Il tetto

tetto, tratto da http://www.panoramio.com/photo/9545Magnifica giornata, non c’è che dire. Limpida, serena, cristallina come solo certe giornate d’inverno sanno essere, ma anche pervasa da un tepore amichevole e incoraggiante. Le condizioni atmosferiche influenzano da sempre l’umore dei tetti e la qualità delle loro speculazioni. Non v’è chi non sappia, per esempio, che un temporale rende un tetto felice fino all’euforia, mentre gli ardori canicolari lo sprofondano in stati malinconici prossimi alla depressione. Le giornate come questa stimolano la nostra indole meditativa.

Che io sia tetto, a dire il vero, è un’affermazione meno scontata di quanto possa apparire, e meriterebbe forse il sostegno di robusti puntelli argomentativi. Non è ancora assodato, infatti, in che cosa consista la vera essenza di un tetto, né quali attributi lo distinguano dal non tetto: non la collocazione sopraelevata, che condivide con balconi e cornicioni; non la funzione di copertura, giacché anche i solai coprono; non la forma, che può essere la più varia, né tanto meno i materiali impiegati a costruirlo. Eppure chiunque, osservando una casa, è in grado di indicarne il tetto – posto che quella casa ne abbia uno.

Alcuni dicono che il tetto è l’elemento più alto di un edificio, ma anche questo è opinabile: antenne, comignoli e pennoni parafulmine, per esempio, superano il tetto in altezza. Inoltre non è superfluo notare che un tetto spiovente non ha una quota uniforme, e che la parte inferiore – tipicamente dotata di grondaia – può trovarsi molto più in basso del colmo. In verità la questione identitaria dei tetti è aperta da sempre, e dubito che troverà una soluzione definitiva in tempi brevi, anche perché la notevole variabilità degli stili architettonici e delle tecniche costruttive pone continuamente problemi nuovi che in parte alterano gli equilibri raggiunti in un certo momento storico.

Molto variabile, inoltre, è il livello di autocoscienza dei tetti medesimi, ovvero la loro capacità di percepirsi esattamente come tetto, nonché la capacità di definire i loro simili e di formare con loro comunità armoniose e regolate da leggi condivise. Il dibattito sulla natura tettana, insomma, procede da secoli e non sembra prossimo all’esaurimento, in particolare per quanto riguarda il problema delle minoranze e delle discriminazioni tettali, una questione mai risolta. Non è chiaro, per esempio, se le coperture in paglia o in lamiera di certe baracche abbiano dignità di tetto o se non siano piuttosto specie distinte e inferiori.

Non è difficile intuire l’effetto remora di queste difficoltà di definizione sullo sviluppo di una riflessione filosofica feconda sulla natura del tetto. Non essendo ben chiaro cosa il tetto sia, infatti, è difficile attribuire un senso preciso a proposizioni quali nulla di tettano mi è estraneo, che pure non di rado ricorrono nella storia del pensiero. Se non ho cognizione di ciò che sono, come posso stabilire cosa mi è estraneo? La canna fumaria che da me si diparte è tetto o non-tetto? E la linea di colmo che mi contraddistingue è parte di me o è parte di ciò che mi è contiguo? E i coppi che mi rivestono? E le travi che mi sostengono? Lo spazio fra me e il solaio dell’ultimo piano pertiene a me o al solaio?

Domande, solo domande. Quando si tratta della mia identità non posso fare altro che domandare e domandare e domandare, sapendo per certo che le risposte, almeno quelle, non fanno parte del mio essere, e se mai qualche risposta arriverà, verrà da un fuori che non sono io.

Pur non conoscendomi, tuttavia, ho talvolta una chiara percezione di esistere, e questo accade specialmente quando sono visitato da enti che non chiamano sé medesimi tetto. Quando la pioggia scivola sul mio spiovente per poi raccogliersi nelle grondaie, io sento di non essere pioggia; quando una rondine assicura il suo nido sotto di me, io so di non essere rondine, né nido; quando il sole compie il suo giro quotidiano sopra di me io mi percepisco come non-sole. Forse, se queste entità che mi sfiorano fossero infinite, potrei arrivare a una ragionevole definizione di me stesso per esclusione. Purtroppo il numero di non-tetti del quale sono a conoscenza è limitato alla mia esperienza, e non potendo sommare in me l’esperienza di tutti i tetti passati presenti e futuri – che potrebbe comprendere gli infiniti non-tetti possibili – anche questa via mi è preclusa.

