La pizzuteide si arricchisce oggi di un duplice contributo di Felice Paniconi – da anni studioso appassionato di Antonio Pizzuto: una poesia e una riflessione sul romanzo Sul ponte di Avignone.
Fermare il fuoco
Perché hai scritto Spegnere le caldaie
fermare della nave il fuoco. Mattutino artefice
forse non volevi dirlo ma avvertivi la fine
del viaggio o non trovavi
da traghettare intonse parole.
Parole reali di distanze,
serenatrici alleate, senza scorza
per altezze e bianca scia.
È il porto il fine della nave
e non può avere rimpianti
l’inesausto esploratore.
Delle albe autore senza indugi
obliare non volevi il sole
della Trinacria o dell’alfabetica Panormo.
Vedevi sbarrate porte, strade chiuse
mattonelle venate dalle sotterranee erbe,
sapevi solo, e con certezza,
che non approda la vita
perché un porto non è un porto
ed è sempre pronto per salpare.
Sul ponte di Avignone
(Intervento per la presentazione del libro, Roma 2004)
Vorrei iniziare a parlare di questo libro partendo dal primo rigo della prima pagina che Pizzuto ha scritto e che ha, nascostamente, come una funzione di introduzione o di abbrivio per, se mi si passa la metafora, per questa nave che aveva ed ha le caldaie a posto e ben salde. In questa paginetta, futura pagella c’è tutto, c’è Pizzuto. Udii la prima volta quel canto durante le feste pasquali… è un canto, ma poi dice quasi una canzonetta, una cosa da nulla ma che per me ha avuto forti richiami e ricordi. Canto. Poesia, alta narrazione. La poesia è canto, come il narrare, come l’Odissea. Una canzonetta che però non ha uno svolgimento lineare, a note legate, ma quale vita ha uno svolgimento lineare? Ma c’era, continua lo scrittore panormitano, c’era una direzione, verso la morte. Una canzonetta che era irrequietezza, fonte misteriosa, stupore di vivere in coesistenza, un altro io inerte ed estraneo. Si sta andando allora verso la psicanalisi, verso Svevo! E no, caro lettore – Scrivo – scrive Pizzuto – per un impulso così complicato che rinuncio ad esaminarlo. Anzi scrivo perché altri non legga. Pel caso che queste pagine dovessero cadere un giorno sotto sguardi estranei farò il seguente avvertimento: Non badare troppo ai fatti in ciò che espongo, mai vi fu sì poca voglia di raccontare! Tuttavia, inatteso lettore per cui non scrivo, tu non mi scorderai facilmente.
Ecco siamo sul punto più alto o più profondo. Si sa che la confessione è pace, ma è anche fatto, fatti, non vendita di indulgenza, ma Pizzuto vuole andare oltre. Questa mi appare (inatteso lettore non mi scorderai facilmente) questa frase mi appare la rete del dubbio gettata nelle pagine perché poi il lettore la segue, inseguendo la propria fine, e vi finirà dentro. Sappiamo tutti, infatti, che nell’oceano della filosofia si pesca meglio con la rete del dubbio. Ed il lettore si chiede sempre: ma io lo scorderò? E intanto lo pensa ed il pensiero diventa azione, pagina dopo pagina, diventa amore. Pizzuto queste cose le sa bene, non usa il verbo dimenticare, della mente, asfittico, usa il verbo scordare, non più nel cuore. Ma io ti avevo avvertito, sembra dire poi. Ma si sa, pagina dopo pagina, in un serrato dialogo con il lettore, Pizzuto prepara e sviluppa il problema (il problema dell’inizio e della fine, dell’univoca direzione, di un’educazione sentimentale, di un determinismo dell’ultimo). Pizzuto prepara e sviluppa il problema in un incalzante susseguirsi di spunti e controspunti, intuizioni e deduzioni, analisi, riflessioni e commissioni che impegnano e deliziano il lettore. Mi sembra di ritornare al mondo greco ad Edipo che interroga l’oracolo, ottiene la risposta e vi muore dentro.
Ecco, come dice Pizzuto e ci ricorda Pedullà A è A, se A è A e finché A è A. Ecco il problema del narrare, ma anche del vivere è questo, è il tempo. Ma senza scomodare i grandi pensatori, filosofi, il tempo è memoria. Questo ce lo diceva anche Proust. Ma proviamo a pensare che la memoria è il nostro pensiero, la nostra ombra. Si può narrare allora con la luce o con l’ombra. Pensiamo ai grandi pittori, pensiamo a Caravaggio. Pizzuto non vuol rimanere nell’ombra ma spezza la luce in un’operazione che potremo definire cubista della scrittura. È l’ombra che mette in risalto la luce, l’ombra è la dialettica della luce. C’è un bel titolo di margherite Yourcenar, l’autrice delle Memorie di Adriano, ebbene il titolo è Opera al nero: scomposizione della materia aggiungerei io. È ovvio che luce ed ombra non sono qui intese come positività e negatività, come suggerisce una psicologia spicciola, qui siamo di fronte ad una rivoluzione copernicana. Dare centralità al sole togliendola alla terra ed alla terra torna l’ombra. Ombra e luce: sintassi narrativa. Ma torniamo al dialogo con il lettore. Il primo quaderno si chiude con una confessione: Conobbi il timore di tradirmi. Forse per la prima volta ebbi l’animo inquieto. Secondo quaderno: Ebbene, continuerò. Sarà detto tutto; il bisogno di fissare narrando, vince sul sentimento che mi ha tenuto una estate intera indeciso. Perché si narra E perché si ascolta? Qui il lettore ingenuo si aspetta una risposta, per chiudere magari poi il libro, oppure si aspetta un mise en abîme, un fatto minuto ma rivelatore di un tutto. Ecco quando sembra che Pizzuto stia per accendere la luce ti accende in realtà il buio, ti getta la rete del dubbio.
