Variazioni sul gatto [3]

gatti segnavento, tratto da www.weathervanes.co.ukLegenda: E=erostratos; L=letturalenta. Tutte le variazioni sul gatto

14 gennaio (E a L)
i nessi fra i libri non si trovano, si istituiscono d’autorità. ;-) per quello mi piace molto il manganelli critico (mentre, come sai, non impazzisco per il narratore *in proprio*): perché è un brutale istitutore che manganellizza tutto ciò che gli capita a tiro. quando invece non ha soggetti da subornare, secondo me si incarta un po’, ecco.

cmq escludo di aver prodotto bibliografie sul tema “amore”. :P

oddio, tutte tutte non direi:
1) nuotare, ho smesso alla fine del liceo. ma insomma, quando posso…
2) disegnare, disegno (anche se molto meno di quanto dovrei).
3) scrivere, è un fronte sempre aperto.
4) cazzeggiare, sono pentacampeão come il brasile.
5) vincere al superenalotto, non ancora.

peraltro, nella mia personale economia psichica il punto 3 implica necessariamente il punto 4, il quale a sua volta necessita del punto 5.

grazie per l’indicazione su hesse: era un caso esemplare di feedback negativo, la prova provata che, per un autore, intrattenere stretti rapporti coi lettori è terribilmente insalubre (sempre utile da rammentare ai patiti dell’happy hour letterario).

15 gennaio (L a E)
Il Manganelli secondo me non è tanto narratore quanto sbobinatore di incubi, genere infelice in sé. Resta vero che come critico – e a mio avviso ancor più come satiro del costume (ovvero critico della società) – è meraviglioso.

Minchia, sulla bibliografia hai ragione! Il tema era “biografie romanzate di artisti”. Gli è che nella discussione era saltato fuori “Amore lontano” di Vassalli, e la mia memoria farlocca ha come al solito fatto un pastone. Fortuna che ci sono gli archivi:

Vincere al superenalotto, cazzeggiare, scrivere. La catena causale è convincente. Tuttavia, aggiungo, il primo punto mi sembra indispensabile per il terzo anche senza passare dal secondo. Non so, ma ho come il sospetto che non dover lavorare per vivere sia condizione necessaria per scrivere. Il nesso fra letteratura e fancazzismo meriterebbe uno studio accurato :-)

Quanto al resto, salverei il rapporto con i lettori *prima* della pubblicazione di un libro, ma dal momento in cui il libro diventa cosa pubblica, l’autore ha tutto l’interesse a defilarsi.

A proposito: tu cosa scrivi? Oltre a bibliografie e recensioni impeccabili, scrivi anche, che so, romanzi, poemi, racconti?

16 gennaio (E a L)
d’accordo. io però parto dal presupposto che l’autore che leggo debba sbobinare i miei, di incubi, non i suoi. :P

sì, il nesso fra letteratura e fancazzismo meriterebbe uno studio moooooolto accurato. :-) per “non dover lavorare” io intenderei anche e soprattutto non dover scrivere, cioè non *fare* lo scrittore.
in genere quelli che scrivono considerano una disgrazia essere obbligati a passare un tot di ore in ufficio invece di dedicarsi completamente alla scrittura, ma abolire l’ufficio significa che o si è ricchi e si campa di rendita, o si è costretti a scrivere per forza – e neanche basta: bisogna arrotondare con articoli, conferenze, presentazioni, corsi di scrittura e menate varie… ecco, quest’ultima condizione per me è la peggiore, dopo quella di dover svolgere lavori di merda, s’intende. il fatto è che ipotecare a vita un evento in gran parte imponderabile come la letteratura, assimilandolo a un mestiere, mi ricorda il “ti amerò per sempre” dei poeti leziosi, su cui auden giustamente ironizza scrivendo “io ti amerò giovedì pomeriggio alle quattro e un quarto”.
l’ideale sarebbe essere ricchi e campare di rendita, ma in mancanza di ciò meglio un *altro* lavoro che sia tranquillo, poco oneroso, e che ti lasci il tempo per scrivere. poi, quando hai scritto, hai scritto (se hai scritto). vuoi pubblicare? pubblica. riesci anche a vendere? meglio così. ma senza tante stronzate.

cosa scrivo? mah, ci sarebbero sempre quei due o tre quaderni su cui armeggio da anni. è che ho un rapporto conflittuale con la scrittura. anzi, in generale penso che *il* problema sia proprio scrivere. lo ripeto spesso anche a sergio quando mi dice “dài scrivi qualcosa, che ti costa?”. ma è ovvio che mi costa, è ovvio che la scrittura non si produce *naturalmente*, quasi pacificamente, come emanazione e conseguenza di determinate qualità personali. al contrario, essendo innanzitutto una forma di alienazione, va soggetta a una caterva di resistenze che tendono a impedirti di scrivere le cose giuste nel modo giusto o, al limite, a impedirti di scrivere tout court. è una faccenda di cui si sa ben poco in anticipo. almeno per me, che in materia di scrittura sono davvero monoteista (ergo non concepisco altra scrittura che quella propriamente *letteraria*, non espressiva ma esperienziale e trascenditiva).

