Archive for the ‘diatribe’ Category

L’etteratura è morta

Tuesday, April 13th, 2010

tratto da www.edarts.net/access/100cal.jpgL’etteratura è morta, dicono. C’è chi dice che è morta da almeno trent’anni, altri da trentacinque. I più pessimisti datano la morte dell’etteratura ai primi anni del ventesimo secolo. Pare infatti che a differenza di uomini, animali, piante e altri agglomerati di sostanze organiche senzienti e non, non esista ancora un metodo condiviso per stabilire l’esistenza in vita dell’etteratura, con il risultato che ognuno si può prendere la libertà di farla morire un po’ quando gli pare.

Tant’è che — sembra assurdo, lo so, ma è così — c’è perfino gente che sostiene che l’etteratura in realtà è viva e non se la passa neanche tanto male.

Le cause di queste difficoltà di accertamento e datazione del decesso non sono completamente note, né facilmente deducibili dal fenomeno in sé, e tuttavia non è irragionevole ipotizzare che fra esse ci sia la mancanza di un accordo fra gli operatori del settore circa l’assetto ontologico dell’etteratura. Fra le molte scuole di pensiero citeremo qui solo le principali.

La scuola empirica insegna che l’etteratura è l’insieme di ciò che è contenuto negl’ibri. Alle numerose richieste di un parere scientifico su cosa siano gl’ibri, i massimi esponenti della scuola empirica han sempre fatto orecchie da mercante.

La scuola soggettivista fa coincidere l’etteratura con l’atto dell’èggere. Secondo questa scuola l’ettore è il vero artefice del fenomeno etterario. Ai frequentatori più assidui dell’annosa questione non sfugge il subdolo sottinteso etimologico di questa posizione.

La scuola accademica afferma che l’etteratura è il museo delle opere storicamente accolte nel canone etterario da un’élite di ettori specialisti. Se richiesti di specificare i requisiti necessari per entrare a far parte di quella élite, i membri della scuola accademica generalmente fischiettano.

La scuola ideologica, infine, sostiene che l’etteratura è la rappresentazione simbolica dei miti e delle fobie di un popolo. Va da sé che se chiedete a un ideologico di definire popolo, egli vi rimanderà alla sociologia, all’antropologia, alla glottologia o a qualsivoglia altra materia in cui si sarà preventivamente dichiarato incompetente.

Essendo impossibile dare una risposta condivisa alla domanda cos’è l’etteratura?, gli esperti solitamente si accordano su proposizioni apodittiche del tipo l’etteratura c’è, spostando di fatto il discorso da un contesto razionale a uno fideistico e rimandando sine die una definizione articolata dell’ente. L’esistenza dell’etteratura, insomma, sembra essere una questione di fede, non di ragione e, date queste premesse, stabilire se l’etteratura è viva o morta è di fatto una disputa teologica.

Nessuna sorpresa, quindi, se l’ettore laico e diabolicamente materialista, quando qualche esponente di una o più delle succitate scuole gli viene a raccontare che l’etteratura è morta, risponda con l’inciviltà che lo contraddistingue e un bel chissenefrega non vogliamo mettercelo? e continui di poi a èggere, beffardo e imperterrito, incurante della costernazione del necroforo di turno.

L’eterno fascino della diatriba

Saturday, November 14th, 2009

La diatriba è l’anima della cultura. Platonici vs. Aristotelici, Nutella vs. CiaoCrem, Tolstoj vs. Dostoevskij, Coca vs. Pepsi, Antichi vs. Moderni, Indiani vs. Cowboy, e via così. Date in pasto all’umanità una materia opinabile, e subito sorgeranno due eserciti contrapposti e armati fino ai denti.

Questa natura essenzialmente bellica della comunicazione culturale pone qualche problema organizzativo, perché discutere una questione a randellate tende a por fine al dibattito per mancanza di contendenti prima che si trovi una soluzione, e questo non è bello a vedersi, né vantaggioso per il progresso della conoscenza.

Se ne rese conto per primo un intellettuale vissuto circa settantamila anni fa, di cui purtroppo non resta che il cranio conservato in un museo paleontologico kenyota. Un giorno costui raccolse una noce di cocco e si accingeva a spaccarla con l’ascia, quand’ebbe l’idea di chiedere ad alta voce: «secondo voi si spacca prima se l’appoggio per terra o se l’appoggio su questa bella pietra piatta?». Non l’avesse mai fatto. Fra i raccoglitori della sua squadra si formarono seduta stante due partiti, i terristi e i pietristi, che iniziarono a discutere animatamente, non senza pesanti scambi di motti salaci e reciproci sberleffi.

