Una delle questioni all’ordine del giorno della movimentata scena letteraria contemporanea è quella dei padri: esistono ancora o sono stati finalmente uccisi tutti? I poeti e i prosatori moderni riconoscono qualche loro maggiore o si considerano tutti figli di nessuno? Concetti come tradizione letteraria o canone hanno ancora qualche significato? E via questionando.
Il padre è figura notoriamente ambigua: amorevole, ma severo; giusto, ma quasi inaccessibile; autorevole, ma incline all’autoritarismo. Modello da imitare per prendere coscienza di sé, ma anche da abbattere per affermarsi pienamente. Quel che è certo è che il padre esiste solo quando un figlio lo riconosce come tale. E solitamente accade che il momento del riconoscimento coincide con quello del distacco e del simbolico parricidio: riconoscere il padre serve unicamente a disfarsene, salvo poi tesserne le lodi in un dignitoso epitaffio.
Su questo simpatico tema d’amore e morte ti invito a leggere attentamente l’articolo di Cesare Cases, che riporto qui di seguito. Scritto quasi trent’anni fa, mantiene una sua fresca attualità. Il sottile sarcasmo sulla paternità riconosciuta reciprocamente, e reciprocamente rifiutata, dal romanziere al critico e viceversa sembra il rovescio esatto di ciò che accade oggi, un tempo in cui abbondano i padri autoproclamati mentre nessuno sembra disposto a giocare il ruolo del figlio. La chiusa mordace e un poco fosca ha qualcosa di sinistramente profetico.
Padre nostro, di Cesare Cases
Anni fa Alexander Mitscherlich scrisse un libro sulla Società senza padri. L’assenza dei padri ingenera la nostalgia dei padri: Franco Fornari ha spiegato in questo modo il successo del Pci. Anche il letterato e il critico cercano il padre. Per esempio Natalia Ginzburg («Corriere della sera», 25 marzo) va a sentire un dibattito sulla critica militante, al solito è molto disorientata e non è nemmeno sicura che uno degli oratori, Walter Pedullà, che ha una faccia larga e buona, sia davvero buono, e che una donna del pubblico che ha una faccia molto simpatica sia davvero simpatica e non invece detestabile. Quel che capisce è che la sala è satura di un odio inespresso che non si sa donde venga. Allora manda al diavolo il dibattito e pensa al critico come lo vorrebbe lei: uno che, a differenza di lei, sa tutto e non sbaglia mai, scevera il vero dal falso, il buono dal cattivo, il simpatico dal detestabile. Dovrebbe essere «tranquillo, incrollabile come una roccia». «Su di noi, popolo di orfani, risplenderebbe la sua pace come un’alta paternità».
Replica Pietro Citati sullo stesso giornale (2 aprile). Natalia, inutile dirlo, ha sbagliato anche questa volta immaginando che il critico non sbagli. «Come può essere un padre se è soltanto l’ultimo dei figli? Come può giudicare se è la persona più incerta?» È il romanziere che sa tutto, scopre l’ordine nel disordine, insinua in noi «un senso profondo di tranquillità e di pace», mentre il critico non cava un ragno dal buco. Se non che oggi i romanzieri non si vedono, forse sono sepolti in qualche caverna per ritemprare nel sonno le energie perdute, «e ci hanno lasciati orfani, senza sentimenti in cuore, senza idee da difendere, senza parole da pronunciare».
Un disastro. Due orfanelli si incontrano cercando il padre. C’è dapprima uno scambio di cortesie cinesi perché ognuno pretende di essere il figlio dell’altro e non il padre, ma l’essenziale è che il padre l’abbiano trovato tutti e due. Ci aspettiamo che si abbraccino gemendo contemporaneamente: «Padre mio!»
Invece no: Citati non può essere padre di Natalia perché non è una roccia e Natalia non può essere padre di Citati perché non vive nelle caverne. Vivono entrambi sull’asfalto dei mercati e cercano un padre ideale, poiché sono orfani solo in quanto hanno rinnegato il vero padre i noi tutti (e dell’odio che circonda e vanifica i dibattiti sulla critica militante): l’industria culturale. Come molti padri che seminano odio anche questo è in sè indulgente e onnicomprensivo e non esita a divulgare sul «Corriere» il loro drammatico incontro. Dopo la delusione del quale i due orfanelli, navi che si sono incrociate nella notte, torneranno a scrutare invano, ognuno per conto suo, sulle rocce e nelle caverne. E a scrivere, a scrivere per dimostrare che sono proprio orfani, senza sentimenti in cuore, idee da difendere, parole da pronunciare.
(Articolo pubblicato su L’Espresso, 25 aprile 1976, ora in Cesare Cases, Il boom di Roscellino, Einaudi 1990)
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