[dtfn] De te fabula narratur

(Il manoscritto ritrovato di letturalenta. Frontespizio e indice)

Saku Paasilahti: De te, fabula narratur (1999), tratto da http://rikart.lib.hel.fi/Ormai ci frequentiamo da un po’. Ho impastato circa sedicimila parole che parlano di me e del mio mondo, delle mie debolezze e dei miei timori, dei miei sogni e della mia poetica. In più di un’occasione hai manifestato perplessità nei miei confronti, e ti sei chiesto almeno una volta che scopo potesse avere questo mio lungo monologo. No, non negare, non credere che questo mi offenda o che io intenda rimproverarti. Mi rendo conto che il mio è un discorso non privo di vaghezza e che seguirmi in tutte le mie giravolte e i miei vagabondaggi può provocare noia e irritazione.

Sono convinto, d’altro canto, che se mi hai seguito fin qui è perché in te batte un cuore di flâneur e sono certo che non ti dispiace perdere il segno, cambiare strada o fermarti a spiare la gente riflessa nelle vetrine dei negozi. So bene che ci sono carte che non ho ancora scoperto, piccole reticenze che tu hai intelligentemente notato. Sì, è vero: non ho ancora reso una confessione completa, non ho ancora avuto il coraggio di spogliarmi del tutto davanti a te, e so che tu potresti interpretare questa mia esitazione come una mancanza di fiducia nei tuoi confronti, o come un’inconscia ammissione di non desiderare una piena e sodale amistà.

Ma non è così, credimi. Questo apparente pudore è piuttosto il segno di un ostacolo ineluttabile che da sempre impedisce una totale e soddisfacente compenetrazione fra i racconti e gli uomini, ostacolo al quale, come avrai ben compreso, ho accennato appena, quasi con timore, alla fine del capitolo diciottesimo: ci sono cose che non si possono dire; ci sono parole che non si possono vivere. Ti ho già detto che non saprei dare un significato preciso a questo piccolo aforisma che si è infilato di soppiatto nella mia trama, non invitato, causandomi non pochi problemi, fra i quali la riprovevole sbandata malinconica alla fine del capitolo successivo, ma sento che ha qualcosa a che fare con quell’ostacolo e cercherò di chiarire questa sensazione attingendo alla mia esperienza quotidiana.

Da molti anni ormai coltivo un’onesta e confidenziale amicizia con Madame Bovary, una novella francese non più giovanissima, ma adornata di quella venustà che deriva dall’allegrezza e dal brio, e che si rafforza con il passare degli anni anziché scemare. Ella mi racconta spesso di come Emma, la sua protagonista femminile, avesse frequentato durante l’adolescenza numerosi romanzi e romanzetti di dubbio gusto, di quelli che raccontano storie mielose di nobili amanti che per amore sfidano le leggi e le convenzioni sociali, organizzando rapimenti avventurosi e fughe romantiche in paesi preferibilmente esotici ove vivere per sempre felici al fianco dell’amata. Nel seguito della storia la ragazza diventa donna, si sposa e resta profondamente delusa quando scopre l’abisso che separa la sua esperienza da quella delle sue eroine letterarie, così delusa da volere in tutti i modi riforgiare la sua vita su quei modelli, cercando improbabili amori perfetti e fughe liberatorie dalle catene del mondo e del matrimonio, ma tutti i suoi tentativi falliranno fino all’inevitabile catastrofe.

La mia deliziosa amica racconta tutto questo con amabile ironia e un incantevole accento francese che potrebbero trasformare la più atroce tragedia in un allegro e luccicante vaudeville. Ma pur sempre di tragedia si tratta, e lei non ne fa mistero. La sua conversazione vivace e intelligente mi conduce a riflettere e non di rado la riflessione, dopo aver alquanto divagato, finisce per concentrarsi su quel famoso ostacolo. Quei romanzi che Emma leggeva in gioventù – gli antenati dei banditi di cui ti parlavo poco fa – hanno violato il divieto della prima sentenza del mio aforisma, ed Emma ha fatto altrettanto con il secondo divieto: letteratura e vita hanno complottato per rimuovere il diaframma che impediva loro di unirsi in un amplesso totale e inscindibile.

Ora, io mi chiedo: è la violazione in sé a causare la catastrofe finale, o non è piuttosto il suo fallimento? Perché, vedi, il nodo della questione è tutto lì e chi riuscirà a scioglierlo entrerà di diritto nella storia della letteratura e in quella dell’umanità. Perché Emma non può sottrarsi alla catastrofe? Per aver tentato di vivere parole invivibili o per non esserci riuscita? E lo stesso si può dire di quei romanzetti sentimentali: perché sono caduti nell’oblio? Per aver tentato di dire cose ineffabili o per non essere riusciti a farlo fino in fondo?

Se la morte e l’oblio fossero la conseguenza diretta della duplice disobbedienza, l’ostacolo che ci impedisce la perfetta simbiosi sarebbe inamovibile, mentre se a causare la catastrofe fosse il fallimento della disobbedienza, resterebbe intatta la speranza di poterlo rimuovere, prima o poi, e tu capisci che rimuoverlo significherebbe entrare in uno stato di comunione tale da rendere superflua la distinzione fra letteratura e vita, fra umanità e racconto. Se questo fosse possibile, la catastrofe peggiore – quella che si annida negli snodi più ardui del mio intreccio – sarebbe definitivamente scongiurata.

In che modo quei racconti con cui Emma conversava da giovane hanno infranto il divieto di dire cose che non si possono dire? La mia amica francese ha le idee molto chiare su questo punto, e quando ne parlo con lei ho l’impressione di aver ben compreso i suoi argomenti, ma non appena prendo congedo e comincio a rifletterci fra me e me, non ne sono più tanto sicuro. I racconti, dice, hanno il dovere di non mentire volontariamente e devono essere al contempo consapevoli di non poter dire altro che menzogne nelle quali credono fermamente. Essi mentono volontariamente quando fanno affermazioni in cui non credono e, dato che non si è mai visto un racconto sano di mente credere nell’amore eterno e nella felicità terrena, i racconti giovanili di Emma mentirono consapevolmente inventando storie di amori felici.

In altre parole, continua la mia amica, i racconti devono parlare solo di ciò che apprendono dalla lettura continua dell’umanità, lettura che altri racconti hanno fatto prima di loro e che loro sono tenuti a perpetrare senza tradimenti. Compito dei racconti è leggere gli uomini, non inventare di sana pianta un’umanità inesistente.

La compagnia di madame mi riempie di gioia e le sarò eternamente debitore per avermi concesso liberamente il privilegio di poter godere a lungo della sua amicizia e della sua intelligenza. Le sue parole semplici e leggermente divertite rivestono di grazia le mie passioni sbilenche e un po’ smodate e mi danno la forza di proseguire la mia navigazione senza che lo sconforto mi vinca, anche quando capisco che la rotta non è tracciata a dovere e che l’ultimo punto è stato fatto con deplorevole approssimazione. Spero che adesso tu sia pienamente convinto del fatto che io non posso parlare che di me stesso e di ciò che mi ossessiona e mi sgomenta: è l’unico modo onesto che ho per guadagnarmi di che vivere o almeno di che sopravvivere. E spero che tu veda con chiarezza che questo mio trattatello estemporaneo non poteva avere un titolo diverso da quello che gli ho dato.

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