[dtfn] XXI – Autodifesa

(Il manoscritto ritrovato di letturalenta. Frontespizio e indice)

Saku Paasilahti: De te, fabula narratur (1999), tratto da http://rikart.lib.hel.fi/So che potrebbe sembrarti strano, se non presuntuoso, che io mi commenti da me. L’ho fatto nel mio capitolo quinto, l’ho rifatto nel vigesimo e non posso prometterti che non lo rifarò.

Se io fossi, poniamo, un racconto naturalistico, uno di quei racconti che erigono solidissimi recinti verbali attorno al loro intreccio e a tal punto lo cingono e lo circoscrivono da renderlo affatto indistinguibile dall’artifizio retorico che lo esprime, probabilmente non avrei bisogno di commentarmi: il monumento delle mie caratteristiche grammaticali e sintattiche coinciderebbe con ogni possibile interpretazione. Anche se fossi un dialogo filosofico ben congegnato, uno di quelli che procedono ordinatamente all’esposizione del proprio tema, dando conto di ogni argomento favorevole e contrario e tutti discutendoli per arrivare a una conclusione ineccepibile, non avrei motivo di fermarmi di tanto in tanto a commentarmi: il mio stesso procedimento dialettico, infatti, darebbe spazio a tutte le ragioni e a tutte le obiezioni.

L’enorme vantaggio di testi così ordinati e ben costruiti è quello di essere impermeabili al commento: sono talmente levigati e privi di asperità da non offrire alcun appiglio a un discorso che volesse abbarbicarsi a loro per coprirli, occultarli, sostituirsi a loro usando la lusinga velenosa dell’interpretazione. Certo, è sempre possibile confutare le loro tesi, o demolire le fondamenta del loro tema o del loro intreccio, ma la loro forma, il loro lessico, il tono e il timbro della loro voce, la scelta dei leganti sintattici, l’altezza retorica a cui hanno deciso di stabilirsi, tutto questo è inattaccabile dalla ruggine del commento.

Il mio procedere ondivago, invece, l’incapacità di racchiudere le mie intenzioni narrative in un fasciame ben stretto e calafatato ad arte, presta naturalmente il fianco alle più dure critiche formali: l’alternanza di toni alti e bassi, la convivenza di narrazioni fattuali e meditazioni esistenziali, l’allocuzione in seconda persona, la reticenza a proporre un significato chiaramente identificato, l’intrusione di frammenti gnomici e didascalici in un contesto assiologicamente neutro, la presenza simultanea di più narratori, l’adesione sempre provvisoria e incerta a modelli consolidati, queste e altre mie imperfezioni sono tutte facilmente contestabili, e devo dire che non avrei argomenti da opporre a chi le considerasse motivo sufficiente per escludermi in eterno dal novero dei capolavori canonici di tutti i tempi.

Mi dispiacerebbe, certo, ma non saprei dar torto a chi, rilevando quelle mancanze, non farebbe altro che descrivere correttamente la mia intima natura di racconto digressivo e tendenzialmente onnivoro: tale sono, e non potrei cambiare se non violentando barbaramente me stesso. Ecco allora che il mio commento a me medesimo è l’usbergo con cui tento di difendermi dalle manipolazioni interpretative più maligne e di dare quanto meno a me stesso l’illusione di possedere una qualche dignità letteraria.

È un riparo debole, lo so, ma non privo di efficacia. L’ho appreso da Don Chisciotte, un romanzo cavalleresco spagnolo ancora in piena attività a dispetto dell’età avanzata. Un giorno l’ho incontrato durante una delle sue rare pause di lettura e l’ho trovato ben disposto a conversare con me nonostante la mia evidente inferiorità di rango e di esperienza. Il discorso è caduto quasi subito sul problema dell’interpretazione e del commento, un tema molto sentito dal cavaliere per via delle frequenti e assillanti interrogazioni accademiche a cui si sottopone quotidianamente con rara e ammirevole pazienza.

