Archive for October, 2010

Il misterioso caso di Antonio Stenelli, autore apparentemente estinto

Sunday, October 31st, 2010

pensiero stenellianoNel 1982, in quel libro squisito e purtroppo mai ristampato che è il Discorso dell’ombra e dello stemma, Giorgio Manganelli ricordava che dell’opera poetica di Cornelio Gallo è pervenuto a noi moderni un solo verso — Uno tellures dividit amne duas — e ci è pervenuto solo perché fu casualmente citato da un altro autore.

Cornelio Gallo (ca.70-26 a.c.) scrisse almeno quattro libri di elegie e alcune orazioni, come testimoniano alcuni suoi contemporanei o posteri illustri fra cui Virgilio e Quintiliano. Era un autore piuttosto famoso ai suoi tempi, non l’ultimo degli sconosciuti, e occupò anche dignitose cariche pubbliche prima di cadere in disgrazia presso Ottaviano e subire la confisca dei beni e la condanna all’esilio. Esule e povero in canna, lo sventurato si suicidò.

Manganelli forse ignorava, o forse non ritenne rilevante ai fini del Discorso, che nel 1979 altri nove versi di Cornelio Gallo uscirono dalla notte dei tempi su un papiro rinvenuto a Qasr Ibrim, antica città nubiana. Anche ai fini di questo discorso, in realtà, cambia poco se i versi superstiti sono uno o dieci, ma il loro ritrovamento a tappe rende l’idea di un disvelamento progressivo dell’opera perduta, idea utile per agganciare il misterioso caso di Antonio Stenelli, autore apparentemente estinto in soli quattro anni.

Ad Antonio Stenelli si addicono il condizionale e la diceria.

Nel 2006 (ma talvolta nel 2004, come da immagine in testa al post) avrebbe pubblicato un libro intitolato Pensieri inediti e sorprendenti con l’editore EuroZona, e inediti e sorprendenti sono anche i risultati che il callido lettore ottiene quando prova a cercare il bel tomo nelle librerie elettroniche: non solo il libro non si trova, ma pare che a) nessuna casa editrice abbia in catalogo Stenelli veruno e b) la casa editrice EuroZona non abbia mai lasciato tracce in rete, cosa che ai nostri giorni equivale a dire che non esiste.

In compenso si dice in giro che lo scrittore Gianfranco Mammi possiede una copia del libro stampata presso la tipografia Sograf Srl di via V. Alvari 36, 00155 Roma la quale tipografia, però, interrogata non rispose, almeno per ora.

A tutt’oggi, insomma, l’unico ponte tra il fantomatico libro e il vasto pubblico dei suoi aspiranti lettori è per l’appunto lo scrittore Gianfranco Mammi che di tanto in tanto cita lo Stenelli sul suo tumblr. Il tumblr del Mammi è per Stenelli ciò che il papiro di Qasr Ibrim fu per Cornelio Gallo. Con questo, sia chiaro, non intendo augurare a Mammi un oblio millenario, né allo Stenelli di fare la fine del Gallo.

Ai link sopra linkati troverete ampi stralci dei Pensieri inediti e sorprendenti. Qui mi limito a citarne uno che per via del mio cognome ha per me un profondo significato sentimentale:

Io confesso di esser molto razzista nei confronti dei tassinari. (pag. 44)

Breve trattato sul formato dei libri elettronici e sul rapporto fra i pali e le case editrici italiane

Tuesday, October 26th, 2010

Care case editrici
Volevo dirvi che oggi, siccome m’è capitato di dover aspettare molto in un posto dove non m’aspettavo di dover aspettare, ho finito un ebook che ho iniziato ieri sera (trattavasi, per la cronaca, de La fuga narrativa di Tom Stafford) e, siccome io quando comincio a leggere poi divoro un libro dopo l’altro, m’è venuto da andare a comprare degli altri ebook. Niente. Non c’è verso. Io ci spero sempre ma non c’è verso. La maggior parte dei libri venduti in italia sono in quel formato osceno (Adobe Digital Editions, che possa morire dimenticato dai suoi chi l’ha inventato, e che possa venire una lobotomia spontanea a chi lo adotta (ma forse gli è già venuta, visti i risultati)) che non permette di acquistare il libro e leggerlo subito, ma tocca scaricarlo da un computer e poi metterlo sul lettore, se hai la fortuna di avere un lettore compatibile (non li ha quasi nessuno). Quindi, care case editrici che adottate quel formato lì (quasi tutte le più grosse), be’, vi direi di prendere un palo e farci delle cose turpi, ma mi sa che lo state già facendo senza che io ve lo consigli. Brave. Avete capito tutto.

