Michele Mari – Verderame

Michele Mari, VerderameVerderame (Einaudi 2007, €16,50) non è la prova migliore di Michele Mari, ma va detto che dopo un capo d’opera come Tutto il ferro della torre Eiffel (2002), superarsi non dev’essere impresa da poco nemmeno per questo talentuosissimo autore. La cifra di Verderame sembra essere quella del ritorno: ritorno alla prosa, dopo la parentesi poetica di Cento poesie d’amore a Ladyhawke, e ritorno a temi e ossessioni di vecchia data, dopo la performance erudita ed enciclopedica di TIFDTE.

Con Verderame Mari riporta la sua scrittura raffinata e colta in quel campo misto di terrori infantili, fantasia e ricordi già percorso in lungo e in largo in altri libri, e soprattutto nei racconti di Tu, sanguinosa infanzia (1997), che è peraltro citato indirettamente dall’illustrazione in copertina di Karel Thole, autore di innumerevoli copertine della mitica collana Urania negli anni sessanta. Un racconto incluso in Tu, sanguinosa infanzia si intitola appunto Le copertine di Urania, racconto in cui Mari intreccia la storia editoriale della collana con i suoi ricordi di compulsatore di quei libri e in particolare delle loro copertine spaventevoli e fantastiche, da lui definite «sempre e comunque, l’iconografia dell’angoscia».

E l’angoscia nella prosa di Michele Mari è spesso associata al sottosuolo, a quelle profondità terrestri o marine sconosciute e invisibili che la fantasia infantile non tarda a popolare di mostri terrificanti, sempre pronti a sbucare in superficie con intenzioni tutt’altro che amichevoli nei confronti degli umani.

In Verderame il ruolo di mostro ctonio è interpretato dalle “lumache francesi”, una specie sconosciuta ai manuali di zoologia, quasi mitologica e per questo ancora più inquietante. Lumache che in apertura del libro si presentano per quei comuni e innocui amimaletti che sono, ma che nel dipanarsi del racconto diventano a poco a poco una moltitudine minacciosa, milioni di esseri viscidi e famelici che infestano oscure cavità, a stretto contatto con misteriosi resti umani, giusto per sottolinearne il carattere orrorifico. E non a caso il libro si apre con l’esecuzione sommaria di uno di questi mostri:

Dimidiata da un colpo preciso di vanga, la lumaca si contorceva ancora un attimo: poi stava. Tutto il vischioso lucore le rimaneva dietro, perché la scissione presentava una superficie asciutta e compatta che il colore viola-marrone assimilava al taglio di una bresaola in miniatura. (…) Puàh! – fece il villano sputando sopra il cadaverino ma mancandolo di qualche centimetro. Poi ritrasse la vanga e ne passò la lama fra due dita, come a nettarla di una poltiglia che esisteva solo nella sua testa. – Lümàgh frances!

Il terminatore di lumache è Felice, custode da una vita della villa di campagna dei nonni, dove il protagonista Michelino trascorre le vacanze nell’estate del 1969. Michelino ha solo tredici anni, ma ha già alle spalle una lunga carriera di lettore accanito di Stevenson, Melville, Conrad, Salgari, ma anche della Bibbia e di Darwin. Un ragazzino che nel bel mezzo di un ragionamento non si perita di citare Hoffmann, Poe e Lovecraft. Nessuno meglio di questo enfant prodige può aiutare il povero Felice con il suo problema: un’incipiente ma sempre più grave perdita della memoria:

– Michelìn! – mi disse con la voce di uno che sta per piangere.
– Sì?
– Michelìn, mi, com’è che me ciami?
Non volevo credere che la tara galoppasse a quella velocità, per cui tacqui.
– El mè nomm sacrabissa, come diaul me ciami, mi?
– Felice.
– Felis… mi?
– Felice, sì.
– Varda un po’, credevi e ciamamm Danilo…

Per il resto del libro Michelino cercherà di aiutare Felice, ricorrendo a soluzioni ingegnose per impedirgli di perdere del tutto la memoria, con alterne fortune. Durante questo lavoro di ristrutturazione mnestica, dalle profondità mentali del vecchio custode, ormai scarsamente protette dai meccanismi inconsci di rimozione, risalgono in superficie ricordi perduti, frammenti di antiche tragedie, di stragi e inconfessabili segreti, di truffe e inganni abominevoli, nonché un’accorta cernita di abissi esistenziali di vago sapore freudiano: padre incerto, madre certa e un po’ puttana, sesso travagliato. Il recupero inatteso di queste schegge di terrore è sottolineato dalla scoperta di anfratti, fosse, stanze segrete, scheletri umani e non, antichi samovar e immaginette di Kennedy e Kruscev, ma soprattutto dal costante incremento demografico lumachesco. Il finale, come tutti sanno, non si dice.