E così mi rassegno a non sapere chi sono e cerco nondimeno di condurre un’esistenza degna. Mi accontento delle mie percezioni e delle poche cognizioni che vado raggranellando per via, man mano che la mia esistenza si dipana fra gli scricchiolii delle travi, che prima o poi cederanno, e la resistenza eroica dei coppi, che prima o poi si sgretoleranno. Mi accontento di conoscere il sole che ogni giorno tenta di arroventarmi e le nubi che talvolta cercano di impedirglielo. Mi rammarico per la canicola che mi deprime, esulto per il temporale che mi rallegra. Aspetto.

33 Responses to “Il tetto”

  1. Laura says:

    poema in prosa. facilità e fluidità di scrittura. però manca la sostanza del pensiero

  2. letturalenta says:

    Non posso mica metterci tutto io, Laura, altrimenti il lettore che ci sta a fare?

  3. Effe says:

    mi scusi, son qui per contestare e alloa faccio il dovere mio.
    Il tetto, secondo quanto sostengo da lunga pezza,. non appartiene alla casa, ai muri, al solaio, ai coppi.
    Il tetto appartiene al cielo.
    E’ il cielo che copre e chiude e protegge o impedisce.
    Per quanto sembri dotato di sostanza, il tetto è invece etereo e immanente.
    Avrà ben udit anche lei il detto popolare: Ovunque vi sia cielo, c’è un tetto.
    Oppure: Non c’è tetto senza cielo.
    Da qui anhe l’altra massima: tutti i tetti sono blu.

  4. Gaja says:

    Mi piaci molto quando diventi tetto o gatto o qualsiasi altra cosa o creatura. Bello. Bello il modo che hai di scrivere dal punto di vista “altro”. bacioni.

  5. maria strofa says:

    Schopenhauer, leggendoti, direbbe “tet twam asi”: il tetto sei tu. dalle upanishad lette lentamente.

    La frase in origine, come sai, è tat twam asi a significare “questo sei tu – o tu sei quello” come forma di compassione universale di tutte le cose. Ognuno dovrebbe riconoscersi nell’altro, e perché no in tutte le forme.

    tet twam asi, tassinari, tu sei il tetto. Minchia io e te dobbiamo associarci:a casa mia parlano i libri e le bottiglie, da te parla il tetto di casa.

  6. letturalenta says:

    Effe, riferisco la risposta del tetto al suo commento (declinando naturalmente ogni responsabilità): “Sapere di appartenere al cielo mi consola, ma non mi aiuta a conoscermi. So di chi sono, ma non so chi sono”.

    Gaja, la mia aspirazione segreta è diventare l’universo mondo. Il gatto, il tetto, ecc. sono solo esercizi preliminari.

    Ebbene sì, Maria, confesso quel che prima di me confessò flobertuccio nostro: Monsieur Toit c’est moi! Approvo l’associazione, a patto che mi sia concesso dormire in albergo, perché temo che i conversari notturni fra tetto e libri, libri e bottiglie, bottiglie e tetto mi toglierebbero il sonno.

  7. gabryella says:

    tetnicamente parlando, io posso affermare d’essere tetto del mio tetto: l’ho percepito con cartesiana certezza nell’istante stesso in cui ho staccato l’assegno per la riparazione del suddetto

    ciao

  8. Gaja says:

    Tu sai che questi esercizi dilatatori (ehm;)) rispecchiano moltissimo anche i miei, in certo qual senso… ;)) Comprendoti.

  9. letturalenta says:

    eh eh eh, gabryella! Mi tocca ammettere che l’ipotesi di rifacimento del coperto, discussa in una recente assemblea condominiale, è in parte responsabile del post.

    Oh sì che lo so, Gaja, perbacco se lo so! (rimando alla recente passeggiata neozelandese di Gaja per ulteriori dettagli).

  10. Laura says:

    sì, capisco, la partecipazione del lettore… ma volevo dire che la narrativa deve avere una spina dorsale. Deve averla di suo, insomma. E questo testo, anche se piacevole (forse troppo) lascia ben poco nel lettore. Ma naturalmente: de gustibus!

  11. kalle b. says:

    “chiunque, osservando una casa, è in grado di indicarne il tetto”

    e poi c’e’ anche qualche metonimo mitomane che osserva la casa e crede che sia un tetto (ricovero, riparo, etc.)

    ciao
    k.