16 gennaio (L a E)
Concordo. Non dover lavorare significa *non* fare alcunché per la michetta, men che meno scrivere. Che poi, guarda, se uno pensa a Pessoa o a Kafka, per dirne due, vien da dire che fare lavori di merda non è neanche il peggio. Erano altri tempi, certo, però pare che anche ai nostri giorni ci siano scrittori-lavoratori.

Io non ho ambizioni scrittorie particolarmente acute, però ogni tanto scrivo qualcosa. Ecco, quando scrivo qualcosa mi capita di fantasticare una situazione di questo tipo: lavoro part-time, possibilmente meccanico e ripetitivo, tipo imbucare depliant pubblicitari, e resto della giornata passato a scrivere. È in quei momenti che, alzando gli occhi sui miei familiari a carico, intuisco con rara chiarezza perché non farò mai lo scrittore :-)

Due o tre quaderni? Manda, manda! :-)

Concordo sulla scrittura come alienazione. Gli è che quando uno scrive si ritrova bene o male a guardarsi da fuori. E dato che talvolta non è un bello spettacolo, si capisce che possa mancargli la voglia di perseverare. Che poi non so se è quello che intendi dire tu, ma è quello che succede a me. Per esempio – non per parlare del mio brodo, ma per fare un esempio che conosci – non so se si capisce, ma nel raccontino che ha dato origine a questa conversazione il mio punto di vista è tutto in quel che dice il gatto, non certo in quello che va cianciando il passante. Ecco, per me scrivere è guardarmi con gli occhi (giustamente terrorizzati :-)) di un essere che non mi assomiglia per niente.

(Continua)

8 Responses to “Variazioni sul gatto [3]”

  1. michele says:

    Non ho capito il senso. Ma comunque… se si decide di percorrere solo una strada e non a caso si percorre quella eurocentrica da “intellettuale” progressista, (venere: lunario dell’orfano sannita) si finisce per escludere gran parte della comprensione. Ciò che è facile, diviene “onirico” o peggio, tipo: raccontatore di incubi o sbobbinatore. Pochi autori sono comprensibili come Manganelli, basta allontanarsi, dalla logica. Al mio primo colloquio con Fellini, prima che mi prendesse come assistente, lui mi chiese perchè volevo fare del cinema, ed io gli risposi che non lo sapevo, ma sapevo cosa era il mio cinema. Manganelli come autore, non percorre “le strade tortuose” egli esclude che si possa comunicare nella centricipità del piccolo intellettuale progressista. Ho sottolineato più volte di leggere (qui) mitobiografia di Ernest Bernhard, Manganelli, è l’esecutore testamentario di Bernhard. Ma cosa significa? Mi si permetta una critica su quello che ho letto qui su. Il tema non è cosa, ma perchè Manganelli comunica spiritualità. (e di questo che si parla) La centricipità europrogressista è troppo ignorante per accorgersi di quanta ragione e razionalità purà vi è in Manganelli. Senza offesa, credo che si legga Manganelli alla rovescia, pongo ora una domanda a Luca, hai letto o meglio avete letto mitobiografia? e se si, hai letto o avete letto le poesie di Manganelli? Sia Fellini (per questo mi sono permesso di lasciare qui una traccia del mio passato da cineasta) che Manganelli sono legati assieme da questa esigenza, cioè di comunicare spiritualità. Ma è una spiritualità che va trovata da soli, compresa la strada tutto diviene più facile gatto incluso.

  2. michele says:

    Mi sono accorto di aver lasciato sopra una montagna di errori, comunque – “Venere” invece di “Vedere lunario dell’orfano sannina”, mi sembra più che giustificato. Altra precisazione, io parlavo di Manganelli narratore, e non del Manganelli giornalista. Riporto qui un pezzettino assai esplicito di M.
    da appunto Lunario dell’orfano… “In primo luogo, è intellettuale eurocentrico; (si parla dell’intellettuale progressista)poco importa che le sue simpatie siano planetarie, che psicologicamente militi in tutti i continenti: egli muove costantemente dall’Europa, anzi dalla Mitteleuropa, la sua culla primigenia; la logica, la dialettica, la storia, l’idea del futuro, del progresso che l’Europa ha elaborato negli ultimi due secoli sono l’unità di misura, il lessico, la grammatica delle idee destinate a informare il pianeta. In lui si illustra l’arcaica arroganza europea, la dura e retorica civiltà dell’Io, l’ottimismo metallico e minatorio. Da secoli l’Europa, si è specializzata in se stessa: ha cercato di fare del resto del mondo, un deposito di bric-à-brac, di sopramobili esotici…..”