Il tutto tornito con l’attrezzo linguistico che i lettori di Mari conoscono bene: una voce unica e inconfondibile, somma di un lessico ricercato e di una sintassi inconsueta e sorvegliatissima. Un libro ricco di pregi, insomma. E allora cos’è che non va? Perché qualcosa che non va c’è, e si sente.

C’è qualcosa di forzoso, di artificioso, di innaturale, come se Mari, andando a rivisitare le sue ossessioni infantili e adolescenziali, le abbia trovate un po’ sfuggenti e nebulose. Manca la lucidità di visione dei racconti di Tu, sanguinosa infanzia. Si percepisce a tratti un’enfasi esagerata nella scrittura, quasi un falsetto, come se lo scrittore avesse perduto il contatto con le emozioni e le eccitazioni dell’adolescenza, e tentasse di rievocarle un po’ alla cieca, non senza un filo di disappunto, come se si rendesse conto di non riuscire a riviverle come un tempo.

C’è anche un eccesso di temi e di spunti narrativi, quella voglia smodata di dire tutto che si ritrova facilmente nel lavoro di un esordiente, ma che non ci si aspetta in un autore navigato. In appena centocinquanta pagine Mari apre una quantità di discorsi; amnesia; racconto avventuroso; racconto fantastico; il classico “doppio” stevensoniano, memoria e mnemotecnica; nazismo e resitenza; psicologia; storia della televisione; linguistica; bildung adolescenziale; lumache; esoterismo; affettività; erotismo. La distanza breve del racconto non riesce a contenere questa esuberanza tematica, tanto che molti di questi discorsi non oltrepassano la soglia dell’accenno.

È come se Mari avesse cercato di applicare alle sue ossessioni “classiche” la forma enciclopedica che aveva sperimentato in Tutto il ferro della torre Eiffel, ma senza calcolare bene le distanze. Insomma, a conti fatti Verderame non convince del tutto: da un fuoriclasse come Michele Mari è lecito aspettarsi qualcosa di più.

10 Responses to “Michele Mari – Verderame”

  1. melpunk says:

    devo leggere tutto il ferro, ne dicono tutti bene! ma pure verderame…

  2. letturalenta says:

    non esagerare, Mel, che due Mari di seguito possono stroncare anche le tempre migliori :-)

  3. Oyrad says:

    Sono molto combattuto su questo libro: più volte l’ ho preso per comprarlo, e ogni volta l’ ho poi rimesso dov’ era. Credo che di Mari comincerò a leggere qualche altra cosa… Di suo per ora ho letto solo l’ introduzione al libro di Morgenthaler su Adolf Wolfli – sul quale prima o poi tornerò in uno dei post “artistici” del mio blog.

  4. letturalenta says:

    Oyrad, date le tue inclinazioni *devi* leggere Tutto il ferro della torre Eiffel, dove troverai tutta, ma proprio tutta la cultura del Novecento in azione.

  5. Oyrad says:

    Letturalenta, seguirò volentieri il tuo consiglio: vada dunque per “Tutto il ferro della torre Eiffel”. Grazie e a presto, Oy ;-)

  6. melpunk says:

    beh allora opto di per certo per eiffel!
    è una vita che devo comprarlo!
    poi a me mari paice, è uno dei pochi italiani che leggo volentieri

  7. marina says:

    Io lo vado cercando e non lo trovo e qualcuno lo prende più volte in mano e poi lo posa?!
    Dove lo hai posato??
    ciaomarina

  8. Oyrad says:

    @ Marina, nelle librerie in centro Milano dove vado spesso, anche solo per bighellonare, “Verderame” è presente in quantità… invece dell’ “Eiffel” non c’è manco l’ ombra di una copia! :-(

  9. melpunk says:

    ho appena sentito alla radio michele mari parlare di wolfli, il paziente del dottor morghenthaler che per 35 anni non fece altro che riempire ossessivamente migliaia di fogli di disegni e scrittura. edito da alet

  10. Chiara says:

    Ho appena divorato il libro: condivido in pieno la tua lettura (che quoto in tweet), soprattutto quando parli di ‘eccesso di temi e di spunti narrativi’ e della ‘voce unica e inconfondibile’ di Mari.
    Mi è piaciuto lo scavo nella memoria interiore (ed esteriore) di un romanzo di formazione ‘gotico’: simboli potenti, onirici.
    Leggerò sicuramente anche Tutto il ferro della Tour Eiffel.

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