[Alessandro Bonino su Phonkmeister]

L’invettiva è un genere letterario che non sarà mai apprezzato abbastanza.

Un inedito di Giorgio Manganelli

Saturday, October 23rd, 2010

Giorgio e Lietta ManganelliPochi giorni fa ho ripreso qui una lettera apparsa sul blog La poesia e lo spirito in cui Lietta Manganelli chiedeva un contributo economico per il Centro Studi Giorgio Manganelli. Mi permetto di insistere.

Questo post contiene un regalo di Lietta ai lettori. Un bel regalo. Si tratta di un inedito di Giorgio Manganelli reperito nell’Archivio Nazionale di Roma, Fondo del Movimento di Collaborazione Civica, busta 9.41, con la preziosa collaborazione di Emanuele Dattilo e della dottoressa Carla Nardi. Manganelli collaborò al movimento di collaborazione civica con contributi finora sconosciuti.

Questo è solo uno dei ritrovamenti del Centro Studi Giorgio Manganelli. Questo è solo un esempio di quanto sia preziosa la sua opera di ricerca, raccolta e conservazione di materiali che, in mancanza di contributi economici, rischia di dover essere abbandonata.

Lietta Manganelli è stata generosa con noi. Facciamo il possibile per essere generosi con lei. Chiedo ai miei undici lettori di diffondere la sua richiesta di aiuto con ogni mezzo. In rete, certo, ma anche fuori. E chi può, per favore, metta mano al borsellino!

Chi vuole contribuire può contattare Lietta Manganelli all’indirizzo manganelli@delam.it.

***

IL LIBRO E LA LETTURA
un inedito di Giorgio Manganelli

In Piazza del Popolo, a Roma, una lapide affissa alle mura verso piazzale Flaminio rammenta il sacrificio di due carbonari, giustiziati nell’800; la lapide non si rivolge a nessuno in particolare, ma tutti possono leggerla; coloro che la leggono provano emozioni, e forse la ricorderanno a lungo, o forse quelle due morti “vere” resteranno nella memoria solo come poche, anonime parole incise sul marmo. Quella lapide ha qualcosa che fa pensare ad una pagina; la pagina di un libro; forse è un libro minuscolo e insieme vasto; le sue parole, ingenue e grandi, appartengono a tutti coloro che vogliono leggerle. Noi viviamo in un mondo di messaggi scritti: nella stessa piazza, certamente, ci sono manifesti che annunciano eventi prossimi, e anche manifesti che si riferiscono ad eventi ormai dimenticati. Sono parole destinate a scomparire insieme a ciò di cui parlano. Le ascoltiamo rapidamente, se ci interessa ne prendiamo nota, e procediamo. Altre parole ammoniscono automobilisti e pedoni. Sono parole utili, ed è bene porvi attenzione. Ma quella lapide è diversa. Non annuncia, non dà istruzioni. Racconta, celebra. Soprattutto è dedicata a tutti coloro che, generazione dopo generazione, passeranno per quella piazza. Cambieranno i mezzi di trasporto, cambierà la lingua delle persone che scorgono la lapide. Roma è piena di scritte vecchie di molti secoli, che ricordano che per queste strade, su questo selciato un tempo si parlava una lingua diversa, simile e lontana dalla nostra di oggi. Supponiamo che quella lapide sia una pagina, e che si giustapponga ad altre innumerevoli pagine; tutte dedicate a tutti e a nessuno in particolare: ecco un libro. La legge tutela il segreto epistolare, perché una lettera è scritta da un’unica persona ad un’altra, ugualmente unica; reca un messaggio comprensibile solo nell’ambito segreto di una vita singola. Può decidere tutto per una o due persone, ma non ha nulla da dire alle altre. Il libro è una lettura che non ha busta, né indirizzo.

