breve lasso di sua vita mortale, e ancor più di rado, credimi, questa sorte tocca ai racconti. Per rendere salda e inattaccabile codesta similitudine dovrei spiegare tritamente in che consiste la vita mortale di un racconto, e cosa la distingua da quella che precede la sua nascita e da quella che segue la sua morte, ma il timore di cedere a quell’afflato gnomico e didascalico che tanto male ha recato e reca alla narrativa di tutti i tempi mi trattiene dal farlo. La Storia di un giapponese anonimo che si dimenticò di morire allude in minimissima parte a questo mistero così denso e affascinante, ma quanto ancora si dovrebbe dire su di esso, se solo le parole vi aderissero.

Molti frammenti di vita, però, tanto di vita letteraria quanto di vita umana, sfuggono lesti e agili alla salda immortalante presa delle parole, non so se per timidezza o per alterigia. Né saprei dire se questo sia guadagno o danno per la letteratura, ma in ogni caso noi racconti siamo rassegnati alla presenza dell’indicibile, e lo trattiamo da sempre per via di simboli, metafore, allegorie, similitudini, allusioni, infingimenti, maschere, velami, paludamenti, ermetismi, se non talvolta con autentiche svergognate menzogne. Ma il nostro mentire, sàppilo, non è certo una disdicevole truffa per procurarci illeciti profitti, bensì il frutto ineluttabile del nostro amore illimitato e castissimo per l’umanità. Non per dolo narriamo cose inverosimili o diciamo il contrario di un onesto dire, ma ciò accade nostro malgrado, mentre tentiamo di distillare l’essenza pura e vera delle vostre adorabili esistenze.

C’era una volta un alchimista testardo, che combinando sostanze le più svariate ed eclettiche voleva ricavare oro da metalli vili. Egli dosava gli elementi con la massima precisione, e se doveva usare diciannove grani di polvere d’asbesto, puoi giurare che non ne metteva uno scrupolo. Aggiungeva uno a uno gli ingredienti variandone la misura a ogni tentativo fallimentare, secondo un piano d’opera accuratamente predisposto. Accendeva poi un tenue foco sotto l’alambicco, e lasciava che la storta ne condensasse i vapori, fino a quando l’agognata goccia cadeva nella minuscola ampolla. «Sarà quella l’essenza capace di trasmutare il piombo in oro? Occorrerà provare e riprovare ancora» pensava «e ripetere accuratamente la preparazione qualora il piombo non riluca, e poi ancora e ancora, fin che la vita basta ad ospitare nuove prove». A volte, tuttavia, un indecifrabile residuo giaceva sul fondo dell’alambicco; altre volte parte dei vapori abbandonava la storta per via di minuscoli pori e orifizi che l’alchimista invano tentava di ostruire; capitava altresì che sortisse un risultato diverso da due prove ch’egli avrebbe giurato identiche. Così viveva nel terrore di giungere un giorno al capolavoro senza poterlo mai più replicare, quell’alchimista testardo.

Vedi dunque che è nell’opera stessa che l’errore e l’inganno e l’indicibile e l’indesiderabile menzogna s’annida, e che è la materia a fingersi e a paludarsi e a velarsi di veli che le migliori cure e le più oneste intenzioni non possono decifrare. Io, al pari di tutti i miei illustri colleghi, posso dire tutte le cose che tu vuoi dire, ma su ciò che intendi tacere a te stesso non ho alcun potere. Quand’anche mi sforzassi di narrare storie le più edificanti, o di infarcire la mia trama delle più nobili allegorie morali, sarei simile a un muto che invoca un sordo, se tu ti ostinassi a tacere.

Prendi i sentimenti, ad esempio. Parlare di sentimenti è impresa improba per noi racconti, per il fatto che, quando assegnamo loro un nome, siamo già usciti dal magico mondo del pathos per entrare in quello non meno magico del logos. Il sentimento an sich è ineffabile: esso mòrmora, vìbra, gorgòglia, làlla, guazzabùbola, borborìgma, ma non parla, no, non parla proprio. Tace, l’infame! tace, l’infante! Non ha dono di parola, anzi, ne rifugge inorridito. Quanto più voi – esseri sofferenti e gaudenti per natura e condannati all’intelligenza per necessità – tentate di assegnare un nome al sentimento, tanto più quello si squaglia, si volatilizza, non è più lui, gira la faccia, fa l’offeso. Amore è una parola, odio è una parola, e del pari lo sono godimento, dolore, piacere, ansia, rilassamento, tormento ed estasi. Sono parole, solo parole, tutte egualmente incapaci di contenere il tuo amore, il tuo odio, il tuo godimento, il tuo dolore, il tuo piacere, la tua ansia, il tuo rilassamento, il tuo tormento, la tua estasi. (e, oso supporre, nemmeno quelli altrui).

Una volta stabilito il confine tra pathos e logos, siamo liberi di assegnare il ruolo di verità all’uno o all’altro. Nel primo caso ci beccheremo epiteti quali sentimentale, naturalista o romantico; nel secondo ci diranno razionalisti, loici o illuministi. Ma noi vecchie golpi sappiamo bene che, per quanto ci dibattiamo e ci sforziamo, saremo sempre e l’uno e l’altro, e che sentimentale, naturalista, romantico, razionalista, loico e illuminista sono a loro volta parole, nient’altro che parole. La letteratura è fatta di parole, inabile ai sentimenti. La letteratura è quella cosa che ti fa ridere o piangere prendendoti per i fondelli in entrambi i casi. Essa è giuoco, ischerzo, irrisione, pania, palàmite: acchiappa, allama, intorta, irretisce, folgora e spaventa, ma non prova sentimenti, mai, e ogni buon racconto tratta (senza dirlo) dell’argomento di cui tratta il mio carissimo amico Tristram Shandy (che lo dice chiaro): DI BALLE! (maiuscolo nell’originale). Tutto il resto è fredda erudizione o vieto sentimentalismo.

Quanto sopra, va da sé, è falso.

5 Responses to “[dtfn] IX – Chimica”

  1. maria strofa says:

    “Così viveva nel terrore di giungere un giorno al capolavoro senza poterlo mai più replicare, quell’alchimista testardo.”

    *Quell’alchimista testardo* è la fine di un limerick!

    Dico questo di bello perché di bello ti ho già detto altrove.

    ciao

  2. Calma says:

    Luca, io non so se già te l’ho detto, ma a parte questo stile (che proprio mi piace, ma proprio… proprio assai) qui si imparano un sacco di cose. O perlomeno si ricordano, si rinfrescano, le si può far rivivificare. Come ‘sta faccenda di pathos e logos. E poi mi levo il cappello (una coppola, anzi, una scoppola) per quel “in che la vita basta ad ospitare nuove prove”.

  3. Gaja says:

    Condivido quanto detto poc’anzi da CaLMa. Qui si imparano un sacco di cose. Per questo mi piace.

  4. letturalenta says:

    Ebbene sì, maledetta strofa, hai vinto anche stavolta! Non mi resta che confessare: il finalino del paragrafo citato fa proprio il verso ai limerick.

    Calma e Gaja, so’ contento che s’impari, davvero, ma giuro che non ho cose da insegnare!

  5. Gaja says:

    @ letturalenta
    sono i maestri migliori quelli che sanno – o che pensano – di non sapere (cit.). bacio.

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