[dtfn] VIII – Fisica

(Il manoscritto ritrovato di letturalenta. Frontespizio e indice)

Saku Paasilahti: De te, fabula narratur (1999), tratto da http://rikart.lib.hel.fi/Mi piacerebbe conoscere la tua opinione su di me. Ne ricaverei materiale sufficiente, suppongo, per un trattatello che intitolerei verosimilmente De te fabula narratur e inserirei fra i miei capitoli vigesimo e vigesimo primo, a mo’ di ludica digressione. Non lo scriverei in latino, certo: farei la figura dello spocchioso elitario che vuole a tutti i costi distinguersi dalla massa. E la massa considera il latino una lingua morta, nevvero? Nella nostra società, tuttavia, non di rado discutiamo sulle proprietà e i requisiti capaci di connotare la vitalità di una lingua. Non ti stupirai di questo nostro interesse per quegli insiemi volubili di suoni e grafismi, dato che essi hanno per noi il medesimo valore dei mattoni per il muratore, delle farine per il fornaio, delle distanze per l’agrimensore, delle pandette per il giudice. Materia prima, particelle elementari che andremo a legare con saldo collante di sintassi per costruire i nostri mirabili edifizi letterari. Noi tutti, molto prima di presentare al mondo il nostro incipit, meditiamo a lungo su quali siano le parole più adatte alla nostra vocazione diegetica, e su qual tipo di legante meglio si presti a tenerle saldamente serrate in commendevole unità architettonica. Non diversamente il muratore sceglie le pietre meglio squadrate, e dosa con cura maniacale acqua sabbia e cemento fin quando formino la migliore delle malte possibili. Analogamente il fornaio setaccia la sua farina per renderla affatto monda di crusca, e attinge acqua scrupolosamente limpida per impastarla. Né ad altro attende l’agrimensore quando s’accerta che l’istrumento suo sia perfettamente in scala, e che le distanze rilevate entrino senza turbamento d’errore nelle armoniose formule trigonometriche. E parimenti il giudice compulserà i suoi digesti alla ricerca dei codicilli che più minutamente si adattano al caso in giudizio, per eleggerli a solide fondamenta di inoppugnabile sentenza, né confonderà abigeato con latrocinio o truffa con simonia.

A proposito di giudizi, colgo l’occasione per rivolgere a te, giudice supremo delle mie fortune, casta e devota preghiera di tener conto delle circostanze attenuanti e favorevoli, quando sarai chiamato ad emettere la sentenza definitiva su di me: non mi ha sconcertato la schiera infinita e maestosa dei capolavori conclamati che mi precedono; non ho ceduto alle mode letterarie; non ho nascosto i miei difetti e non ho esaltato le mie virtù; ho svolto con onesta prudenza il mio intreccio; e soprattutto ho dedicato ogni ragionevole cura alla scelta dei lemmi e dei segni di interpunzione più adatti alla mia trama.

Non v’è chi non veda che questo sarebbe un momento propizio per parlare dei dizionari – tema che avevo anticipato nel quarto capitolo – ma se ne parlassi qui rovinerei la deliziosa complicità che ora ci unisce nel prolungare l’attesa. E poi devo raccontarti tante altre cose di me, che dopo tutto sono il personaggio principale di me stesso.

Il commento, dicevo, sta a noi racconti come il canto delle sirene ai marinai. Sappiamo bene che le parole profuse su di noi sono letali, eppure suonano così dolci da vincere ogni volontà di resistenza e timore di annientamento. Ho conosciuto racconti talmente desiderosi di commento da macchiarsi di peccati orrendi, come piegare la loro trama alle scarne capacità intellettuali degli esegeti, o infarcire il loro lessico di parole abusate. Ho visto racconti felicemente lanciati verso sublimi vette gnoseologiche decadere improvvisamente a favolette moralistiche, e di una morale d’angiporto. Il commento inquina il mare magnum letterario col liquame dell’interpretazione e del disvelamento. Ogni volta che le pieghe di un eccelso discorso narrativo sono spiegate, arrivano schiere di raccontini da due soldi che tentano di riprodurlo meccanicamente, sperando di raccogliere le briciole della fama altrui, e di essere a loro volta commentati. Se il nostro mare pullula di relitti epigoni, lo dobbiamo in gran parte alla peste dell’esegesi e dell’interpretazione.

Tutto nasce da quel pregiudizio durissimo a morire secondo il quale sono i racconti a dover essere letti e interpretati, credendo che nascondano chissà quali occulte significazioni e improbabili allegorie. Orrenda menzogna! Non tu stai leggendo me, ma io te, come ti dissi. Non gli uomini interpretano i racconti, ma i racconti gli uomini, e l’unica umanità che è dato conoscere è quella che si lascia leggere dai racconti. Non c’è scienza al mondo capace di leggere un uomo tutto intero, non c’è umanità al di fuori della letteratura. Non crederai davvero che l’uomo sia quel groviglio di ossa muscoli vasi e liquami elencati dagli anatomisti; e non vorrai illuderti di scovare umanità nelle correnti elettriche che attraversano le cellule cerebrali; non dirmi che presti fede a chi riduce l’essere umano a vaghe tassonomie psicologiche, né che l’analisi delle relazioni sociali ti basta a rendere conto di ciò che sei. Diffida, diffida sempre di chi vorrebbe ridurti a una sola parte di te. «L’uomo è razionale», dice uno, ma tu sai bene quanta irragionevolezza abiti in te; «L’uomo è socievole», aggiunge un altro, perdendo di vista la tua solitudine; «L’uomo comunica», sentenzia un terzo, ignorando l’importanza dell’ineffabile e del fraintendimento. Poi arriva quello a cui piace spararle grosse: «L’uomo è mortale», grida costui dall’alto della sua stoltezza, e non è il caso di perdere tempo a confutarlo.

Analogamente il commento agisce su di noi: evidenziando un aspetto del nostro impianto narrativo, perde di vista l’insieme: l’analisi linguistica non tiene conto delle complessità diegetiche; l’indagine formale perde di vista la trama; l’interpretazione dei significati banalizza lo stile. L’unico commento onesto sarebbe la copia integrale, perché solo copiando un racconto è possibile raccontarlo nella sua pienezza. Purtroppo la copia non dà lustro né fama, e non produce titoli accademici, essendo considerata attività pedestre, improduttiva e in certo qual modo demente. S’io avessi uno spirito rivoluzionario, e mi fosse dato mandato di ridare speranza a questi tempi infelici metterei al primo punto del mio programma l’abolizione dei commenti letterari, delle sedute psicanalitiche e dei programmi politici, primo fra tutti il mio.

4 Responses to “[dtfn] VIII – Fisica”

  1. gabryella says:

    bon, ho frainteso diligentemente tutto – e, naturalmente, non azzardo alcun commento

  2. letturalenta says:

    Mi sembra una scelta prudente, gabryella: costui invoca chiose e glosse, salvo poi tuonare contro il commento. Valli un po’ a capire, i racconti…

  3. maria strofa says:

    “Non tu stai leggendo me, ma io te, come ti dissi. Non gli uomini interpretano i racconti, ma i racconti gli uomini, e l’unica umanità che è dato conoscere è quella che si lascia leggere dai racconti.”

    Qui si vola altissimo, siori e siore!

  4. “Non v’è chi non veda…”:
    squisita formula tribunalizia. :-)

Leave a Reply