Riguarda la vita di tutti noi, di ciascuno di noi. È nostra, ma anche di persone che non sono più, non sono ancora. Nulla di un libro ci fa consapevoli di appartenere ad una comune umanità, illuminata e tormentata dalle medesime speranze e angosce. Il libro non si sa dove va, chi incontrerà, come sarà accolto; esso viaggia in mezzo a noi come un meraviglioso enigma. Non tutti i libri hanno la stessa vitalità. Molti, la grande maggioranza, si estinguono; ma quei pochi che sopravvivono sembrano eterni. Essi sono totalmente umani, e che siano vecchi di una sola, o di trenta generazioni, pare non avere alcuna importanza. Leggiamo Omero. Leggiamo Leopardi.

Tra mille anni, se vi saranno uomini, leggeranno Omero e Leopardi.

Dunque ci sono “grandi” libri, e ci sono “piccoli” libri. Ma non è facile definirli, né i grandi, né i piccoli. Vi è qualcosa di misterioso attorno ad un libro “grande”, e di solito il mistero avvolge anche il suo autore. Chissà se è esistito Omero. Di Shakespeare conosciamo data di nascita e morte e il nome della moglie. Di un “grande” libro possiamo dire che esso viene letto una generazione dopo l’altra. I Fratelli Karamazov di Dostoevskij ha compiuto cent’anni, e grandi libri sono stati scritti e si scriveranno sull’autore e su quel grande libro. Un grande libro racconta contemporaneamente molte storie; ed ogni lettore vi trova qualche cosa di diverso. Dunque, un grande libro è inesauribile, come inesauribili sono gli esseri umani, misteriosi a se stessi. Vi sono libri che restano piccoli per molto tempo, poi, improvvisamente, diventano grandi. Pinocchio fu un libro per bambini, e solo da pochi anni ci si è accorti che è grande. I romanzi storici del nostro Ottocento ebbero migliaia di lettori, fecero piangere e disperare, ed ora non si leggono più neppure a scuola, e di regola li leggono solo professori pagati per farlo. Non avere accesso al libro è dunque non avere accesso a noi stessi, alle zone più oscure, magiche, enigmatiche, a ciò che in noi sogna, ama, teme, crede e dispera. Oggetto umile e potente, il libro entra nella nostra vita con una forza terribile: e non è un caso che quelle parole siano state così spesso, siano tuttora perseguitate, trattate con diffidenza, con astio, con ira, giacché esse parlano a tutto ciò che è umano, o debbono tacere. Ma la totalità dell’uomo, sempre proposta e sempre elusa, è un’oscura minaccia per chiunque abbia una verità in testa, e la forza di imporla.

Ci fu un tempo in cui la parola scritta era intimidatoria; pochi leggevano, e leggevano poche cose, e ne scrivevano anche di meno. Poi la parola scritta venne consegnata a tutti: divenne un privilegio, e insieme un mezzo per dominare. Parole liberatrici si mescolavano a parole che volevano persuadere all’ubbidienza. Allora qualcuno si rammentò che il bandito analfabeta imprendibile in mezzo alle montagne, era libero, assai più libero dell’uomo d’ordine che quotidianamente imparava una piccola e disonesta verità da un giornale qualsiasi. Ma il tempo passa, e le cose cambiano. Oggi, nuovamente, l’uomo orecchio, l’uomo palpebra, l’uomo che si consegna al quotidiano ipnotismo — manifesti, televisione, discorsi di potenti, immagini, tutto ciò che, apertamente o occultamente, è “propaganda” — è l’analfabeta che sa leggere, colui che ignora i libri, e soprattutto quello che i libri possono toccare dentro di lui.

In un mondo di pubblicità e di imbonimento, di menzogne non di rado confortate da cultura e da ingegnosa malafede, la possibilità di non essere catturati irreparabilmente, di non essere strumenti di incomprensibili, o fittizie battaglie, sta nella nostra esperienza di noi stessi, della vastità e della drammaticità della sorte dell’uomo.

Da questo punto di vista, non vi sono libri innocui, e non v’è cultura “che non fa male a nessuno” e rende migliori. Un grande libro è terribile, perché la sua storia dentro di noi non si spegnerà mai; e sarà la storia della nostra libertà.