  12. S’i fossi Tibet, mi chiamerei tetto del mondo.

  13. letturalenta says:

    Laura, non si tratta di partecipazione, ma di completamento. La mia opinione è che un testo scritto a cui non manca qualcosa è un testo che non vale la pena leggere. La scrittura non dovrebbe “lasciare qualcosa” nel lettore, ma lasciarlo libero di metterci qualcosa di suo. Detto questo, concordo in toto sul “de gustibus” e discordo in toto sull’attribuzione a questo post della qualifica di “narrativa”.

    kalle, sai che questa cosa del metonimo mitomane “ciazzecca una cifra”, come diciamo noi oxoniani? Voglio dire, la tentazione di ridurre una ‘cosa’ qualsiasi a un suo dettaglio o alla sua ‘utilità’ mi sembra molto diffusa. Per esempio, la letteratura – che notoriamente non serve a una mazza – non se la fuma nessuno :-)

  14. letturalenta says:

    Lucio, s’i fossi Padoa Schioppa, mi chiamerei tetto di spesa!

  15. Laura says:

    seguendo questa tesi, anche la lista della spesa è un testo che vale la pena di leggere. riguardo a partecipazione/completamento, sono la stessa identica cosa: si può forse partecipare senza completare, o viceversa?

  16. letturalenta says:

    Laura, la lista della spesa *può* essere un testo che vale la pena leggere, ammesso che le manchi qualcosa. In una lettera di Machiavelli sono elencati gli ingredienti di un medicamento che era solito prendere per certi suoi disturbi gastrici. Quel che manca a quella “lista della spesa” è che quasi certamente fu proprio quell’intruglio a spedire il buon Niccolò al creatore. Il lettore si trova quindi in una situazione di maggior “scienza” rispetto allo scrivano: sa qualcosa che lui non poteva sapere. Ed è proprio in virtù di questo scarto cognitivo che il lettore è in grado di leggere quella lista della spesa con un’intonazione tragica che certamente sfuggì a chi la scrisse.

    La partecipazione, a mio avviso, non implica il completamento. Spesso ‘partecipare’ equivale a ‘essere d’accordo’. Per esempio, se leggo un giallo che si conclude con l’arresto dell’assassino, posso ‘partecipare’ pensando che così doveva essere perché è giusto che i colpevoli paghino, ma partecipando in questo modo non aggiungo niente a quello che lo scriba ha inteso dire. Ecco, a me piacciono i gialli in cui l’assassino riesce a scappare.

  17. michele says:

    Non sapendo né leggere né scrivere, mi sono fatto una casa a sottrazione. Rupestre. Nelle riunioni condominiali sui muri abbiamo dipinto (redatto)
    – con la linea editoriale del momento – i lavori da eseguire. ( a Laura, io e Petrarca inclusivi. e all’Angelini in proposito di alcune rime Pietrose: “qui” montagne.)

  18. Laura says:

    partecipazione (o compartecipazione) è un termine tecnico, e non significa “essere d’accordo” (quello è il *consenso*) ma diventare parte integrante di un tutto che è l’opera. Sono termini e concetti noti perfino a me, che non sono andata oltre il liceo. ma io mi riferivo proprio alla lista della spesa (2 etti di cipolle, 3 di carote…) senza scomodare Machiavelli. Seguendo il tuo ragionamento, tutti i testi sono validi. Invece mi pare che esistano testi validi, meno validi, e da buttare, no? Magari in quel tuo scritto ci fosse un’intonazione tragica!!! Mi è sembrato debole e privo di mordente (non so se faccio bene a dirlo, visto che tutti gli altri non esprimono opinioni ma parlano di altro, pur avendo sottoscritto un commento a quel testo specifico)

  19. letturalenta says:

    Laura, partecipazione per me è solo una parola italiana. I termini tecnici li ignoro, non essendo io un ‘tecnico’.

    Il senso in cui lo intendi tu (diventare parte integrante di un tutto che è l’opera), mi sembra, è un argomento a favore della mia opinione che a un testo deve mancare qualcosa perché valga la pena leggerlo: infatti mi sembrerebbe arduo, o quanto meno inutile, “diventare parte” di qualcosa che è già completo, a cui non manca nulla.

