La telecamera

a c.c., g.m., l.w.

Posso sfruttare, in quanto telecamera, un punto d’osservazione non privo di vantaggi: quello di poter vedere senza essere vista, per esempio. O per meglio dire: il vantaggio di essere vista da tutti senza che qualcuno immagini che io possa a mia volta vedere. Meglio ancora – giacché una telecamera vede, e tutti lo sanno – il vantaggio di essere ritenuta inabile a eternare in parole ciò che vedo.

La sala si è popolata di individui di vario sesso ed estrazione sociale, ma tutti accomunati da una postura distratta e pensosa, fatta di movimenti lenti e sguardi diretti a punti imprecisabili del soffitto. Sul palco c’è un signore con pochi capelli bianchi sulla nuca, giacca aperta su una camicia a righe, senza cravatta. Un largo sorriso perenne, quasi benedicente, parte dalle sue labbra carnose per cadere benigno su ognuno degli astanti: egli è il critico. Alla sua sinistra (la destra per me che osservo) siede lo scrittore dai folti capelli, neri come la montatura quadrata dei suoi occhiali, felpa verde su pantaloni chiari di fustagno.

Il critico inquadra criticamente l’opera dello scrittore nel più vasto panorama della letteratura italiana dell’ultimo decennio del secolo scorso – per nulla imbarazzato dal triplice complemento di specificazione – usando spesso l’aggettivo straordinario e creando un sapiente raccordo fra lo stile dello scrittore in esame e il neorealismo degli anni Cinquanta. Lo scrittore è silenzioso e immobile sulla sedia, gli occhi altrettanto immobili puntati sul critico. Uno sguardo che allarmerebbe chiunque lo ricevesse direttamente, ma il critico parla rivolto al pubblico.

Alla mia sinistra siedono: un grasso signore brizzolato in viaggio verso la cinquantina; uno più magro e forse coetaneo del primo, ma assai meglio in arnese; un giovane di bell’aspetto che scrive distrattamente qualche appunto su un bloc notes in formato A4. Tecnicamente parlando, questi individui si trovano al di fuori del mio campo di ripresa, e infatti non compariranno nella registrazione della serata, ma questa apparente anomalia – che io parli cioè di soggetti che non sto inquadrando – non sorprenderà il lettore attento e scrupoloso. Come ho già dato modo di supporre poco fa, infatti, gli uomini non conoscono tutte la capacità delle telecamere.

Parla, parla. Ma lo scrittore, come dicevamo, muoveva i suoi primi passi negli anni Novanta del secolo scorso e quindi è ovvio che al suo caso non possiamo applicare l’etichetta di neorealismo. Parleremo piuttosto di neo‑neorealismo. Lo scrittore solleva gli occhiali sulla testa e distoglie lo sguardo dal critico, rivolgendolo al pubblico. La stanza è molto calda. Lo intuisco dai movimenti del signore grasso e brizzolato che esce fingendo di guardare il cellulare. Quando rientra – giusto il tempo di una sigaretta – tiene in mano il maglione rosso che indossava prima. Lo scrittore si libera della felpa. Gli resta addosso una t‑shirt nera a maniche corte.

Sarà il caldo, sarà che il critico parla ininterrottamente da trenta minuti, fatto sta che il mio obbiettivo coglie nelle terga degli astanti moti mal dissimulati di impazienza: mani che tormentano capelli, frequenti cambi di posizione sulla sedia, biro che roteano nervosamente fra le dita. In un punto imprecisato della prolusione‑fiume, dalla bocca del critico esce la parola neo‑neo‑neorealismo. Il signore grasso e brizzolato, il magro aitante e il giovane di bell’aspetto si scambiano sguardi attoniti e divertiti.

Il critico cede la parola allo scrittore. Lo scrittore legge il primo capitolo di una sua opera futura. Il pubblico ascolta in silenzio, di nuovo immobile sulle sedie. Se il critico decidesse di giudicare il testo basandosi sullo sguardo del signore grasso e brizzolato che ascolta lo scrittore leggere, egli (il critico) userebbe categorie più prossime al sogno che alla realtà.

La serata si conclude con un applauso. Il critico, lo scrittore, il signore grasso e il magro e il giovane di bell’aspetto lasciano la sala assieme a tutti gli altri. Le luci si spengono, la sala lentamente si raffredda. Temo che il regista si sia dimenticato di spegnermi, e così continuo a inquadrare le tenebre, il vuoto, il nulla, realizzando a insaputa del critico l’opera più neo‑neo‑neo‑neorealista della storia dell’arte.

5 Responses to “La telecamera”

  1. macondo says:

    Il ritorno al (neo-neo)reale avviene dunque per via onirica? Era meglio se l’organizzazione avesse invitato un giovin scrittore della New Epic. Avrebbe fatto più audience.

  2. letturalenta says:

    Propongo la generalizzazione del realismo letterario in (neo*n)realismo, con n intero che varia da 0 a infinito. Con n=0 avremo una letteratura ultraterrena (superna o infera, secondo lo stile dell’autore). Con n=infinito la letteratura coinciderà esattamente con la realtà.

  3. Skeight says:

    D’ora in poi nessuno potrà più guardare una telecamera con gli occhi di prima…

  4. macondo says:

    Una bella scommessa far coincidere “esattamente” la letteratura con la realtà. Ma basterebbero delle formule matematiche?

  5. letturalenta says:

    Borgesianamente parlando, tutto è possibile: una mappa dell’impero grande quanto l’impero; una biblioteca che contenga tutte le combinazioni possibili dei segni alfabetici. E, perché no, una letteratura talmente realistica da coincidere con la realtà.

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