Una biblioteca è molte, strane, inquietanti cose; è un circo, una balera, una cerimonia, un incantesimo, una magheria, un viaggio per la terra, un viaggio al centro della terra, un viaggio per i cieli; è silenzio, ed è una moltitudine di voci; è sussurro ed è urlo; è favola, è chiacchiera, è discorso delle cose ultime, è memoria, è riso, è profezia; soprattutto è un infinito labirinto, ed un enigma che non vogliamo sciogliere, perché la sua misteriosa grandezza dà un oscuro senso alla nostra vita — quel senso che la pubblicità va cercando di cancellare.

Gianni Rodari ha novant’anni

Saturday, October 23rd, 2010

Il «metodo Rodari», cioè la capacità di smontare e rimontare meccanismi non solo verbali per capire come sono fatti, è più necessario che mai, in tempi di omologazione, pressappochismo, appiattimento sulle immagini. Certo, comporta un po’ di impegno, perfino di fatica, parola oggi impronunciabile.

Ernesto Ferrero sulla Stampa racconta Gianni Rodari, che era nato il 23 ottobre del 1920, e suggerisce di ricordarsi di lui, di questi tempi. (via Pensieri spettinati, via corax, via Il Post)

Esperti

Monday, October 18th, 2010

Quando succede un casino, alla tv di solito intervistano gli esperti di quel tipo di casino lì. Per esempio l’altro giorno avevano appena preso un assassino, e allora al telegiornale hanno intervistato un esperto di psicologia degli omicidi che ha detto «Eh, ma io l’avevo capito subito che quello lì non la contava giusta. Guarda qui, in questo filmato: lo sguardo obliquo, il sorrisetto sardonico, il linguaggio del corpo».

Naturalmente tutte queste cose gli sono venute in mente dopo, all’esperto, dopo che l’assassino ha confessato ed è stato messo al fresco.

Qualche giorno dopo gli investigatori hanno arrestato anche la figlia dell’assassino, accusata di complicità nell’omicidio. Allora al telegiornale, visto che non c’erano esperti a portata di voce, hanno intervistato una casalinga del paese teatro dell’efferato delitto. La casalinga ha detto: «Eh, ma io l’avevo capito subito che quella lì non la contava giusta, con quello sguardo obliquo, quel sorrisetto sardonico, il linguaggio del corpo».

Mo sorbole, ho pensato, con degli esperti così in circolazione possiamo stare tranquilli.

Comunicazione

Saturday, October 16th, 2010

bibliotecaE poi c’è questa faccenda della comunicazione. Un testo scritto, si sente dire spesso, è un messaggio, quindi anche un romanzo, una poesia o un racconto sono un messaggio con tanto di mittente (l’autore), canale di trasmissione (la scrittura) e destinatario (il lettore), e magari anche uno scopo ben determinato come, che so, trasmettere una visione del mondo, erudire il lettore sul senso ultimo della vita, mostrargli il lato oscuro della forza, cose così.

Ora, se osserviamo attentamente una persona che legge poesia o prosa narrativa, non tarderemo ad accorgerci che è letteralmente fuori di sé: non fa caso ai rumori circostanti, il suo volto assume espressioni del tutto irrelate a ciò che le accade attorno, e la vediamo trasalire (cioè risalire all’improvviso in sé stessa) se qualcuno le tocca una spalla. La persona che legge non sembra davvero il soggetto più adatto a ricevere e decifrare un messaggio.

Ma anche il mittente non è messo molto meglio. Parafrasando Rimbaud (e forse citando Blanchot, ma non mi ricordo, e in fondo chissenefrega), dico che chi scrive è un altro, frase che può essere interpretata in almeno due modi. Il primo, diciamo sociale, è che chi si accinge a mettere per iscritto una storia o un proprio profondissimo pensiero, in realtà ha ricevuto da altri — le comunità di cui fa parte — tanto il contenuto della sua opera quanto la lingua in cui la scriverà: chi scrive trascrive. La seconda interpretazione, diciamo psicologica, è che l’io scrivente è altro dall’io biografico: la persona che scrive, quella in carne e ossa, non può passare tal quale sulla pagina, ma è costretta a utilizzare la mediazione del linguaggio, con tutti i suoi tic, pregiudizi, posture stilistiche, doppi sensi e altre ambiguità. Può un personaggio così gravemente alienato trasmettere un messaggio preciso?

