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Che cos’è la letteratura?

Wednesday, October 6th, 2010

biblioteca[Avviso al lettore frettoloso: questo post è lunghissimo perché, come diceva Pascal, non ho avuto il tempo di farlo più corto. Avrei potuto pubblicarlo a puntate, ma, a parte il fatto che un pippone a puntate resta pur sempre un pippone, pubblicarlo a puntate mi faceva fatica.]

Saranno cent’anni che gli intellettuali insistono a chiedersi “Che cos’è la letteratura?”, ma la risposta non arriva mai, e quando una risposta non arriva mai si danno solo due possibilità: o la domanda è molto difficile o è completamente scema. Aut aut, non si scappa.

Personalmente propendo per la seconda ipotesi, ma ammetto che la prima è più attraente, perché infonde in chi pone la domanda l’illusione di occuparsi di un argomento serissimo, non privo di una certa qual profondità filosofica e di una discreta rilevanza umanistica. Che cos’è la letteratura? — ci si chiede assumendo una posa adeguatamente cogitabonda — e subito ci si sente immersi nel mare delle questioni determinanti per la distinzione fra uomini e bestie e per la conservazione della specie.

Il Canone
Qualche risposta in giro si trova, a dire il vero, ma nessuna ha l’aria di essere definitiva. Una piuttosto classica è quella che fa coincidere la letteratura con l’insieme delle opere canonizzate nei secoli da circoli ristretti di lettori particolarmente colti e ferrati — gente che traduce Senofonte all’impronta e che sa distinguere al volo uno gliommero da una frottola o un’anastrofe da un iperbato, mica fave. Purtroppo costoro prediligono di solito opere di autori defunti da almeno un secolo e, prima di inserirle nel Canone, si impelagano in discussioni accesissime che possono durare decenni: al lettore che si affida a loro per sapere se il libro che sta leggendo è letteratura solitamente non basta la regolare vita terrena per ottenere risposta. Il Canone, poi, ha due difetti che lo rendono alquanto inaffidabile come risposta alla fatidica domanda: variabilità e strettezza. Non sto a sviluppare il concetto, tanto ci siamo capiti.

Aria di famiglia
Per rimediare all’angustia del Canone esiste una risposta che si potrebbe definire canone lasco o canone derivativo. Si tratta della famosa teoria dell’aria di famiglia: la letteratura è l’insieme dei testi che mostrano somiglianze più o meno marcate con opere che appartengono al Canone. Se leggendo, che so, il Don Chisciotte, un lettore secentesco notò una parentela con l’Orlando Furioso, e se l’Orlando Furioso all’epoca era canonico, quel lettore poteva concludere che il Don Chisciotte era letteratura proprio per via di quell’affinità.

Rispetto al Canone il metodo dell’aria di famiglia è più flessibile, più immediato e meno ristretto, e ha inoltre il vantaggio, diciamo democratico, di dare anche al lettore comune — cioè quello che ignora la differenza fra gliommero e frottola e che, per via di quel grammo di protervia che sempre si accompagna all’ignoranza, la ritiene irrilevante — la possibilità di stabilire per proprio conto che cos’è la letteratura.

A contrappeso di questi vantaggi si pone un aumento incontrollabile della variabilità, perché questo metodo è fortemente influenzato dal gusto di ciascun lettore, una faccenda sulla quale, come si sa, ogni obiezione è illecita. Ogni lettore troverà in un libro le somiglianze che il proprio gusto e le proprie letture canoniche pregresse gli suggeriscono, con esiti spesso discutibili: se il lettore secentesco di prima avesse letto e apprezzato, poniamo, l’Amadigi di Gaula, e avesse trovato il Don Chisciotte molto dissimile dal modello canonico, avrebbe potuto concludere che il Don Chisciotte andava bene per accendere il camino o per incartare il pesce, altro che letteratura.

Due risposte recenti
A dispetto di questi problemi, sembra che il rilassamento del concetto di canone stia guadagnando terreno presso chi si occupa di roba scritta a livello professionale. A titolo dimostrativo riporto due opinioni autorevoli. La prima, pur priva di supporto bibliografico, è reperibile in rete (per esempio qui):

La letteratura è qualcosa di scritto. [Giulio Mozzi]

La seconda si trova a pagina 26 del libro Il limbo delle fantasticazioni, Quodlibet 2010:

Se potessi legiferare, decreterei che la questione dell’arte sia d’ora in poi trascurata, e che la cosiddetta letteratura coi suoi generi (poesia, romanzo, eccetera), le sue figure (l’autore, l’opera, l’Opera Omnia), con la sua organizzazione di giudici, la sua rete di promozione, le sue teorie (e la domanda tipica: che cos’è la letteratura?), decreterei che la letteratura sia un caso particolare, piccolo (anche se supponente e aggressivo), del più vasto, vastissimo e libero limbo delle fantasticazioni. Dico limbo perché, come si sa, nel limbo sostavano i non battezzati; e dico fantasticazioni per sottrarre le scritture all’apparato ministeriale della letteratura. [Ermanno Cavazzoni]

Dalla letteratura alla scrittura
In entrambe le opinioni sopra citate si può notare uno slittamento del punto di vista dalla letteratura alla scrittura. Affermando che la letteratura è qualcosa di scritto, il Mozzi sfiora la tautologia e dichiara implicitamente che ciò che interessa al lettore (e selezionatore di testi da destinare alla pubblicazione, nel suo caso) non è tanto la rispondenza di un testo a un’idea data di letteratura, ma solo il fatto che quel testo è stato scritto. La letteratura, in altre parole, resta al livello di pura potenzialità e non influisce minimamente sul giudizio del lettore o sui suoi criteri di scelta: altri giudicheranno; io, nel frattempo, leggo comunque.