Ho cercato, e cosi cerco di chiudere, ho cercato un discorso, che per forza di cose si presenta qui, nel buio o dietro una rete o una canzonetta semplice che per un qualche cosa di inspiegabile assume un significato primo, pregnante, un canto orfico vibrante e vertiginoso. Pizzuto alimenta una convinzione preziosa in tempi duri e di bisogno come i nostri: tutto è banale, se l’universo non si impegna in un’avventura metafisica, se non c’è una tensione metafisica nella nostra vita.
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Daccordo, ma qui breve analisi, stop. Pare che le pillole, queste pillole pro-Pizzuto, siano echi di -altri-. Questi “altri” trovano e scavano solo silenzi. Ho detto daccordo, (chi sono io? Un semplice lettore.). Ho già detto “Qui”, nei miei inutili commenti, che Pizzuto era un poeta e che bisognava ascoltare la sua voce, e che non ci era altro, non ci abbisognava altro; nemmeno del mio ridicolo e momentaneo protagonismo da lettore. La catastrofe letteraria è nel mondo che è descritto al contrario: troppa presunzione e troppo dilentantismo mascherato. E’ un gioco alla rotondità, ai sottointesi, al gusto e al buon gusto, alla mistificazione della verità. Giammai si parli di verità… mentre si parla si sta già mistificando, (materia questa scivolosa, accellero un pò ora) così entra a salvarci la narrazione di Pizzuto: narrazione illuminata dal faro-Pizzuto che è anche miracolosamente capitano, conduttore; giusto capitano che conduce il lettore… (si parla troppo della luce, mai del capitano e dove conduce.. mai…) con la sua luce trova le giuste e terribili proporzioni. Per me sono terribili per il seguente motivo: analisi conscia, subconscia, proiezione del primo stadio di subconscio, racconto della mnesica (sostenuta e sostenibile).Quello che è Pasqua, le voci pasquali sono luce (mnesica) della nascita, così “paura della morte” trasformata in verità cioè in amore per la vita perchè letteralmente ostetricamente è nascita, venire verso la luce (quindi il lettore sente amore e… “tu non mi scorderai facilmente” il lettore s’accorge istintivamente ed ha sensazione di protezione materna, ritorna verso una ipotetica madre una madre che è mnesica ed è sottratta al credo di paura e sensazione di morte). Prego non ridurre a psicologia da passeggio, sono “terribili” perchè si frappone a un concetto semplice: Pizzuto è conduttore da errate visione passate verso la verità con un concetto che si apprende direttamente per esperienza diretta,(leggendo, semplicemente leggendo) appunto mnesica verità ritrovata. Non teorizzo nulla, e so che mode stanno divagando oltre il buon gusto, però in Pizzuto il momento della verità e un pendolo costante e continuamente frapposto ad un concetto che noi credevamo vero, lui rivolta il concetto di morte e con lo stesso sentimento conduce alla verità una verità nascosta e celata da un confine di stupidità senza ragione. (io parlo di mancata ragione, di immatura e infantile razionalità)
P.Q.M.
Io non voglio il dizionario-pizzutiano. Il dire è una lettura difficile.. bisogna essere preparati,… ecc ecc, Non voglio che si parli di metafisica, ma di ragione. Non si deve essere pronti alla tensione metafisica ma alla ragione. Si può condividere la verità, condividendo un percorso di ragione, ed in questo Pizzuto ci apre una strada oltre la semplice analisi psicologica, è più ragione e razionalità ed è (paradosso /deformazione professionale) “denuncia” verso la cecità delle ovvietà. Provo rancore e amarezza quando uomini letteralmente dotati chiudono il loro destino di uomini dietro preconcetti, supposizione e cialtronerie, Pizzuto sottolinea e denuncia questi faciloni. (una denuncia innoqua. Stolto però chi non capisce. Sono esclusi i presenti) Chiudo questo mio delirio da dopo pranzo, con i versi “illuminanti” di ZabolockiJ del 1931:
Chi ha visto brillare le stelle/chi ha potuto parlare con le piante/chi ha capito il terribile insieme dei pensieri/non ha paura della morte, non ha paura della terra/…../Passano i secoli, passano gli anni/ma tutto ciò che vive non è un sogno:/ vive e va al di là/ della legge della verità di ieri.
in questo periodo sono così rallentato che la mia ombra mi sorpassa di gran lunga. saluti
mel