Archive for the ‘scrittura’ Category

Ginestra

Tuesday, May 1st, 2012

In una casa sopra Monterenzio abitava Ginestra, così detto perché tra primavera ed estate coglieva ginestre fiorite ai bordi delle strade, e poi le piazzava fuori e dentro casa, a centinaia, usando come vasi i vuoti dell’acqua minerale che raccoglieva nel resto dell’anno. Come facesse a campare nessuno lo sapeva. La sera scendeva in paese e a ogni ragazza che incrociava spalancava le braccia e gridava: vieni qui e dammi un bacio. Tutte le ragazze ridevano. Qualcuna il bacio glielo dava davvero.

Invidiare i morti

Wednesday, April 11th, 2012

Al funerale Pietro raccontava di quando lui e il povero Paolo, ragazzini, scorrazzavano in campagna: saltavamo i fossi in lungo, diceva, trasmettendomi l’immagine di due gatti con gli stivali capaci di percorrere sette leghe per passo. Poi le tribolazioni, i figli, i pensieri che non finiscono mai. E più lui commemorava, più io mi convincevo che Pietro un po’ invidiasse Paolo, che pensieri non ne aveva più. E quest’idea, l’idea che si può anche arrivare a invidiare i morti, mi dava il capogiro.

Un taccuino

Tuesday, April 3rd, 2012

Tolta di mezzo un bel po’ di fuffa virtuale, ecco che torna la vita, quella solita, talvolta brutta, talvolta bella, noiosa mai. Riemerge per prosciugamento, come un paese dall’alluvione man mano che l’acqua e il fango si ritirano, al contrario, cominciando dai tetti delle case, poi giù fino alle strade e ai fossi, senza fretta. Qua e là fioriscono arabeschi di melma in via di essiccazione. C’è un ometto che si gode il sole su una panchina quasi asciutta. Ha un taccuino sulle ginocchia, scrive.

49

Tuesday, November 15th, 2011

Oggi, quarantanovesimo compleanno del titolare, mi sembra adeguato ripescare un post di qualche anno fa.

L’incanto di pagina 49

Immagine tratta da home.earthlink.net/~cashinbook/pages/page-49.jpgNon potrebbe la vita essere tutta un sogno? In termini più precisi: c’è un criterio sicuro per distinguere il sogno dalla realtà, il fantasma dall’oggetto reale? [A.Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, pag. 49]

Ordunque lei mi chiede, egregio professor Schopenhauer, se non sia possibile che la vita tutta sia sogno. Se cioè l’uomo sia in grado di distinguere ciò che egli rappresenta alla propria coscienza in istato di veglia da ciò che gli appare quasi fantasmaticamente durante il riposo notturno. La domanda non è banale e richiede una risposta articolata e fondata su documenti di sicuro prestigio e autorità.

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La scollatura della Marisa

Sunday, September 4th, 2011

C’è modo e modo per dire le cose. Nella frase che precede questa, per esempio, il lettore scafato ne avrà senz’altro riconosciuti due: l’indicativo e l’infinito.

L’indicativo è il modo gentile e amichevole del colloquio, delle gite domenicali, delle chiacchiere pomeridiane al parco: sono andato al cinema con la Marisa e non ho visto il film, ma ho tenuto gli occhi inchiodati alla sua scollatura per tutto il tempo. Questo è il modo prìncipe della prosa, il modo in cui miliardi di individui dalla notte dei tempi hanno potuto esprimere tutto ciò che è quotidiano, familiare, rassicurante da un lato, ineluttabilmente noioso dall’altro.

L’infinito, al contrario, è il modo grazie al quale noi bipedi loquaci possiamo partire per la tangente, sognare, immaginare mondi alieni, fantasticare, è cioè il modo che ci consente di evadere dall’indicativo, di accantonare l’opprimente prosaicità quotidiana a favore di un tempo nuovo, dilatato, un po’ perso fra le nuvole: Oh, andare al cinema con la Marisa e non vedere il film, ma tenere gli occhi inchiodati alla sua scollatura per tutto il tempo!