Sia chi scrive sia chi legge, insomma, non è nelle condizioni migliori per comunicare, ma anche il mezzo prescelto per l’ipotetica trasmissione del messaggio, la lingua scritta, non è un gran mostro di precisione. Nel suo libro Una storia della lettura Alberto Manguel cita il più antico esempio di scrittura: due sassi rinvenuti a Tell Brak, in Siria, di forma vagamente ellittica, che recano impressa in cima una tacca che rappresenta il numero dieci e, al centro, il disegno stilizzato di un animale, forse una pecora.

Circa seimila anni fa, un allevatore siriaco andò alla locale fiera del bestiame portando con sé le sue tre pecore migliori e una trentina di sassi simili a quelli citati da Manguel. «Son mica scemo» pensò «a portarmi dietro trecento pecore, col rischio che qualcuna scappi o che i banditi me le rubino». Un compratore venne da lui e disse «belle queste pecore, ne prendo venti», e lui rispose «eccoti due sassi da dieci. Portali alla casa di Gino il Caldeo, che sarei io, terzo villaggio a sinistra sulla via di Damasco, e il guardiano ti darà venti pecore. Fanno tre scicli e ottanta».

La scrittura nacque quindi per redigere contratti di vendita, e qui vale la pena sottolineare che di tutti i discorsi che si scambiarono Gino il Caldeo e il compratore per chiudere la trattativa — condita da diversi insulti levantini qui irripetibili — alla scrittura fu affidata soltanto la frase «dieci pecore» incisa sui sassi. Rara accortezza. Sapevano infatti entrambi, Gino e l’altro, che la scrittura è uno strumento inesatto e ambiguo, bisognoso di interpretazione e dunque fonte di inesauribili contese, utile per evitare di portarsi appresso trecento pecore, ma pericolosissimo per trasmettere messaggi che non si accontentino di due parole al massimo, tipo “dieci pecore”, “ti amo”, “sto morendo” o “vaffanculo”.

Assai meno prudente fu un romanziere fenicio che pochi millenni più tardi utilizzò la scrittura per rappresentare artisticamente la sua infanzia infelice. Il romanzo, purtroppo perduto, mostrava attraverso una fine indagine psicologica come le privazioni inflitte da una madre viziosa al protagonista avessero minato in modo irrimediabile la sua autostima, trasformandolo in un serial killer che solo un sagace ispettore di polizia riuscì a smascherare fingendosi una meretrice ittita. Il governatore di Sidone, acuto lettore, interpretò il romanzo come piena e spontanea confessione di atroci delitti, e fece senz’altro decapitare il romanziere, restando provvidenzialmente sordo ai di lui disperati appelli alla sospensione dell’incredulità e alla separazione fra autore e io narrante.

L’episodio del romanziere fenicio (rigorosamente autentico, viste le numerose gazzette coeve che ne danno notizia) dimostra, se mai ce ne fosse bisogno, che trasmettere un messaggio per via di storie, immaginazioni, rappresentazioni sceniche, racconti, romanzi e altre finzioni è una pia illusione. La scrittura non comunica. La scrittura confonde, svia, nasconde, inganna, copre, falsifica. È nata per stipulare contratti, c’è poco da fare, e alla base di ogni contratto degno di questo nome c’è l’implicita intenzione di turlupinare la controparte. Gino il Caldeo portò al mercato le sue pecore migliori e incise sui sassi la frase «dieci pecore» con la precisa intenzione di far credere al compratore che egli avrebbe portato a case dieci pecore di pari qualità. Il compratore — che in questa storia, lo diciamo per i lettori più distratti, rappresenta il lettore — ebbe in cambio di quel paio di sassi venti pecore macilente, sgalfie, prossime al suicidio, spompate, talune perfino indegne del nome di pecora.

La morale della favola è così ovvia che quasi ci si vergogna a enunciarla: non fidarti mai, lettore, dei romanzieri che infarciscono i loro romanzi di massime morali, visioni del mondo o vaghi appelli alla pietas. Romanzieri siffatti credono davvero che scrivere equivalga a comunicare. Sono individui pericolosi, lettore, e non sempre c’è in giro un savio governatore pronto a decapitarli.