Quando i raccoglitori rientrarono al villaggio, la discussione si allargò a tutti gli abitanti e non ci volle molto per arrivare ai calci e ai ceffoni. L’intellettuale allora emise un grido ferocissimo che come per incanto immobilizzò i contendenti, taluni con le mani attorno al collo del vicino, altri col ginocchio a pochi centimetri dagli altrui genitali, altri ancora piegati in due per il colpo appena ricevuto. Quando fu sicuro di aver guadagnato l’universale attenzione, l’intellettuale disse: «facciamo così: cinque terristi di qua, cinque pietristi di là, ognuno con la sua bella noce da spaccare. Vince la squadra che finisce prima». Così fecero, e i pietristi conclusero la prova con ampio vantaggio sugli avversari.

Quella sera stessa tutti si sedettero in cerchio attorno a un grande fuoco al centro del villaggio, sbranando montagne di carne arrostita e tracannando latte di cocco fermentato. La discussione proseguì su tutt’altri toni: «se funziona con le noci di cocco» disse un raccoglitore «potrebbe andar bene anche con le selci, no?» e un arrotaselci rispose: «ottima idea. Domattina proverò ad affilarle sopra una pietra, anziché per terra, poi vi faccio sapere come è andata». E quello fu il primo circolo ermeneutico di cui si conservi il ricordo.

(tutto questo per dire che va bene provocare, va bene discutere, va bene lamentare le infime sorti e regressive dell’industria culturale, ma poi, a un certo punto, bisognerebbe cominciare a fare proposte in positivo. Per esempio, la butto lì, pubblicare in rete le opere di “valore non discutibile” (Cortellessa) e spiegare, sempre in rete, il perché e il percome il loro valore non sia discutibile (e mettere nel conto le eventuali legittime pernacchie)).

La capocciata

Thursday, July 13th, 2006

La capocciata, tratto da www.chinadaily.comPer una volta la diatriba della settimana (le diatribe moderne, si sa, durano al massimo una settimana) non è letteraria, ma pazienza. Da qui a lunedì prossimo si tratta di decidere, una volta per tutte, dove stia la ragione e dove il torto nell’ormai celebre episodio della capocciata. Innanzitutto occorre trovare un bel titolo alla diatriba, magari generalizzando un poco, per cercare di trarre dalla questione insegnamenti morali di portata universale. Dopo attenta riflessione, mi pare che il dilemma possa essere così rappresentato:

Se sia lecito per un uomo rifilare capocciate allo sterno di un avversario quando questi abbia rivolto alla propria sorella l’appellativo di prostituta.
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Cosa deve essere la narrativa

Monday, June 5th, 2006

War with pen by Robert Neubecker, www.neubecker.comIn questo periodo sono abbastanza gettonate le diatribe sul tema cosa deve essere la narrativa?, che è già di per sé una domanda alquanto scema, dato che l’unica risposta sensata è: la narrativa – e più in generale la letteratura – non deve essere proprio alcunché, se non, per l’appunto, letteratura, ovvero ordigno verbale, edificio di parole, mistura di grafismi. Che altro mai dovrebbe essere? Eppure non passa giorno senza che qualcuno tenti di dare alla letteratura nuovi compiti e nuovi doveri.

Uno dice che la narrativa deve essere fiction, ovvero pura invenzione, ed ecco che subito spunta fuori un altro a obbiettare che no, esimio collega, la narrativa ha da essere faction, ovvero rispecchiamento fedele della realtà. E se il primo non esita a considerare indegno di pubblicazione tutto ciò che non assomiglia a Don Chisciotte, l’altro non accetta niente che non discenda in linea diretta da Germinal. E s’accapigliano peggio dei capponi manzoniani:
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Perché mai dovrei correre alla fermata dell’autobus?

Thursday, November 24th, 2005

Boccioni: Elasticità, 1912Domenica scorsa la lentezza ha occupato l’intera prima pagina di Domenica, forse più noto come "il domenicale", supplemento culturale del quotidiano Il Sole 24 Ore. A un articolo di chiara ispirazione lentista a firma Claudio Magris – germanista e scrittore – ha risposto il velocista Roberto Casati – filosofo del linguaggio. Botta e risposta qui (pdf, 116KB).

La botta di Magris è una tranquilla riflessione sulla velocità della vita osservata dal punto di vista di un soggetto vivente, pensante e riflettente, ma immobile. Tipo specchio da parete, per capirsi. La risposta di Casati, con subdolo artifizio retorico, mette in movimento il soggetto, tramutandolo da specchio a telecamera mobile. Magris s’interroga sugli effetti psicologici della velocità sui comuni mortali; Casati risponde con una lezione di relatività generale. Magris parla di una velocità subìta dall’uomo; Casati travisa completamente il tema e parla della velocità dell’uomo. Insomma, per farla breve, Magris invita Casati a pranzo e Casati va a farsi un giro per negozi, quel distratto d’un Casati.