    (noto a margine che il tuo esempio di lista della spesa termina con i puntini di sospensione, quasi a dire che le manca qualcosa…)

  20. Laura says:

    in questo senso siamo d’accordissimo. Però… deve mancare qualcosa, qualcosa, non la spina dorsale, insisto. E comunque l’ho già detto: de gustibus! Ho trovato da poco questo blog e ti chiedo se posso intervenire ogni tanto (sono un’appassionata di lett.): te lo chiedo perché noto che i frequentatori sono tutti tuoi amici e usate il blog soprattutto per mantenere i contatti e per chiacchierare del + e del -. Insomma, se sono un’intrusa evito.

  21. michele says:

    Io non sono amico di nessuno.

  22. letturalenta says:

    Laura, sei la benvenuta. In rete capita abbastanza spesso che dopo un certo periodo di frequentazione virtuale (ho aperto letturalenta alla fine del 2005, ma sono in rete da molto prima) nascano delle amicizie. Molte restano virtuali, alcune si estendono anche al di là della tastiera e del monitor. Così può succedere che si finisca per “parlarsi in codice” o per limitarsi a un saluto o a un segno di interesse. Spero che non ti dispiaccia.

    Detto questo, spiega per favore, anche ai miei amici, cos’è secondo te la “spina dorsale” di un testo scritto. (ah, tra parentesi, io, la letteratura, ancora non ho capito cos’è, quindi non parlo quasi mai di letteratura. Parlo spesso di libri, sì, ma è un’altra cosa).

  23. erostratos says:

    vabbe’, ripasso quando diventi tetta

  24. letturalenta says:

    Per le metamorfosi al femminile ho ancora qualche problema logistico, ma ci sto lavorando!

  25. Laura says:

    Non è che io sia una cima in queste cose (anzi!!!) ma provo a precisare “e contrario”, come diceva la mia prof. di lettere. L’opposto di ciò che chiamo “spina dorsale” è il luogo comune, la scarsa densità di pensiero, la mancanza di tensione concettuale (forse sto usando parole troppo grosse e vaghe). Ma intendiamoci: si può anche costruire sul piccolo, sul minimo, sul niente, a patto però che ci sia una festa stilistica, una tessitura formale che compensi quella mancanza; ma laddove non c’è né una novità di contenuto né tanto meno una novità formale… Mi sono spiegata? Aggiungo una precisazione: sei stato tu per primo a distinguere tra partecipazione e completamento, non io: per me sono la stessa cosa.
    Al Signor Michele vorrei chiedere scusa, non sapevo che non fosse amico di nessuno in questo blog, però così mi è sembrato, dato il suo gergo ermetico (Petrarca, riunioni condominiali… ??????????????????): mi sono sentita esclusa da un codice privato.
    Grazie dell’accoglienza!

  26. Laura says:

    Mi sono dimenticata di fare un’altra precisazione. tu dici di non fare narrativa, dici di parlare di libri e non di letteratura… Beh, chiamali pure Gino, Arturo o Federico, ma la sostanza non cambia: quello che scrivi è narrativa e noi qui stiamo parlando di letteratura. Non puoi cambiare il nome alle cose che un nome ce l’hanno, eccome! Se lo fai ti atteggi ad originale a ogni costo, e perdi solo tempo. Ecco, ho detto tutto

  27. michele says:

