Le patrie lettere sono sempre state un gigantesco campo di battaglia percorso da avversi schieramenti. In campo letterario la passione per le diatribe e le polemiche è una costante apparentemente inesauribile. Tuttavia – come già dissi altrove, anche se non ricordo dove – le diatribe contemporanee si distinguono dalle antiche specialmente in due aspetti:
1. La durata, assai inferiore nelle moderne che nelle antiche.
2. L’argomento. E qui il discorso si fa lungo (eh eh eh!)
Orbene, analizziamo tritamente questo secondo punto. In antico si diatribeggiava attorno ad aspetti per così dire qualitativi della letteratura. Ci si chiedeva se le regole aristoteliche sull’unità d’azione tempo e luogo potessero essere violate; se la lingua volgare potesse sostituire la curiale; se l’autore dovesse intervenire o meno a spiegare o a commentare l’azione; cose così.
Questo tipo di diatribe attraversò intrepido i secoli fino a tempi relativamente recenti. I manifesti delle avanguardie storiche, per esempio, polemizzavano contro aspetti qualitativi dei canoni espressivi correnti, giudicati di volta in volta sclerotizzati, borghesi o passatisti. I futuristi reclamavano la caduta delle barriere sintattiche e retoriche, i surrealisti quella fra realtà e sogno. A prescindere dalle richieste, comunque, la polemica verteva sempre su aspetti silistici o di poetica.
Questo modo di dare battaglia ha funzionato a grandi linee fino ai primi anni cinquanta del secolo scorso, all’epoca del neorealismo. Poi qualcosa si è rotto. Già la neoavanguardia, pur non abbandonando del tutto le diatribe all’antica, spese gran parte delle sue munizioni polemiche su altri temi, come il rapporto fra arte e politica o l’assalto ai luoghi del potere culturale.
Attorno agli anni ottanta del secondo millennio, poi, venne in voga la contrapposizione generazionale fra scrittori vecchi e scrittori giovani, che è quanto di più assurdo si possa pensare in campo letterario dato che, come tutti sanno, gli scrittori giovani prima o poi invecchiano. Tuttavia resisteva anche allora qualche timido accenno alla qualità dello scrivere: i vecchi scrivevano roba lunga, i giovani avrebbero risposto col minimalismo; i vecchi indugiavano sui massimi sistemi, i giovani si sarebbero limitati a gironzolare attorno al proprio ombelico, e così via.
Ma erano questioni marginali già allora. Il fronte diatribico si era ormai spostato sul piano politico e anche il campo di battaglia stava mutando. Un tempo in prima linea c’erano artisti e studiosi, quelli che oggi chiamiamo più prosaicamente scrittori e critici. Ma lentamente e quasi insensibilmente questi guerrieri – che sebbene armati e addestrati a dovere erano pur sempre semplici esseri umani – scivolarono nelle retrovie, sostituiti sulla linea di fuoco da macchine sempre più perfezionate e potenti e, soprattutto, sempre più indipendenti dal controllo umano.
Come nelle trame della fantascienza di trenta o quarant’anni fa, le macchine arrivarono a sostituire gli uomini. Cominciarono dalla truppa, ma risalirono rapidamente la catena di comando fino a occupare gli stati maggiori. Fu allora che le diatribe letterarie di vecchio stampo scomparvero completamente, sostituite da quelle che ancora oggi vanno per la maggiore. Non si discute più di stili e poetiche, linguaggio e forma, ma principalmente di numeri. Gli argomenti qualitativi sono stati soppiantati da quelli quantitativi.
Ma come son fatte queste macchine da guerra? E in che modo hanno modificato la natura delle diatribe letterarie? E che c’entra il lettore in tutto questo? Ih! quante domande! Quanta fretta! Ci sarà modo di riparlarne, suvvia, con tutta la necessaria lentezza.