A un certo punto dell’articolo di Magris si legge:

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Le diatribe letterarie (3 – Fine)

Wednesday, November 16th, 2005

War with pen by Robert Neubecker, www.neubecker.comChe stavo dicendo? Ah già, diatribe quantitative versus diatribe qualitative. Ora, è evidente che tutto questo mio sollazzevole girovagare attorno al tema (sollazzevole per me, beninteso) non è del tutto centrato sul problema e trascura molti dettagli, restituendo una visione alquanto parziale della questione. Parziale sia in quanto incompleta sia in quanto faziosa, ovvero soggettiva. Va detto peraltro che non mi preme affatto essere oggettivo e imparziale (ammesso che sia mai possibile esserlo).

Tramontata l’epoca delle diatribe letterarie, dunque, oggi viviamo in quella delle diatribe commerciali. Vendere o non vendere, questo è l’unico dilemma rimasto in circolazione. Chi vende sopravvive e alla lunga prospera. Chi non vende muore. Il numero di copie vendute stabilisce il canone contemporaneo, troncando sul nascere fastidiose dispute sul valore letterario di quel che si pubblica: se vende, vale. Punto. La Rowling è il più grande scrittore vivente, altro che Faletti, che racimola al massimo un paio di milionate di copie. Camilleri, misurato sull’opera completa, è il più grande scrittore italiano di tutti i tempi; seguono distanziati Baricco e De Carlo; la Tamaro è un po’ in ribasso.

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Le diatribe letterarie (digressione quasi seria)

Tuesday, November 15th, 2005

Con un tempismo davvero sorprendente, ieri Giulio Mozzi ha pubblicato su Vibrisse un articolo che sembra scritto apposta per esemplificare queste mie umili divagazioni diatribiche. L’articolo si apre su questa domanda: «Esiste un modo per capire quanto influisce sulla vendita di un libro il fatto che si attivi un passaparola in rete?» e prosegue a porre domande su come la rete può influenzare le vendite librarie, per poi concludere così: «Io sento la mancanza, in molti discorsi che ho letti e sentiti a questo proposito, di approcci sistematici agli aspetti quantitativi della faccenda. Mi si dirà che non ci sono solo gli aspetti quantitativi; ed è vero; ma gli aspetti quantitativi ci sono.»

Premetto che mi sembra giusto che Giulio Mozzi, che sui libri e sull’editoria ci lavora e ci campa la giornata, parli di libri e di editoria in termini quantitativi. Ciò detto, mi ha sorpreso che Giulio Mozzi sentisse la mancanza di ciò di cui io percepisco la troppità: le diatribe quantitative. Ho provato a porre il problema nei commenti all’articolo (i miei sono quelli firmati Luca Tassinari), ma non credo di aver fatto breccia nel cuore di Mozzi, che lì era tutto rivolto (e, ripeto, con ottime ragioni) all’economia. A un certo punto, rispondendo a me, Giulio Mozzi ha detto:

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Le diatribe letterarie 2

Sunday, November 13th, 2005

War with pen by Robert Neubecker, www.neubecker.comLà, dove arditi guerrieri si davano battaglia su questioni di stile, oggi si fronteggiano macchine da guerra potenti e disumanizzate e le discussioni vertono principalmente sui numeri. Gli aspetti industriali del libro hanno completamente soppiantato quelli critici. Le moderne diatribe letterarie sono pilotate dalle macchine dell’editoria, della distribuzione, del giornalismo di propaganda culturale, delle catene di librerie, alle quali naturalmente non frega un accidente il come della letteratura, ma solo il quanto.

L’altro giorno seguivo una simpatica discussione su un blog. Si era partiti da un’iniziativa a sostegno della piccola editoria, lanciata con enorme entusiasmo e un pizzico di ingenuità da Alberto Giorgi. Ben presto la discussione si è attestata su domande del tipo: chi vende di più? chi vende di meno? spostano più copie le recensioni in rete o quelle sui quotidiani?

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Le diatribe letterarie 1

Friday, November 11th, 2005

War with pen by Robert Neubecker, www.neubecker.comLe patrie lettere sono sempre state un gigantesco campo di battaglia percorso da avversi schieramenti. In campo letterario la passione per le diatribe e le polemiche è una costante apparentemente inesauribile. Tuttavia – come già dissi altrove, anche se non ricordo dove – le diatribe contemporanee si distinguono dalle antiche specialmente in due aspetti:

1. La durata, assai inferiore nelle moderne che nelle antiche.
2. L’argomento. E qui il discorso si fa lungo (eh eh eh!)

Orbene, analizziamo tritamente questo secondo punto. In antico si diatribeggiava attorno ad aspetti per così dire qualitativi della letteratura. Ci si chiedeva se le regole aristoteliche sull’unità d’azione tempo e luogo potessero essere violate; se la lingua volgare potesse sostituire la curiale; se l’autore dovesse intervenire o meno a spiegare o a commentare l’azione; cose così.

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