Che il congiuntivo sia vagamente ecclesiastico e burocratico è un pregiudizio. Certo, la sua variante esortativa, parente stretta dell’imperativo, ricorda troppi professorini col ditino alzato e istiga alla ribellione linguistica, un po’ come il gesso che stride sulla lavagna, ma ciò non toglie che il congiuntivo sia anche tutto l’opposto, cioè un modo mite, incerto, incline al rossore e alla ritrosia, incapace di concludere, dubitativo, forse bisognoso di incoraggiamenti o di abbracci materni: E se andassi al cinema con la Marisa e non vedessi il film, ma tenessi gli occhi inchiodati alla sua scollatura per tutto il tempo?

Inguaribilmente burocratico è invece il gerundio, un modo che fin dal nome odora di timbri, archivi e ugge impiegatizie. Avendo un carattere pedante, essendo occhialuto e di natura subordinata e parassitaria, il gerundio non è abbastanza autonomo per dire qualcosa di suo, ma ha sempre bisogno di una principale a cui appoggiarsi: Andando al cinema con la Marisa e non vedendo il film, ma tenendo gli occhi incollati alla sua scollatura per tutto il tempo. Manca qualcosa, nevvero?

Il condizionale è ritenuto universalmente, e a ragione, il re dell’ipotetico. Non c’è modo migliore per dire ciò che potrebbe essere o che sarebbe potuto essere stato e, proprio per questo suo commercio con le congetture e le supposizioni, il condizionale ha la postura a un tempo mesta e desiderante degli insoddisfatti: Andrei al cinema con la Marisa e non vedrei il film, ma terrei gli occhi inchiodati alla sua scollatura per tutto il tempo.

C’è modo e modo per dire le cose e forse dovrei ancora spendere due parole sull’ambiguità del participio o sulla depressione dell’imperativo, ma dopo tutto, a parte il modo, quello che volevo dire è che la scollatura della Marisa è un film meraviglioso.

Volevo dirti, infine

Tuesday, May 3rd, 2011

Grazie per la pronta risposta alla nostalgia dell’Armando e mia. Ci contavo, ma devo dire che l’oremus fratres ha superato le mie aspettative: ho riso di gusto, di quel riso ridanciano che ha come sfondo un cordiale vaffanculo all’universo mondo (le rime interne sono un goffo tentativo di imitazione). Volevo dirti, infine, che, per quanto tu taccia (e sanno i numi quanto vorrei avere il coraggio di tacere anch’io), resta il mio desiderio di saperti sana e salva e, nei limiti dell’umano, felice.

Parlare di tagliatelle

Wednesday, April 20th, 2011

L’altro giorno mi ero appena seduto di fronte a un bel piatto di tagliatelle e ho pensato: parlare di libri è un po’ come parlare di tagliatelle. Non è meglio mangiarle? Cosa succede se uno, davanti a un bel piatto di tagliatelle, si mette a parlare di tagliatelle anziché mangiarle? Succede che a lui resta la fame, mentre le tagliatelle diventano un gomitolo seccaticcio e finiscono nella spazzatura. Ho concluso questo pensiero proprio sull’ultima forchettata di tagliatelle. Erano davvero buone.

L’uomo dei dipinti

Tuesday, April 5th, 2011

L’uomo dei dipinti camminava al centro della strada, sotto il braccio sinistro una cartella di cartone da cui spuntavano bordi di fogli colorati. Interrogava i passanti alzando la mano destra, l’indice sollevato: vuole vedere i dipinti? Quasi tutti lo scansavano, alcuni lo mandavano al diavolo, ma l’uomo con la giacca di pelle nera si fermò, ascoltò la domanda guardandolo negli occhi e, sorridendo, declinò l’invito. L’uomo dei dipinti lo guardò allontanarsi, immobile, l’indice ancora sollevato.