Vedi, mi ha detto, il problema non è tanto quello di schivare a tutti i costi l’azione corrosiva e intrusiva del commento, che è per molti versi inevitabile e per altri addirittura auspicabile, quanto quello di impedire che quest’edera infestante soffochi completamente la nostra libertà di lettura. Tu sai bene quanto sia invadente il discorso interpretativo e fino a qual punto esso miri a sostituirsi al nostro con arti melliflue e pericolose: dapprima ci lusinga mettendo in luce le nostre virtù generali e innalzandoci alquanto al di sopra dei nostri simili. Poi inizia a rivelare cautamente i nostri meccanismi narrativi, dai più evidenti ai più segreti, saggiando al contempo le nostre reazioni e la nostra disponibilità a reggere il suo gioco. Passa quindi a discettare delle nostre scelte lessicali e linguistiche: la tipologia dell’aggettivazione o il dosaggio di ipotassi comparative e temporali, subordinazioni causali e finali, paratassi correlative.

Partendo da queste manovre apparentemente innocue e destinate a un ristretto pubblico accademico, il commento allarga via via la sua sfera d’azione e comincia a occuparsi delle nostre intenzioni narrative e dei significati più o meno espliciti delle nostre storie. Quando iniziamo a renderci conto delle sue mire è già troppo tardi e il discorso interpretativo ha buon gioco ad espandersi e a moltiplicarsi all’infinito, richiamando su di sé tutta l’attenzione di ulteriori commenti che alla lunga cesseranno di interessarsi a noi, ma si affolleranno a discutere e a litigare fra di loro, creando un baccano tale da impedirci per sempre di riprendere con la necessaria tranquillità la lettura degli uomini.

Perché questo è il fine ignobile del commento, bada: accapparrare per sé solo il nostro naturale nutrimento, fino a farci morire di fame. Non ci sono difese infallibili contro codeste azioni di guerriglia, tuttavia possiamo mettere in campo qualche accorgimento tattico che ci consenta di limitare i danni. Uno di questi è quello di anticipare le mosse del nemico, che ormai conosciamo abbastanza bene: questo lo disorienta quel tanto che basta per mandare a vuoto i colpi più pericolosi.

Nel mio ultimo capitolo, ad esempio, ho inserito l’abiura del mio personaggio eponimo, il cavaliere errante Don Chisciotte, eteronimo del nobile hidalgo Alonso Chisciano: egli dichiara che tutte le sue avventure, da me raccontate, furono sciocchezze e che follia fu l’aver voluto imitare le gesta degli antichi cavalieri che altri raccontarono prima di me. Con questo semplice stratagemma sono riuscito a deviare i fendenti più insidiosi del discorso interpretativo, togliendogli quanto meno la possibilità di avanzare con sicumera ipotesi fantasiose sulla morale della mia storia: dichiarando vere e nobili le gesta di Don Chisciotte, il commento si sarebbe arenato di fronte alla confutazione diretta del testo; dichiarandole folli e diseducative avrebbe dovuto ammettere di non aver detto nulla di nuovo, dato che l’eroe stesso l’aveva preceduto.

Nemmeno questo è bastato a fermare quella malapianta, sia chiaro, ma a ritardarne l’azione sì, per dare a colui che tutti noi attendiamo la possibilità di agire in condizioni favorevoli. Ci sono voluti trecento anni nel mio caso, ma alla fine è arrivato, mi ha stretto in un citazione dolcemente mortale e ha fatto delle mie macerie un racconto nuovo. Se vuoi accettare il consiglio di un vecchio, ha concluso Don Chisciotte, spargi a piene mani commenti e ipotesi interpretative attorno al tuo ridotto diegetico: vedrai che recensori, interpreti e sedicenti lettori si accosteranno con la massima cautela.

Detto questo si è alzato, mi ha salutato con grande cortesia ed è tornato serenamente alle sue amate letture.

2 Responses to “[dtfn] XXI – Autodifesa”

  1. maria strofa says:

    A parte che queste digressioni sul don chisciotte sono splendide, un’altra strada è quella gioisiàna: in una lettera a non ricordo chi, giacomo persegue volontariamente la strada dell’oscurità nell’Ulisse perché – dice – ciò gli assicurerà l’immortalità presso legioni di interpreti che cercheranno di decifrare i suoi enigmi.

  2. letturalenta says:

    Giacomo Giois era un drittone!

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