[dtfn] XXIV – Novella terza, La morte dell’Autore [4]

(Il manoscritto ritrovato di letturalenta. Frontespizio e indice)

Saku Paasilahti: De te, fabula narratur (1999), tratto da http://rikart.lib.hel.fi/IV
Appena udii il tonfo inconfondibile che un corpo sovradotato di grasso produce quando si schianta senza controllo su un pavimento di legno, avrei voluto balzare in piedi per prestare soccorso, ma per un certo tempo rimasi impaniato nelle insidie basculatorie della poltrona, che sommate alle sue giravolte ribaltabili rendevano più che arduo il compito di abbandonarla.

Liberatomi infine in un sol colpo da quella trappola e da quella dell’intreccio del capitolo undicesimo – dove un maschio innominato volava in aereo da Gerusalemme alla volta di una barca ancorata di fronte a una spiaggia di Sharm‑El‑Sheik, barca già occupata da una femmina senza nome che uscita dall’ufficio era passata da un negozio prima di attraversare il centro per recarsi a casa e di lì, a nuoto, alla sullodata barca, dove stava leggendo Le avventure di Augie March – mi precipitai in biblioteca e lì lo vidi, atterrato da una forza enorme e misteriosa che l’aveva inchiodato su un fianco, le gambe lanciate all’indietro e leggermente flesse al ginocchio, i piedi uniti, le braccia distese in avanti, la testa un poco arrovesciata, formando nel complesso una figura simile a un coniglio che spicca il salto, quando si fosse escluso da quel quadretto il particolare del libro ancora stretto nella mano sinistra con il pollice conficcato fra le pagine a guisa di segnalibro.

Non dovevo essere medico per rendermi conto che il coniglio non avrebbe più potuto cambiare posizione di sua volontà, né la mancanza di addestramento alle discipline giuridiche mi impediva di sapere che in quella situazione non avrei dovuto toccare nulla, ma era la mia formazione letteraria ormai prossima al coronamento a suggerirmi che, per un imprevedibile concorso di circostanze, ero diventato mio malgrado il testimone unico dell’accadimento che da secoli scatena gli istinti compulsatori e archivistici di legioni di studiosi e critici: la morte dell’Autore.

Evento topico del mondo letterario, in occasione del quale si assiste all’esplosione di un lutto chiassoso a base di sventolii di fazzoletti lacrimosi, commossi addii, arrivederci non del tutto esenti da un furtivo gesto scaramantico. I membri a vario titolo della comunità letteraria, scrittori, commentatori, editori, ma anche semplici lettori, ingaggiano un’incruenta e onesta gara di incensazione del caro estinto. Dietro tanta enfasi necrologica, però, alligna un certo qual senso di sollievo, un’inconfessabile esultanza liberatoria, un finalmente impronunciabile.

La morte dell’Autore, quella vera, illumina il senso della sua morte metaforica, annunciata più volte da schiere di critici nella seconda metà del secolo ventesimo: questa «presenza ingombrante», questa «ipotesi non necessaria», come diceva Manganelli, ha tolto materialmente il disturbo, lasciando all’acume degli interpreti un’opera finalmente conclusa, molto più maneggevole per l’esercizio di eruditi commenti. Alla felicità dei recensori si affianca quella dell’editore, che può finalmente ordinare generose ristampe, pianificare opere complete, o commissionare investigazioni postume in cassetti ormai incustoditi. Sul corpus testuale consegnato in via definitiva alla posterità potrà finalmente proliferare una brulicante coltura di postille, seconde edizioni, terze pagine e quarte di copertina, per la gioia dei lettori sempre a corto di novità.

La morte dell’Autore, insomma, mette in movimento tutti gli ingranaggi del meccanismo letterario‑editoriale, racchiude in sé auspici di rinnovata vitalità, allontana il momento in cui anche la letteratura, come tutto ciò che è terreno, dovrà morire. Nella mia qualità di unico testimone diretto dell’evento avevo sul resto della banda un vantaggio inestimabile e un enorme potere di indirizzo delle future ricerche. Mi misi senz’altro al lavoro.

Attraversai la biblioteca, uscendo dalla porta opposta a quella confinante con lo studio, ed esaminai cautamente le stanze che si affacciavano su un atrio circolare: in casa non c’era nessuno, come speravo. Nel bagno di servizio trovai quasi subito quello che cercavo: una confezione di guanti trasparenti usa e getta per le pulizie domestiche.

Impugnando la scatola con la mano protetta da un fazzoletto, presi un paio di guanti, li indossai e tornai alla scrivania dello studio, dove per prima cosa provvidi a regolare la poltrona ribasculgirevole in una posizione il più possibile bloccata e vivibile, poi lavorai per una decina di minuti all’undicesimo capitolo, facendo esplodere in volo l’aereo che avrebbe dovuto portare PM3 al fatidico appuntamento clandestino con PF1: l’evento centrale del romanzo, quello che secondo l’Autore avrebbe determinato tutto il corso della storia passata e futura non sarebbe mai accaduto.

L’evidente discrasia fra la mia piccola variante e lo schema affisso alla parete avrebbe scatenato l’acribia dei valenti necrofori preposti alla ricomposizione delle salme letterarie. Si sarebbero create almeno due scuole: la prima avrebbe sostenuto la tesi secondo cui quell’uscita imprevista dallo schema testimoniava l’esistenza nell’opera dell’Autore di una vena artistica aperta alla libertà compositiva tipica del romanzo picaresco, ma riletta in chiave neoavanguardistica e postmoderna; la seconda scuola avrebbe ipotizzato una svista temporanea che l’Autore avrebbe certamente corretto modificando la stesura o lo schema, se la morte non gliel’avesse impedito. Quest’ultima congettura, proprio perché più cauta e verosimile, sarebbe presto uscita sconfitta dalla disputa accademica, e per l’intera produzione dell’Autore si sarebbe aperta una fastosa stagione di riletture e reinterpretazioni alla luce della sorprendente deviazione dell’incompiuta Opera 39.

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