Nefandonia

Tuesday, October 12th, 2010

Nefandonia. Al plurale risulta utilizzata in rete otto volte, dal 2004 a oggi. Al singolare, come si vede nell’immagine, una sola volta. Sembra che sia usata indifferentemente come sinonimo di nefandezza o di fandonia, o anche nel significato di frottola odiosa, falsità che sfuma in calunnia o insulto.

Esempi:
— È inutile che ti metti a raccontare queste piccolezze, nefandonie, con l’aggiunta di arzigogoli e troppismi.
— Prima di scrivere simili nefandonie, venite a verificare!
— Il vigliacchetto ti è venuto fuori in maniera spontanea come altre nefandonie che quotidianamente rigetti.

Un sostegno per il Centro Studi “Giorgio Manganelli”

Monday, October 11th, 2010

Mi sovviene un aforisma di mio padre che forse non ho mai capito bene come ora: «È incredibile il numero di cose che ha fatto gente che non è mai nata!». Ovviamente il Centro Studi non è mai nato, ma io sì, e di tutto mi sono fatta carico in prima persona. E, credetemi, avrei voluto e vorrei continuare a farlo. Ma la gestione economica è divenuta insostenibile, e la cultura oggi come oggi non è certo sostenuta dal pubblico, anzi… come mi disse una volta mio padre, tra il serio e il faceto: «Vuoi fare cultura? Bene, fai pure, ma ricordati che sarai punita».

Lietta Manganelli, figlia del qui molto citato Giorgio, chiede aiuto per sostenere il centro studi “Giorgio Manganelli” da lei curato e che rischia di non nascere per mancanza di fondi. Qui la lettera completa e l’indirizzo a cui contattare Lietta Manganelli. Accorrete numerosi!

Realtà, ovvero letteratura

Saturday, October 9th, 2010

A proposito di “che cos’è la letteratura?”, ecco la trama ideale per un racconto che qualcuno prima o poi scriverà (o forse ha già scritto), anche senza conoscere lo strano caso di L.M.

Il paziente, il sig. LM, è un uomo di 68 anni, alcolista di lunga data, che ha sviluppato la sindrome di Korsakoff, caratterizzata proprio da grave amnesia e confabulazione ovvero produzione non intenzionale di falsi ricordi. Un normale paziente korsakoff è del tutto inconsapevole dei propri deficit mnestici e produce ricordi più o meno plausibili rispondendo a domande quali “cosa hai fatto ieri?” o “come hai trascorso la tua ultima vacanza?”, ma se gli si chiede cosa ha fatto il 13 marzo 1985 risponde “non lo so” come qualsiasi persona con memoria normale. Quello che rende unico LM è la sua inusuale tendenza a produrre una risposta confabulatoria anche per periodi così remoti e spesso con uno straordinario livello di dettaglio. “Ricorda”, per esempio, di aver indossato una certa maglietta nell’estate del 1979.
LM vive, in altre parole, “ricordando” perfettamente qualunque giorno della sua vita, senza essere consapevole che nessuno di quei ricordi è vero.

[Psicocafé — Lo strano caso di L.M. l’iperamnesico confabulante, via Pensieri spettinati]

(e comunque io, il 13 marzo 1985, precisamente alle sette e un quarto di mattina, ricordo di aver incontrato sul ventisette barrato un signore con la giacca gialla e i pantaloni blu che cantava Nessun dorma mangiando popcorn).

Ire

Friday, October 8th, 2010

Il Nobel per la pace al dissidente cinese Liu Xiaobo scatena le ire di Pechino.

Il Nobel per la medicina all’inventore della fecondazione in vitro Robert G. Edwards scatena le ire del Vaticano.

Il Nobel per la letteratura a Mario Vargas Llosa non scatena alcunché.

eBook

Friday, October 8th, 2010

C’è solo una cosa che non mi convince in questa faccenda dei libri elettronici: se il libro è una schifezza, non puoi neanche consolarti usandolo come fermaporta o per accendere il camino.

Che cos’è la letteratura?

Wednesday, October 6th, 2010

biblioteca[Avviso al lettore frettoloso: questo post è lunghissimo perché, come diceva Pascal, non ho avuto il tempo di farlo più corto. Avrei potuto pubblicarlo a puntate, ma, a parte il fatto che un pippone a puntate resta pur sempre un pippone, pubblicarlo a puntate mi faceva fatica.]