  3. erostratos says:

    michele, non posso risponderti (per quanto mi concerne, s’intende) se non so a cosa ti riferisci esattamente: “sbobinatore di incubi” è una simpatica definizione di luca.
    io ritengo tuttavia che l’accento cada su sbobinatore più che su incubi. incubi che sono, peraltro, figura emblematica e autoriale che ben riassume la condizione ‘patologica’ dello scrittore. come disse infatti lo stesso manganelli di fronte a una platea di increduli junghiani: “solo nella misura in cui voi siete in qualche modo nevrotici noi possiamo riuscire a capirci. io spero che voi siate torturati da forme spaventose di nevrosi. spero che abbiate degli incubi, perché è in quegli incubi che noi abbiamo qualche cosa da dirci, perché è lì che la letteratura funziona”.
    nello sbobinamento vedo invece una pratica cerimoniale – e tutt’altro che onirica – di alta formalizzazione e di scongiuro: la scrittura medesima.
    insomma, non capisco da cosa deduci l’intellettualismo progressista ed eurocentrico.

  4. letturalenta says:

    Michele, tieni presente che quello riprodotto qui è un veloce scambio di opinioni molto informale, senza alcuna pretesa “scientifica”. Anche perché una disamina approfondita dell’enigma Manganelli richiederebbe tempi e spazi inconcepibili per un umile blog di periferia, nonché una strumentazione critica di alto livello.

    Ciò detto, dubito assai che Manganelli avesse l’esigenza di comunicare alcunché, e men che meno ‘spiritualità’. Disse egli medesimo (non ricordo dove, ma credo in un intervista) che gli era incomprensibile persino il significato del verbo ‘comunicare’.

    Per Manganelli la letteratura era vera, autentica e inconfutabile menzogna, o, per dirla altrimenti, l’unico strumento utilizzabile dagli uomini per dar voce all’incubo, all’inconscio, al lato oscuro, all’ombra: tutte cose che hanno a che fare con i visceri più che con lo spirito.

    In Manganelli la parola (il discorso, la retorica, l’artificio linguistico) è stemma e ombra, trascrizione alfabetica dell’inferno. Non c’è mediazione fra l’incubo e la sua rappresentazione linguistica: la lingua *è* l’incubo. E gli incubi non comunicano altro che loro medesimi.

    Più che ‘spirituale’ a me il Manganelli narratore (che narratore non è) sembra ‘sciamanico’ o ‘sapienziale’. Non a caso aveva scelto a emblema della sua scrittura il fool, il giullare, non il mistico o lo stilita.

  5. letturalenta says:

    Ciao erostratos! Vedo solo ora il tuo commento. La sbobinatura è certamente una cerimonia. Nel numero di ‘Riga’ dedicato a Manganelli c’è un bel saggio di Domenico Scarpa che tocca anche questo aspetto ‘rituale’ (religioso) della scrittura manganelliana. E comunque, come dicevo poco fa, hai voglia a demanganellizzare il Manganelli: servirebbe una biblioteca intera, mica un blog o uno scambio di email.

  6. michele says:

    La parola spirito spaventa. Ridurre “spirito” in parola, pare più vero, (ecco letteratura come menzogna come incapacità d’essere, perchè si è altri. Si è quello che non si riesce a comunicare)perchè non ci riguarda, il frequentarla è cosa altra. L’incubo è porta, provare per credere. L’ombra è “l’anima” o “animus” (ci sono tutte e due)che -inciampa-, che non riesce a liberarsi. Il “non (dover o voler) comunicare” manganelliano è riferito all’io, a quell’io eurocentrico e terribilmente ignorante nella sua saccenza vuota. Il linguaggio manganelliano va inteso come -cognizione dello spirito- accettazione dello spirituale in ogni cosa. “Spero che voi abbiate degli incubi, che siate dei nevrotici, ecc”, è il primo passo per comprendere il meccanismo della “discenditiva”. Manganelli non è un narratore? Quindi è qualcosa. (volendo usare l’inutile logica)Manganelli va molto oltre Jung, perchè ormai Jung è junganesimo. La lettura paternalistica è figlia di quella cultura concentrica che ha avvolto tutto, con le sue spirali suggestive di falsi Dei. Non ci sono posti deputati per discutere, almeno io credo questo. Questo è un tentativo di risposta (anche se lapidario) non è atto polemico.

  7. michele says:

    Mi sono dimenticato di ringraziare, più che dimenticato è partito in automatico il tasto invio. Quindi ringrazio la risposta di erostratos e di letturalenta.

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