[dtfn] XIX – Etica

(Il manoscritto ritrovato di letturalenta. Frontespizio e indice)

Saku Paasilahti: De te, fabula narratur (1999), tratto da http://rikart.lib.hel.fi/Sono lieto che tu non abbia ancora deciso di porre fine alla mia lettura. Sai, a volte può capitare che un uomo chiuda un racconto prima del suo naturale explicit, o che un racconto chiuda un uomo prima di averlo scandagliato a dovere. Quando questo succede, è segno che fra i due non si è stabilita quella sottile complicità necessaria per condividere una reciproca e soddisfacente perdita di tempo. È raro che si riesca a stabilire con certezza chi dei due porti la maggior dose di responsabilità per la fine della relazione, e tutto sommato non ha molta importanza: non si può pretendere che un racconto legga di tutto, né che un uomo si lasci leggere da chiunque.

Un mio vecchio conoscente tedesco, Le affinità elettive, discute spesso e con rara eleganza su questo tema, paragonandolo con dovizia di argomenti a fenomeni naturali di attrazione e repulsione, come il magnetismo, e alla facilità dei rapporti umani a cambiare di segno, da amore a odio, da inimicizia a sodale fratellanza. Ahimè, se solo avessi la centesima parte della sua erudizione non sarei continuamente assalito dal timore di annoiarti o di perderti per la strada, o di vedere la tua iniziale buona disposizione nei miei confronti mutarsi in noia, se non in rancore.

Quel vecchio signore tedesco può vantare molte letture, e delle più raffinate. Non nego che questa considerazione mi mette un po’ a disagio nei suoi confronti. Come ti ho detto qualche capitolo fa, il numero di letture è un segno di prestigio nella nostra società, e causa di numerose invidie e risentimenti. Ammetto senz’altro la sua superiorità sociale, tuttavia non posso fare a meno di notare che egli ha su di me un vantaggio di non poco conto, ovvero quello di essere stato trascritto in un’epoca molto più propensa della mia a mantenere vivo il sodalizio fra letteratura e umanità. Sebbene io sappia con certezza che questo vincolo è necessario all’esistenza degli uomini e dei racconti, infatti, sarei sciocco se negassi che mai come oggi esso è stato fiacco, debole e indifferente alla sua sorte.

Anche in questo caso non è possibile distribuire equanimamente colpe e responsabilità, ma è evidente che la forza del nostro legame non è più quella di allora. Le affinità elettive ha vissuto la propria formazione alla lettura in un tempo in cui non pochi uomini si dedicavano volentieri alla nostra cura. Gli scrivani incaricati di trascriverci utilizzavano strumenti lodevolmente lenti, quali il càlamo vergato con lena d’amanuense su rudi quinterni. La velocità limitata della scrittura manuale, unita all’affaticamento dei polsi e delle dita, imponeva loro frequenti pause durante le quali potevano ascoltarci con rinnovata e sveglia attenzione e discernere con sufficiente esattezza il nostro dettato.

I copisti di oggi, invece, usano strumenti elettronici che consentono velocità di trascrizione a dir poco inaudite. Ciò che il prudente scrittore ottocentesco copiava in un’ora, costoro lo vergano in dieci minuti, e senza che le loro membra patiscano fatica o spossatezza alcuna. Vergare, poi, è termine desueto, sostituito da un assai più prosaico ed equivoco battere, e mentre quelli lavoravano in stanze silenziose e dotate di convenienti zone d’ombra, questi battono un po’ dove càpita, non disdegnando chiassose taverne o vagoni ferroviari fastosamente illuminati. In queste condizioni è assai più difficile per noi dettare chiaramente, e non di rado le nostre parole non vengono intese o vengono confuse con il chiacchiericcio circostante. A me è addirittura successo che l’insulso scribacchino che sento battere anche in questo momento mi abbia frainteso al punto di scrivere alla fine del mio terzo capitolo una parola affatto inesistente!

Questo calo di qualità è molto avvilente per noi e motivo di notevole frustrazione. A che pro, infatti, ci industriamo a curare le nostre scelte lessicali, se poi questi sciatti scrivani non sono in grado di rispettarle? Ed è poi davvero solo una questione di scarsa abilità e di trascuratezza? Perché, vedi, un altro problema è la loro mancanza di umiltà e di spirito di servizio. Pare che l’antica consapevolezza di non essere altro che scribi stia inesorabilmente scemando.

Un tempo si accontentavano di infilare di soppiatto qualche glossa nei nostri testi – cosa che abbiamo sempre tollerato con magnanimità – ma oggidì la loro invadenza sta crescendo a dismisura: inquinano rispettabili storie inondandole di lamentazioni le più varie e risibili sui loro casi personali; mettono a repentaglio la stabilità di solide architetture linguistiche sovrapponendovi il loro lessico spurio e ammiccante; si recano a convegni postribolari con sedicenti lettori, e lì si dedicano ad attività le più licenziose e sconvenienti, quali la pubblica lettura di ciò che con inaudita disonestà chiamano la loro opera. Non saprei dire con precisione quando ha avuto inizio questa specie di rivolta sotterranea, questo uscire dai ranghi a piccoli passi, ma siamo ormai arrivati a un punto tale di sregolatezza che dubito di rivedere i bei tempi in cui scrittore significava semplicemente uno capace di maneggiare penna inchiostro e calamaio.

Sono tempi duri, credimi, segnati da un’irrefrenabile spasimo tutto teso a produrre, a dire, a significare, a realizzare. Non c’è uomo o racconto che non concentri ogni sua energia allo scopo di emergere, di farsi notare, di raccogliere applausi. Saltano tutte le antiche complicità, saltano tutti quei rimandi facilmente decifrabili dal racconto alla vita, dall’umanità alla letteratura, che per secoli e secoli sono stati il codice mai troppo segreto delle nostre frequentazioni furtive. C’era una volta un’epoca perduta in cui bastava mormorare c’era una volta per fermare il mondo, per radunare l’umanità intera attorno a un focolare o nelle piccole piazze dei paesi, ai crocicchi o nelle taverne. Quando l’affabulatore iniziava a raccontare, tutto il mondo si fermava ad ascoltare in silenzio, e accoglieva con lieve disappunto la fine della storia. Il menestrello si limitava a raccogliere i racconti per strada, e per strada li restituiva così come li aveva intesi. Oggi non c’è più il tempo per fermarsi ad ascoltare, o forse non ci son più quei menestrelli.

Ma è bene che io mi scrolli di dosso questa vena malinconica che rischia di portarmi fuori strada. Animo, su! Barra al centro e prora al vento. È tempo di issare le vele.

One Response to “[dtfn] XIX – Etica”

  1. essay-law.somee.com

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