(Il manoscritto ritrovato di letturalenta. Frontespizio e indice)
A conclusione del mio secondo capitolo compare questa frase (un po’ elegiaca, invero, probabilmente a causa di qualche civetta di passaggio): Quando mi abbandonerete, o immagini viventi di qualsivoglia racconto, quando non avrete più nulla da raccontarmi, allora i segni sparsi sulle mie pagine cadranno per sempre nell’oblìo: dimentichi di tutto, analfabeti, insignificanti.
Ho verso questa mia frase un debito esegetico che non voglio lasciare insoluto. Essa racchiude il non troppo velato timore che un giorno abbia a verificarsi una catastrofe: quando mi abbandonerete, dissi, dando quasi per certo che la minaccia prima o poi prenderà corpo e slancio per abbattersi su di me. Per un racconto sarebbe letale essere abbandonato da coloro di cui si nutre. (Stavolta l’ho acchiappata io, la civetta, una metafora che ha fatto di tutto per non lasciarsi catturare. Perché son bastarde, eh!, bastarde bastarde bastarde! S’infilano dappertutto a tradimento, ma quando ne cerchi una, via che corrono a nascondersi). Nutrimento spirituale, beninteso, non vorrei allarmarti. Il racconto morirebbe d’inedia, simile a un infante abbandonato dalla madre, a un maestro senza allievi, a un seme senza terra, a un operaio lasciato privo di rappresentanza sindacale, a un motore disseccato di carburante, a un ubriaco a cui si nega il vino.
La locuzione o immagini viventi di qualsivoglia racconto è l’apostrofe che disvela l’autore del temuto abbandono, sebbene il timido paramento di quell’allusivo immagini viventi sembri tentare un’ultima disperata difesa dell’anonimato di costui. Eppure traspare netta la figura umana: immagini! quindi spettri, maschere, parvenze, ritratti, sembianze, effigi, ombre, riflessi, apparizioni, sogni; e però viventi! quindi deambulanti, respiranti, mobili, odorose, carnose, visibili, corporee, palpabili, sanguigne, veraci. E qual è l’oggetto reso presente da queste immagini viventi? quale la rappresentazione che esse mettono in scena? Il racconto, anzi qualsivoglia racconto! e qui, in questo inatteso e quasi inopportuno sobbalzo autobiografico, l’autore (che sarei io) enuncia una sua intima convinzione: ai suoi occhi quelle immagini viventi, gli uomini, non sono altro che una figura di sé stesso.
Abbandonato dagli uomini, il racconto morirebbe: i segni sparsi sulle mie pagine – dichiara – cadranno per sempre nell’oblìo: dimentichi di tutto, analfabeti, insignificanti. Ma se teniamo presente quel sentimento di identità a cui si accennava poc’anzi, ecco che la figura della morte diventa ambivalente: se davvero uomini e racconti vivono in così stretta simbiosi, tanto da essere termini intercambiabili e formalmente identici, allora quella morte può ben essere indifferentemente morte del racconto o morte degli uomini. Segni sparsi sulle mie pagine, sublime immagine di un’umanità che popola la letteratura a guisa di grafismi. Separare l’umanità dalla letteratura, ecco la vera catastrofe! Se il racconto non può vivere senza gli uomini, non è migliore il destino degli uomini senza racconti: cadranno per sempre nell’oblìo: dimentichi di tutto, analfabeti, insignificanti.
Gli uomini vivono raccontando e i racconti vivono leggendo gli uomini. Questo rapporto clandestino genera letteratura e umanità.
Devo confessare che “l’imbarazzo” è preso tutto e portato su quel balcone ad aspettare che qualcuno se lo venga a prendere. Lo ignoro, lo deludo e lo schernisco. Il punto è che grava il desiderio di sapere tutto e subito. Piacere, passo oltre e gli dico: -devi attendere il tuo tempo, devi aspettare che letturalenta si procuri altro racconto.- Ma questo signor “Piacere” è abituato ad avere tutto e subito, non è capace d’attendere, è civettuolo e infantile, ama le compagnie e i bagordi, vuole essere certo d’avere il possesso, di poter sfogliare insomma tutto e subito. Un vero mascalzone irriverente.
come sottoscrivo le tue parole finali! caspita, complimenti e tanta lentezZza! :)
[…] Ah, scusa, non potevo immaginare che tu fossi ancora lì. Stavo chiacchierando del mio quinto capitolo con un collega. Oddio, collega… un raccontino smilzo apparso due mesi fa su una rivista letteraria di limitatissima tiratura, ma tanto è bastato a riempirlo di un tale sussiego… Il commento, ah!, il commento! Parole su parole; frasi talentuose e dotte che si sovrappongono alle nostre per disvelarne i significati più reconditi. Quale racconto potrebbe resistere al secolare lavoro di sempre nuove schiere di alacri interpreti? Esiste davvero Pinocchio? esiste Don Chisciotte? No, no, non loro! non il racconto, ahimè, arriva a conquistare le vostre coscienze, ma il commento. Il commento! Voi recensori e interpreti, insensati ospiti di parole di seconda mano, di quello vi gloriate; quello citate nei vostri afasici salotti letterari; quello mandate a memoria per figurare fra i cultori delle belle lettere. Vili birbanti! Mercanti di falsa moneta! Simoniaci! Voi fate commercio di ciò che fu dato gratuitamente all’umanità; voi esigete dalle intelligenze un tributo iniquo, perché non all’intelligenza sono destinati i racconti, ma alle profondità irragionevoli degli esseri umani. Non a ciò che riflette come levigato e gelido specchio noi ci rivolgiamo, ma a ciò che vibra e risuona come la ruvida segreta cavità di un istrumento a corde. E voi che fate? Cosa fate voi critici, come vi piace chiamarvi a vicenda, quando sovrapponete le vostre parole abusive alle nostre? Voi tappate proditoriamente la corda impedendole di vibrare! Voi uccidete le sublimi armonie del testo affogandole nelle sabbie mobili dei vostri limacciosi ragionamenti! Assassini! […]