Saranno cent’anni che gli intellettuali insistono a chiedersi “Che cos’è la letteratura?”, ma la risposta non arriva mai, e quando una risposta non arriva mai si danno solo due possibilità: o la domanda è molto difficile o è completamente scema. Aut aut, non si scappa.

Personalmente propendo per la seconda ipotesi, ma ammetto che la prima è più attraente, perché infonde in chi pone la domanda l’illusione di occuparsi di un argomento serissimo, non privo di una certa qual profondità filosofica e di una discreta rilevanza umanistica. Che cos’è la letteratura? — ci si chiede assumendo una posa adeguatamente cogitabonda — e subito ci si sente immersi nel mare delle questioni determinanti per la distinzione fra uomini e bestie e per la conservazione della specie.

Il Canone
Qualche risposta in giro si trova, a dire il vero, ma nessuna ha l’aria di essere definitiva. Una piuttosto classica è quella che fa coincidere la letteratura con l’insieme delle opere canonizzate nei secoli da circoli ristretti di lettori particolarmente colti e ferrati — gente che traduce Senofonte all’impronta e che sa distinguere al volo uno gliommero da una frottola o un’anastrofe da un iperbato, mica fave. Purtroppo costoro prediligono di solito opere di autori defunti da almeno un secolo e, prima di inserirle nel Canone, si impelagano in discussioni accesissime che possono durare decenni: al lettore che si affida a loro per sapere se il libro che sta leggendo è letteratura solitamente non basta la regolare vita terrena per ottenere risposta. Il Canone, poi, ha due difetti che lo rendono alquanto inaffidabile come risposta alla fatidica domanda: variabilità e strettezza. Non sto a sviluppare il concetto, tanto ci siamo capiti.

Aria di famiglia
Per rimediare all’angustia del Canone esiste una risposta che si potrebbe definire canone lasco o canone derivativo. Si tratta della famosa teoria dell’aria di famiglia: la letteratura è l’insieme dei testi che mostrano somiglianze più o meno marcate con opere che appartengono al Canone. Se leggendo, che so, il Don Chisciotte, un lettore secentesco notò una parentela con l’Orlando Furioso, e se l’Orlando Furioso all’epoca era canonico, quel lettore poteva concludere che il Don Chisciotte era letteratura proprio per via di quell’affinità.

Rispetto al Canone il metodo dell’aria di famiglia è più flessibile, più immediato e meno ristretto, e ha inoltre il vantaggio, diciamo democratico, di dare anche al lettore comune — cioè quello che ignora la differenza fra gliommero e frottola e che, per via di quel grammo di protervia che sempre si accompagna all’ignoranza, la ritiene irrilevante — la possibilità di stabilire per proprio conto che cos’è la letteratura.

A contrappeso di questi vantaggi si pone un aumento incontrollabile della variabilità, perché questo metodo è fortemente influenzato dal gusto di ciascun lettore, una faccenda sulla quale, come si sa, ogni obiezione è illecita. Ogni lettore troverà in un libro le somiglianze che il proprio gusto e le proprie letture canoniche pregresse gli suggeriscono, con esiti spesso discutibili: se il lettore secentesco di prima avesse letto e apprezzato, poniamo, l’Amadigi di Gaula, e avesse trovato il Don Chisciotte molto dissimile dal modello canonico, avrebbe potuto concludere che il Don Chisciotte andava bene per accendere il camino o per incartare il pesce, altro che letteratura.

Due risposte recenti
A dispetto di questi problemi, sembra che il rilassamento del concetto di canone stia guadagnando terreno presso chi si occupa di roba scritta a livello professionale. A titolo dimostrativo riporto due opinioni autorevoli. La prima, pur priva di supporto bibliografico, è reperibile in rete (per esempio qui):

La letteratura è qualcosa di scritto. [Giulio Mozzi]

La seconda si trova a pagina 26 del libro Il limbo delle fantasticazioni, Quodlibet 2010:

