Lo scrittore realista

Tratto da randomknowledge.wordpress.comC’era una volta uno scrittore realista, ma così realista da essersi dato come meta ultima della sua ricerca estetica la corrispondenza puntuale fra le cose del mondo e le parole da lui medesimo utilizzate per scriverle. Soleva dire, quello scrittore realista: «io scriverò il mondo, e lo scriverò con una precisione tale che il lettore, leggendo la mia opera, non noterà differenza alcuna fra l’esperienza che egli avrà avuto del mondo con i suoi propri sensi e quella che ne farà mediante le mie parole. La rosa che scriverò, o l’acqua, o la passione amorosa, saranno rosa e acqua e passione in modo così perfetto che chi le leggerà sulla pagina sarà rallegrato dal profumo della rosa, dissetato dall’acqua, preda dell’amore».

Fissati in tal modo i cardini della sua poetica, lo scrittore realista si accinse a metterli in pratica. Tolse un foglio da un quinterno intonso, aguzzò con cura il calamo, colmò la boccetta di inchiostro nero e uscì di buon’ora alla ricerca di qualcosa da scrivere secondo i suoi propositi. Cadeva in quel giorno l’equinozio di primavera e la natura metteva in scena l’ennesima replica dell’incipiente suo risveglio, con tanto di prati in fiore, verzure ondeggianti, nidi di rondine e tutto quanto. Lo scrittore realista sedette nei pressi di un arbusto e cominciò a scriverlo senza tralasciare alcun dettaglio.

Se un viandante fosse giunto in quel luogo — uno di quei viandanti che si incontrano talvolta nelle fiabe o negli apologhi, quelli col bastone ricurvo, il cappotto di stoffa grezza, il cappellaccio in testa e il fagotto sulle spalle, per capirsi — e se costui si fosse fermato presso lo scrittore, l’avesse salutato e gli avesse domandato che cosa stava facendo lì, all’aperto, in una giornata di marzo soleggiata, sì, ma piuttosto fredda, non è irragionevole ipotizzare che lo scrittore avrebbe confidato al vagabondo il suo progetto di scrittura e gli avrebbe consegnato con una certa qual trepidazione quanto aveva scritto fino a quel momento, chiedendogli la cortesia di un’attenta lettura e di un giudizio franco, e se ciò non accadde fu perché questa del lettore viandante era solo una fantasticheria dello scrittore, una vaghezza che la sua psiche coltivava fra un tratto di penna e l’altro.

Erano le tre del pomeriggio quando lo scrittore realista terminò la sua fatica e, dopo aver rimirato per qualche istante la pagina quasi del tutto annerita dalla sua calligrafia minuta, cominciò a leggere quanto aveva scritto. E occorre dire qui, a onor del vero, che il testo restituiva un’immagine così precisa dell’arbusto, che quasi pareva, leggendo, di toccarne i ramoscelli ingentiliti dai primi germogli, di contare le nervature di ogni foglia, di udire il flusso della linfa. Chi non avesse mai veduto l’arbusto dal vero non l’avrebbe più dimenticato dopo averlo letto. Da principio lo scrittore fu molto soddisfatto dell’opera sua, ma poi, quando spostò lo sguardo dal foglio all’arbusto, quasi a cercare un’ultima conferma della perfetta corrispondenza fra le parole e la cosa, comparve sul suo viso un’ombra di disappunto, quasi di sconcerto: un grumo di foglioline tenere e verdissime stava là dove lui aveva scritto una gemma turgida e violacea; l’ombra che l’arbusto proiettava sul terreno aveva un’inclinazione completamente diversa; sulla cima, poi, un fiore insolente occupava lo spazio in cui la scrittura aveva eternato un bocciolo.

Questi e cento altri errori si rivelarono in un sol colpo agli occhi dello sventurato e tanto lo rattristarono che, rientrato a casa, non uscì per un mese intero. Meditò a lungo sull’infausto episodio e alla fine si convinse che la causa del fallimento doveva essere il soggetto prescelto. Deliberò dunque di rimettersi alla prova su qualcosa di più stabile, ma per quanto si sforzasse non riusciva a trovare oggetti, pensieri, idee, astrazioni, concetti o sentimenti tali da subire il giogo di una scrittura definitiva: dedicò un poema alla donna amata, ma prima di finirlo si invaghì di un tenore bavarese e fuggì con lui in Garfagnana; costruì un complesso sistema di teorie finanziarie che crollò assieme alle borse di tutto il mondo; narrò allora la miseria del lavoro precario, che però fu abolito per legge; progettò un romanzo in otto volumi sulla tropicalizzazione del clima, quando gli scienziati annunciarono l’inizio di una nuova era glaciale.