    Specifico: Laura e Petrarca, ovvero Laura il Canzoniere e Petrarca è una forma inclusiva, nella inclusività imago, figura, fantasma. -io, laura e petrarca,- cioè sono (parte)in accordo con quanto dici. Poi Il condominio, è (o potrebbe esserlo) la redazione di Vibrisselibri. Naturalmente sottrarre scavare roccia, oltre che costruire abitazione rupestre, è anche per negativo costruire un tetto. Inoltre credo che lettura lenta confondi il senso del midrash. Quando due grandi civiltà (ebreo babilonese, ebreo- egiz) si incontrano e si fondano, nascono “interpretazioni” di tipo inclusivo-esclusivo. Civiltà agricola babilonese, Civiltà di pastori quella Egiz. (Mose)Così midrash, “il poco che sorregge il molto” perchè il testo ha qualcosa che vibra con il lettore, il quale a sua volta fa vivere il testo perchè ogni volta legge gli spazi bianchi in modo diverso in una lettura infinita: il testo è il poco che sorregge il molto delle interrogazioni. La Torah, (l’insegnamento) (etimologicamente legato a un radicale iaroh, che significa “prendere l’arco, mirare e fare centro”: se un maestro che insegna non fa centro nel discepolo, ha speso invano la sua fatica) se il testo invita a commenti costruttivi, questa è la sacralità del testo. Nulla si conclude lì, nella fase scritta. Ad esempio la sacralità del nome uomo -adam-, sta negli elementi che formano la parola stessa: A (che è la prima lettera dell’alfabeto, ma anche il numero 1, e infine ideogramma simile all’uomo che indica l’unicità spirituale di ogmi essere umano) e Dam (flusso vitale); la completezza dell’uomo, di adam, è data dall’unione di queste due parti (anche se adam rinvia etimologicamente ad adamà, Terra: l’essere fatto di terra) Un paradosso citato da Adorno nei Minima moralia afferma che “la vita non vive” e richiama l’attenzione sul fatto che in sè la vita non è un’entità, ma è sempre attribuita a qualche essere vivente. Detto questo forse ti ho portato (sembrerebbe)in altro “terreno” apparentemente sembrerebbe di si. Ma… in Italia questo insanabile, includere escludere, è forma di diatribe “politiche-scrittorie”, pensa alla forma Ego, Io e al Se, come forma totale. Elementi che spostano e non di poco l’asse delle interpretazioni. Scuole di pensiero negli anni sessanta, (origine gruppo 63 e poi in sostanza smantellamento) hanno tentato con “l’antistoricismo” un tentativo di comprensione del “SE”. Ma tempi ideologici si sono innestati, ora, ne è nata una grande confusione, e si è semplificato fino alla confusione e all’essere approssimativi. Detto questo non ho dato dell’approssimativo a nessuno, ma solo a me stesso, come si comprende da qui.

  28. letturalenta says:

    michele, il condominio a cui accennavo qui sopra in risposta a un commento di gabryella è un banalissimo e storicamente determinato condominio in cui ho la ventura di abitare. E veramente in un’assemblea di codesto condominio tenutasi l’8 marzo scorso si è discussa l’ipotesi di rifacimento del coperto condominiale (ne fa fede l’apposito verbale d’assemblea). Vibrisselibri, una volta tanto, è innocente. Quanto al midrash, sono sicuro di “confonderne il senso” qualunque cosa io dica, dato che del midrash ignoro praticamente tutto.

    Laura, io credo che tu stia usando parole vaghe per definire la “spina dorsale” di un testo scritto per un motivo sul quale credo si possa trovare facilmente un accordo, e che sintetizzo in una battuta: la scrittura non è una scienza. Per quanto ci sforziamo di trovare definizioni condivise, postulati, teoremi, quando parliamo di parola scritta va sempre a finire che formuliamo opinioni, non enunciati scientifici.

    Quel che scrivo io, come vedi, è qui raccolto in una categoria che si chiama “scrittura”, non certo “narrativa”; i post che parlano di libri sono raccolti in una categoria che si chiama “libri e dintorni”, non certo “letteratura”. Le parole sono cose e cerco di usarle con una certa prudenza. Poi tu sei liberissima di credere che io parli di letteratura o che io scriva narrativa, ma ci tengo a declinare ogni responsabilità in proposito.

    E naturalmente ribadisco che sei la benvenuta e che su quello che scrivo puoi dire quello che ti pare.

  29. michele says:

    non mi riferivo al condominio, inteso come condominio. Né ai verbali di questo. Ma piuttosto all’idea di esistenza di linea editoriale e forse, nell’immagine della montagna scavata, a qualcosa d’altro.. Che tu possa essere escluso dal midrash, è impossibile.

  30. Laura says:

    1) Dicevo “parole vaghe” perché non sono abituata a scrivere di queste cose; ammettevo la mia inadeguatezza, non l’impossibilità oggettiva di spiegarle (esistono centinaia di trattati chiarissimi sull’argomento, e ormai si parla di Scienza della letteratura). 2) Non possiamo cambiare i nomi alle cose: un sasso è un sasso, una bottiglia una bottiglia; tu decidi di chiamarle scritture, libri e dintorni? liberissimo, ma quando pubblichi un testo narrativo pubblichi un testo narrativo, e quando parli di Balzac, parli di letteratura. 3) Tu credi che la scrittura non sia una scienza, ok; ma io credo che bisogna lasciarla fare a chi sa farla; oggi, invece, troppi scrivono e pretendono di sparare giudizi.

  31. giuliana says:

    dallo Spazio si vedono solo tetti.

  32. michele says:

    giuliana che è mia moglie, tua fan, alla mia insaputa. In famiglia si inizia a litigare. (buona giornata)

  33. letturalenta says:

    Benvenuta Giuliana. E non litigate!

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