Una lingua sconosciuta

Tuesday, March 29th, 2011

Si chiamava Jochim, capelli scuri e lisci, occhi chiari e seri. Lui non capiva una parola di italiano, io non capivo una parola di tedesco, ma sulla spiaggia di Miramare giocavamo sempre insieme. Io avevo dieci anni, lui undici, e la sera, dopo la cena a orario comandato, giocavamo ancora nel cortile dell’albergo, costruendo un’allegra amicizia muta. Il giorno in cui partì ci guardammo a lungo, senza parlare e senza piangere, con il cuore che nel petto parlava una lingua sconosciuta, durissima.

Il Professore

Tuesday, March 22nd, 2011

Tutte le sere giocava a biliardo nel bar di Via Protti, vicino al Ponte Vecchio. Gli altri giocatori lo chiamavano Professore perché vestiva strano, camicia panciotto e cravatta. Durante le discussioni di politica, il Professore se ne stava in disparte a osservare i contendenti con sguardo grave, senza intervenire. Poi, quando la polemica si smorzava, tirava un gran sospiro e chiosava: se li prendi uno per volta gli uomini son brave persone. È quando si mettono assieme che diventano pericolosi.

Either one

Tuesday, March 15th, 2011

Una volta, in treno, c’erano un signore e una signora inglesi sulla cinquantina. Lei stava alla mia destra, lui di fronte a lei. Lui guardava fuori dal finestrino, taciturno, con aria stanca e depressa. A mezzogiorno la signora inglese cominciò a togliere cibo da una borsa, offrendo al signore mille alternative: sandwich con uovo e maionese o tramezzino al tonno? Mela o arancia? Acqua o tè? A ogni proposta lui rispondeva senza entusiasmo: either one. Poi tornava a guardare fuori dal finestrino.

La fiòpa

Tuesday, March 8th, 2011

Vicino all’argine del Reno c’erano i pioppi di Callegari, che abitava in una cascina poco distante. Callegari era uno che parlava poche volte e con poche parole. Una mattina, in un bar di Renazzo, c’era Callegari a un tavolino col suo caffè e il Resto del Carlino, come sempre. Stava leggendo un articolo intitolato “Il papa rivendica le radici cristiane dell’Europa”. A un certo punto, senza rivolgersi a nessuno in particolare, Callegari disse: la fiòpa l’ha i radìs, mo me an son menga ‘na fiòpa.

Angiolino

Tuesday, March 1st, 2011

In una roulotte vicino alla cabina elettrica dormiva Angiolino. Nessuno sapeva quanti anni aveva o di chi era figlio: forse era lì da sempre, forse era arrivato cent’anni prima su una nave di pirati, dicevano. Dalle cinque del mattino camminava su e giù per il lungomare sciorinando il suo monologo meteorologico continuo: domani libeccio, non uscire in mare; oppure: arriva scirocco, domani piove. Era matto, certo, ma non sbagliava mai. Al suo funerale, pagato dal comune, piangeva tutto il paese.

Signore

Tuesday, February 22nd, 2011

In treno, tra Roma e Bologna, furono mie compagne di viaggio una giovane filippina e sua figlia di quattro anni. Entrambe sfoggiavano splendidi sorrisi color nocciola. La bimba mi mostrava i disegni colorati che andava creando su un quadernetto, mentre la madre mi raccontava le imprese di una donna di nome Signora, dicendo ogni tanto alla bambina: non disturbare il signore. Poco prima del mio arrivo (loro proseguivano per Milano), la mamma mi domandò: signore, anche tu a casa tua hai pilippina?

L’inquieta zitella

Tuesday, February 15th, 2011

La maestra aveva quarant’anni e non era sposata. Le quarantenni non sposate erano chiamate zitelle dal popolino illetterato. La maestra zitella non si arrabbiava: ella si inquietava, perché, diceva, secondo la lingua italiana ad arrabbiarsi sono i cani, mentre gli esseri umani, che cani non sono, si inquietano. Quando si inquietava, la maestra urlava: io mi domando e dico! Nessuno di noi bambini ha mai saputo che cosa si domandasse l’inquieta zitella, né ella aggiunse mai un vero detto al dico.