Anche la posizione del Cavazzoni, per quanto più articolata, mette l’accento sulla scrittura e relega la letteratura a caso particolare di un più vasto insieme di testi scritti, attribuendole perfino un ruolo burocratico assai poco lusinghiero: qui la letteratura è qualcosa a mezza strada fra un eccesso tassonomico e un vero e proprio fardello, qualcosa di cui ci si può comunque liberare senza troppe precauzioni, quando si tratta di scegliere cosa leggere.

Seguendo una o l’altra delle succitate autorità, insomma, il lettore che incautamente si trovasse a chiedersi “il libro che sto leggendo è letteratura?”, potrebbe rispondersi senza alcun timore “ecchissenefrega”. E il fatto che il lettore si faccia la domanda e si dia la risposta è un esito di quel movimento di allargamento e rilassamento del canone che abbiamo visto fin qui.

In conclusione
In conclusione, se mai un discorso qualsiasi può avere una conclusione, la domanda “Che cos’è la letteratura?” sta diventando sempre meno rilevante. A metà del secolo scorso Jean-Paul Sartre poteva intitolarci un serissimo tomo di seicento pagine facendo la sua porca figura da intellettuale raffinato. Oggi un docente di Estetica e Retorica (mica cotiche) come Ermanno Cavazzoni può liquidarla con divertito fastidio (e addirittura fra parentesi) e un esponente di rilievo dell’editoria nazionale come Giulio Mozzi può formulare una risposta educatamente elusiva.

Cosa è successo in questi ultimi sessant’anni, per rendere possibile cotanta caduta? Per rispondere ci vorrebbe un pippone a parte. Magari un’altra volta.

Dieci domande per un nuovo decennio

Thursday, December 31st, 2009

Un nuovo decennio incombe e la domanda aleggia: cosa resterà degli anni zero del ventunesimo secolo? La paura ingiustificata per il millenium bug? Il crollo delle Twin Towers? Le guerre più o meno telegeniche? Lo tsunami? Il terremoto di Bam? Quello dell’Aquila? Il boom economico di Cina e India? L’iPod? La Wii? Il primo presidente nero degli USA? Le scarpe lanciate contro Bush? Il duomo di Milano contro Berlusconi? Il global warming? La morte di Pavarotti? La sopravvivenza di Andreotti? La dipartita di Michael Jackson? I blog? I social network? Le poesie di Sandro Bondi?

Mah, boh, chi può dirlo.

Quel che resta, come tutti sanno, non dipende da ciò che è stato, ma da ciò che sarà: ricorderemo di questi anni le cose che tra dieci, venti o cent’anni i casi della vita e lo stato dell’umano genere renderanno di volta in volta degne di memoria. Porsi adesso la fatidica domanda è un esercizio non privo di stoltezza, diciamo pure un atto di demenza cosciente, un po’ come gli oroscopi.

Meglio comparare che divinare. Cinquant’anni fa, da queste parti, la simpatica specie di scimmie autocoscienti a cui appartengo era certamente messa peggio di oggi: c’era a mala pena il telefono, figuriamoci il cellulare. Non c’erano personal computer, non c’era internet e i pannelli fotovoltaici erano esperimenti spaziali. L’istruzione era un privilegio di pochi, la mentalità era chiusa e bigotta, la circolazione delle idee e delle persone era limitata.

E però dubito che il 31 dicembre 1959 qualcuno si chiedesse cosa sarebbe restato di quegli anni cinquanta. Ci si chiedeva casomai come sarebbero stati i dieci anni successivi. Domanda non meno stupida dell’altra, beninteso, ma che almeno indica un ottimismo di fondo, la voglia di guardare avanti, una discreta dose di fiducia nel futuro.

Per esempio, l’Unità del primo gennaio 1960 pubblicava dieci domande rivolte a un campione rappresentativo di cittadini sovietici. (Diversamente dalle famose dieci domande di Repubblica a Berlusconi, nella stessa pagina erano pubblicate anche le risposte, che però, va detto, han tutta l’aria di essere inventate di sana pianta). Eccole:

1) Cosa intendete con la parola comunismo?
2) Pensate che nei prossimi 10 anni avremo la pace o la guerra?
3) Cosa pensate di Stalin?
4) Cosa pensate di Krusciov?
5) Oggi in URSS si sta meglio che nel passato?
6) Pensate che l’URSS raggiunga l’America nel 1970?
7) Avete mai conosciuto americani?
8) Cosa vi manca e vorreste ottenere subito?
9) Che ne pensate della religione?
10) Che cosa intendete per cultura?

Lascio queste domande di cinquant’anni fa a tutti i lettori di passaggio assieme agli auguri di un ottimo 2010 e di sfolgoranti anni dieci.