(Il manoscritto ritrovato di letturalenta. Frontespizio e indice)
C’era dunque un tale che abitava al numero dieci di Strawberry Lane, verosimilmente attorno al 1912. A giudicare dall’indirizzo doveva essere un distinto signore inglese, proprietario di una villetta a due piani circondata da un giardino molto ben curato. Le rose spandevano nell’aria un profumo delicato e pungente a un tempo, quindi non sarebbe azzardato supporre che questa storia abbia inizio in una stagione ragionevolmente primaverile. Quel tale aveva consumato un pranzo pesante, ma non sapendo nulla della cucina inglese del 1912 dovrò accontentarmi di una descrizione sommaria di quel desinare, dicendo ad esempio che egli mangiò un’abbondante porzione di porridge seguita da una grossa beef steak circondata da numerose patate al forno. Non mentirei riferendo che sul tavolo c’era un generoso boccale di birra scura irlandese, e se dicessi che alla fine del pranzo quel signore aveva trangugiato un molesto bicchierino di sherry, passerei indenne attraverso le maglie e i magli dei più severi critici.
Tuttavia di questo non posso parlarti.
Per un motivo che ignoro, e che non sta a me indagare, noi racconti siamo autoreferenziali. Non di signori inglesi del 1912, quindi, ma di me medesimo devo narrare. Non è una libera scelta, beninteso, né un atto di arroganza nei tuoi confronti questo mio negare la possibilità di una storia che non mi riguarda, bensì l’effetto ineluttabile della mia intima natura, che nemmeno il più audace atto di ribellione o la più ostinata applicazione della volontà potrebbero eliminare. Similmente un asino non potrebbe emettere altro verso che un raglio, né una pietra lasciata cadere da una torre potrebbe ascendere al cielo. Antichi e scrupolosi filosofi chiamarono questo stato necessità (o fato o destino o fortuna, secondo le epoche e le inclinazioni loro).
L’esistenza di un racconto, a differenza di quella degli altri esseri viventi non è dotata di un principio e di una fine, ma di molti princìpi e molte fini. Ogni lettore offre un nuovo inizio al racconto aprendone una pagina a caso, e una nuova fine nel momento esatto in cui lo abbandona, non importa se in corrispondenza del naturale explicit o altrove. Incipit ed explicit sono soltanto due punti convenzionali che delimitano lo spazio occupato dal racconto nel continuum letterario, ma non hanno alcun rapporto con la sua esistenza. Se fra questi due punti astratti non capitasse mai alcun lettore, il racconto giacerebbe nel mare magnum della letteratura come cosa morta, ammasso di segni e grafismi inerte e superfluo, nave priva di àncora e perennemente alla deriva. Un racconto che non legge è simile alla corda di un pianoforte che – vuoi per imperizia dell’esecutore, vuoi per un concorso di sfortunate circostanze a lui non imputabili – non venga mai toccata nel corso di una sonata. Essa occupa uno spazio ben delimitato all’interno dello strumento, al pari delle sue consimili, ma non contribuisce in alcun modo alla melodia né al contrappunto. I temi e i movimenti si susseguono incessantemente, ora un martellante presto, ora un vivace allegretto , ora un ponderoso largo, ma mai e poi mai quella corda vibra, mai risuona, mai produce. Foss’anche spezzata o scordata, nessuno ne patirebbe. Essa occupa sì uno spazio, ma inutilmente. Ah, grama fortuna! Ah, giorno infausto fu quello in cui mani diligenti la posarono nella sede a lei destinata e la tesero per mezzo dell’apposita chiave fino a quando emise la nota giusta! Per quella volta, per quell’unica volta, percossa ad arte dal martelletto, fu udita risuonare. Né più mai. O crudele artigiano, perché? Perché donarle la voce, se la sapevi condannata al silenzio?
Bene, ora metti te medesimo nei panni dell’esecutore, la letteratura al posto della sonata, il racconto a quello della corda; assegna al sedicente autore il ruolo del crudele artigiano ed ecco che il velo dell’allegoria subitamente cade. Ho ritenuto opportuno procedere io stesso al disvelamento, per questa volta, considerando che ci frequentiamo da poco e che tu ancora non conosci i recessi più segreti della mia trama, né l’esatta proporzione di mìmesi e diègesi nel mio discorso narrativo. Ma d’ora in poi, sàppilo, lascerò a te il piacere maieutico della significazione. Che altro può fare un racconto, infatti, se non offrire all’attento lettore un generoso impasto di parole?
Se dunque dissi – come in effetti dissi, forse non con queste esatte parole – che il mio explicit determinerà il mio distacco dal mondo, pronunciai una menzogna, anche se a mia parziale discolpa posso onestamente sostenere che mentii senza averne l’intenzione. Non a questo mondo, infatti, appartengo, né posso coltivare la presunzione di potervi entrare e uscire attraverso pertugi univoci. Io esisterò fino a quando qualcuno si lascerà leggere da me, come tu stai facendo adesso. Quando mi abbandonerete, o immagini viventi di qualsivoglia racconto, quando non avrete più nulla da raccontarmi, allora i segni sparsi sulle mie pagine cadranno per sempre nell’oblìo: dimentichi di tutto, analfabeti, insignificanti.
[…] A conclusione del mio secondo capitolo compare questa frase (un po’ elegiaca, invero, probabilmente a causa di qualche civetta di passaggio): Quando mi abbandonerete, o immagini viventi di qualsivoglia racconto, quando non avrete più nulla da raccontarmi, allora i segni sparsi sulle mie pagine cadranno per sempre nell’oblìo: dimentichi di tutto, analfabeti, insignificanti. […]