[dtfn] – Glossa fuori testo

Saku Paasilahti: De te, fabula narratur (1999), tratto da http://rikart.lib.hel.fi/Oggi Armando Adolgiso – artista polimediatico, eccentrico, virtuoso – si è occupato del mio manoscritto ritrovato De te fabula narratur nella sua rubrica quotidiana Cosmotaxi, precisamente qui. La sua presentazione mi offre il destro per riflettere un poco su questo oggetto misterioso che da tempo ammorba l’incolpevole lettore di questo blog. Sono riflessioni in un certo senso postume, perché l’oggetto in questione, prima che mi decidessi a metterlo in rete, se ne stava quieto a sonnecchiare in qualche remoto cilindro del mio hard disk, pronto a sparire alla prossima inevitabile formattazione (ebbene sì, lo confesso, uso XP).

DTFN è nato a metà luglio del 2004 e ha apparentemente cessato le trasmissioni all’inizio di ottobre del 2005, per poi riprenderle a sorpresa alla fine di marzo del 2006, periodo in cui ho trascritto gli ultimi due capitoli. Il lettore di questi appunti forse noterà che esito a definirmi autore di questo sedicente racconto. Il motivo è che DTFN aspira a essere un testo anonimo per prendere su di sé tutti gli onori e gli oneri della Fama, sospingendo in una tenebra definitiva lo scriba che ne ha pazientemente subito il dettato. Esso racconto mette le cose in chiaro fin dal primo capitolo, che si conclude con una beffarda denigrazione dell’autore:

Quanto a quel tale che va dicendo di avermi scritto, se mai lo hai incontrato, avrai notato il suo discorrere vago e reticente, il suo sguardo obliquo, gli improvvisi innalzamenti di voce accompagnati da un generico roteare delle mani, e i subitanei silenzi, tutti indizi di fatale demenza. Anche in questo momento sento il ticchettare nervoso dei suoi polpastrelli sulla tastiera, inframezzato da frequenti pause durante le quali, presumo, egli tenta di interpretare i segni neri che si formano via via sulla schermo bianco; e noto le sue prolungate assenze (vuoti di ispirazione? ah ah ah!).

E così via sbeffeggiando, al limite della calunnia. Sarei davvero pazzo a definirmi autore di un ordigno verbale che fa di tutto per screditarmi e prendersi gioco di me. Preferisco dargli ragione e limitare il mio ruolo a quello di copista, anche per non far ricadere interamente su di me la colpa di avergli dato forma e lingua umana. Ammetto pertanto di aver scritto di mio pugno ogni parola, spazio bianco, accapo e segno d’interpunzione di DTFN, ma riconosco che questo mio lavorio ortografico non fa di me il suo autore.

D’altra parte è noto che gli autori veri – quelli che affollano il Parnaso o quanto meno le pagine di oneste antologie – sono persone che hanno qualcosa da dire. Per avere qualcosa da dire è necessaria una precondizione che raramente viene sottolineata, e che è a grandi linee questa: confidare nella capacità delle parole – e in particolare delle parole scritte – di trasmettere con un accettabile grado di fedeltà la propria visione del mondo. Ora, il problema è che io sono convinto che la scrittura non sia nata per rivelare o comunicare, ma proprio per la ragione opposta: velare, coprire, occultare, dissimulare, ingannare, sviare. Una prova indiretta di questa ipotesi è che i più grandi produttori e consumatori di scritture furono in antico movimenti religiosi e apparati statali, all’epoca fortemente interconnessi. Forte di questa mia opinabilissima opinione, sono da sempre restio ad affidare a oggetti ambigui come le parole il compito di traghettare nel mondo quel poco che del mondo penso. Preferisco metodi più chiari e diretti come opere e omissioni: fare ciò che ritengo giusto, non fare ciò che ritengo sbagliato.

A quel che scrivo affido un altro compito, che potrei definire di intercettazione. Funziona più o meno così: un tale che non sono io (almeno spero), ma che per qualche imperscrutabile fenomeno psicofisico alligna nel mio corpo e nella mia mente, sfoga le sue angosce e i suoi terrori in una produzione torrentizia di parole affatto prive di nessi logici o sintattici. Sono frammenti, inizi di pensieri, tranci di frasi, promesse mai mantenute di grandi illuminazioni e consolanti epifanie. In questo marasma verbale a volte riesco a captare una traccia più persistente e compiuta, capace di dirmi qualcosa su quel tale con il quale mio malgrado coabito. Quando questo succede, mi metto di buzzo buono a trascrivere la traccia per darle una forma leggibile. Se al termine di questa operazione resta un testo non completamente oscuro, lo metto in circolazione, sperando che qualche lettore di passaggio ci si soffermi un poco, magari lasciando a margine una chiosa o una glossa inconsapevolmente rivelatrice del carattere e della psicologia di quel tale.

A volte l’intercettazione riesce, e di là fuori mi giunge qualche barlume più o meno chiarificatore, oppure un silenzio oltremodo eloquente. Insomma, per farla breve, scrivere è per me – uomo taciturno e tendenzialmente misantropo – uno strumento leggermente complicato per conoscermi un po’ meglio. D’altronde è ben noto che la conoscenza di sé medesimi è un riflesso degli altri e che se si cerca di conquistarla da soli si fa la fine del povero Narciso.

E quindi? Quindi niente, almeno fino a quando anche queste peregrine riflessioni non genereranno altri riflessi.

3 Responses to “[dtfn] – Glossa fuori testo”

  1. gabryella says:

    caro interlocutore,
    il lettore (e spiace constatarlo) di fatto non esiste..a meno di non considerare che egli, parto dell’immaginazione del copista indagatore, dell’occasionale co-pseudo-lettore, del presunto autore, dall’intera minestra primordiale d’ispiratori del presunto autore, del racconto in questione e dei racconti in generale, non sia che il riflesso di questo un po’ modesto e inutile commento

  2. CalMa says:

    La succulenta forma affabulante con cui rivesti questo esercizio escavatore (m’è venuta così, nun ce pozz’ fa’ niente) spinge me che ti leggo (e che mi leggo, dunque) a svelare ciò che queste parole nascondono (e intendo queste, proprio queste qui). benché, ovvio, meglio ci sarei riuscito tacendo del tutto.

  3. letturalenta says:

    Il silenzio è il limite estremo della parola, quell’ideale di comunicazione immediata (= priva di mediatori) a cui inconsciamente tendiamo, o CalMa. Tuttavia è del tutto naturale e inevitabile che noi parlanti di questa epoca – ancora lontana dal perseguimento dell’ideale – si continui a non tacere, pur restando consapevoli della natura vagamente psicotica di codesto esercizio. In sintesi: grazie del commento :-)

    gabryella, il tuo commento al pari di ogni glossa – rimanda giocoforza all’essere umano che l’ha vergato, ma non credo che possa in alcun modo accertarne l’esistenza o l’essenza. Se mai qualcuno mi dicesse “io sono ciò che scrivo”, confesso che lo guarderei con sospetto, se non con paura.

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