Se potessi legiferare, decreterei che la questione dell’arte sia d’ora in poi trascurata, e che la cosiddetta letteratura coi suoi generi (poesia, romanzo, eccetera), le sue figure (l’autore, l’opera, l’Opera Omnia), con la sua organizzazione di giudici, la sua rete di promozione, le sue teorie (e la domanda tipica: che cos’è la letteratura?), decreterei che la letteratura sia un caso particolare, piccolo (anche se supponente e aggressivo), del più vasto, vastissimo e libero limbo delle fantasticazioni. Dico limbo perché, come si sa, nel limbo sostavano i non battezzati; e dico fantasticazioni per sottrarre le scritture all’apparato ministeriale della letteratura. [Ermanno Cavazzoni]

Dalla letteratura alla scrittura
In entrambe le opinioni sopra citate si può notare uno slittamento del punto di vista dalla letteratura alla scrittura. Affermando che la letteratura è qualcosa di scritto, il Mozzi sfiora la tautologia e dichiara implicitamente che ciò che interessa al lettore (e selezionatore di testi da destinare alla pubblicazione, nel suo caso) non è tanto la rispondenza di un testo a un’idea data di letteratura, ma solo il fatto che quel testo è stato scritto. La letteratura, in altre parole, resta al livello di pura potenzialità e non influisce minimamente sul giudizio del lettore o sui suoi criteri di scelta: altri giudicheranno; io, nel frattempo, leggo comunque.

Anche la posizione del Cavazzoni, per quanto più articolata, mette l’accento sulla scrittura e relega la letteratura a caso particolare di un più vasto insieme di testi scritti, attribuendole perfino un ruolo burocratico assai poco lusinghiero: qui la letteratura è qualcosa a mezza strada fra un eccesso tassonomico e un vero e proprio fardello, qualcosa di cui ci si può comunque liberare senza troppe precauzioni, quando si tratta di scegliere cosa leggere.

Seguendo una o l’altra delle succitate autorità, insomma, il lettore che incautamente si trovasse a chiedersi “il libro che sto leggendo è letteratura?”, potrebbe rispondersi senza alcun timore “ecchissenefrega”. E il fatto che il lettore si faccia la domanda e si dia la risposta è un esito di quel movimento di allargamento e rilassamento del canone che abbiamo visto fin qui.

In conclusione
In conclusione, se mai un discorso qualsiasi può avere una conclusione, la domanda “Che cos’è la letteratura?” sta diventando sempre meno rilevante. A metà del secolo scorso Jean-Paul Sartre poteva intitolarci un serissimo tomo di seicento pagine facendo la sua porca figura da intellettuale raffinato. Oggi un docente di Estetica e Retorica (mica cotiche) come Ermanno Cavazzoni può liquidarla con divertito fastidio (e addirittura fra parentesi) e un esponente di rilievo dell’editoria nazionale come Giulio Mozzi può formulare una risposta educatamente elusiva.

Cosa è successo in questi ultimi sessant’anni, per rendere possibile cotanta caduta? Per rispondere ci vorrebbe un pippone a parte. Magari un’altra volta.

Futurismo

Tuesday, October 5th, 2010

Gianfranco Fini ha annunciato la nascita di un nuovo partito chiamato Futuro e Libertà.

Il simbolo è già pronto: un tricolore dai tratti “futuristi“. Mercoledì, poi, trenta intellettuali di area “futurista” si riuniranno per preparare una prima bozza del manifesto programmatico.

Fonti bene informate ci hanno riferito l’incipit del suddetto manifesto: “Noi vogliamo cantare l’amor del pericolo, l’abitudine all’energia e alla temerità”. L’explicit è ancora in discussione, ma sembra accertato che conterrà lo slogan ZANG TUMB TUMB o, in alternativa, un numero casuale di parole in libertà.

Monsignor Fisichella, vattene un po’ a fare in culo

Saturday, October 2nd, 2010

Va da sé che il titolo di questo post deve essere adeguatamente contestualizzato.

Cinismo

Friday, October 1st, 2010

Quando stamattina ho sentito di sfuggita alla radio che Maurizio Belpietro aveva subìto un attentato, ho pensato distrattamente queste cose:

1. È una bufala confezionata da Maurizio Belpietro
2. Nel quartiere di Maurizio Belpietro gira della gente ben strana
3. È il trailer della prossima campagna stampa di Libero

Quando poi, leggendo con più attenzione le notizie in rete, ho capito che l’attentato c’è stato davvero, ho capito anche che sto diventando un mostro di cinismo.