Indispettito dallo scarso o nullo spirito di collaborazione che la realtà manifestava verso la sua teoria letteraria, deliberò di affrontare il problema dal capo opposto: se questo mondo ingrato rifiutava di sottomettersi all’autorità della scrittura, ebbene egli — lo scrittore realista — non avrebbe più tentato di adeguare la penna alla realtà, ma avrebbe piuttosto creato una realtà docile al suo progetto, una realtà stabile, pervasa di quiete, terrorizzata dal mutamento, immune alle serenate fatue e perniciose del divenire. Acquistò un’antica torre di guardia e vi si rinchiuse. Per impedire l’alternarsi di notte e giorno murò porte e finestre, e per non sentirsi continuamente attratto verso il centro del pianeta costruì un ingegnoso impianto antigravitazionale. Uno spesso strato isolante rivestiva pareti, pavimento e soffitto, così che non un suono potesse violare il silenzio della stanza.

Infine, infastidito dal gracchiare della penna e dai fruscii della carta, lo scrittore realista smise di scrivere, e così nessun vivente potè mai leggere le mille e mille pagine sulla morte che egli vergò nella sua mente, così perfette e sublimi che la nera signora vi si rispecchiò e, commossa, esitò un poco prima di recidere l’ultimo tenue legame fra la realtà e lo scrittore realista.

11 Responses to “Lo scrittore realista”

  1. Skeight says:

    Chissà perché, mi aspettavo che la conclusione inevitabile di tutto questo realismo sarebbe stata la nera signora ;)
    Però bisogna ammettere che di convinzioni teoriche così solide non se ne vedono più, oggidì…

  2. kalle says:

    bello il tuo apologo – secondo me dovresti scriverne altri, per altri generi di scrittori

  3. letturalenta says:

    Be’, in effetti la nera signora è quanto di più reale sia mai esistito :-)

    Averci il tempo, kalle… per tacere del talento!

  4. Complimenti, bel racconto.

  5. Gianluca minotti says:

    Iniziando a leggere questo apologo mi è tornata in mente la riflessione di Derrida sul realismo, sul fatto che l’imitazione perfetta non è più un’imitazione e che di conseguenza, a proposito di realismo portato all’eccesso, per paradosso la massima aspirazione dell’arte mimetica coinciderebbe con la sua stessa morte.
    Mi pare che il cruccio del protagonista di questo racconto sia dovuto a questo: il rendersi conto che la Realtà del mondo (ma quale “Realtà”), per quanto si tenti di ricopiarla, non coincide con la Realtà letteraria. Certo, questo racconto è un paradosso, ma mi pare una buona parabola contro il realismo in Letteratura. Qui però pare che la Realtà del Mondo sia sempre avanti rispetto a quella letteraria quando invece, e questo il protagonista sembra non capirlo, è la realtà immagginata in letteratura ad avere in sé la possibilità, pur fissandosi in qualcosa che prima non esisteva, di essere ugualmente mutevole e in divenire…

  6. letturalenta says:

    Be’, Gianluca, non possiamo pretendere un ragionamento così complesso da uno scrittore realista del tutto immaginario!

    Più che contro il realismo in letteratura, l’apologhetto potrebbe essere contro quella gran bastarda della realtà, sempre così ostile ai sogni di immortalità degli scrittori.

  7. Tutto ciò che facciamo è rumore e vacuità, non è così? E manifestazione della nostra impotenza. Annichiliti, alfine, solo alla morte, che ci ha accompagnato per tutta la vita, compagna fedele e inseparabile, possiamo affidarci.
    Ancora tifo per te, Luca, e per Damiano (Zerneri, un esempio della sua scrittura qui:
    http://strindberg.livejournal.com/41972.html#cutid1 )

    Questa invece è la mia visione della nera signora:
    http://www.bartolomeodimonaco.it/online/?p=825

  8. molto bello luca, bravo.

  9. letturalenta says:

    Grazie Sergio. E grazie per il tifo, Bart, anche se non sono in gara.

  10. […] (il lettore volenteroso e incline a perdere tempo può trovare temi simili in un vecchio racconto vergato da me qui) […]

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