(Il manoscritto ritrovato di letturalenta. Frontespizio e indice)
Storia di un signore emiliano che volò a cent’anni
IV
Quando siamo saliti in treno mi è sembrato di entrare in un altro mondo, perché il gran chiasso della stazione era rimasto fuori. Avevamo uno scompartimento riservato in prima classe, sei posti a sedere occupati solo da noi tre. I sedili erano foderati di velluto e morbidi quasi come quelli del coupé, e alle pareti c’erano dei pannelli imbottiti e rivestiti di una bella stoffa chiara. La carrozza aveva una balconata aperta che faceva da corridoio e serviva anche a raggiungere il bagno, che era sistemato più in alto degli scompartimenti e per andarci si saliva una scaletta di ferro. Quando il treno si mosse la Iole gridò Evviva!, e allora ho capito che anche lei era la prima volta che viaggiava in ferrovia. Il treno secondo me andava velocissimo, molto più del tiro a quattro, ma il nonno Primo continuava a sbuffare più della locomotiva, tormentato dal ritardo che aveva sconvolto il suo programma. A ogni stazione chiedeva all’inserviente di carrozza se stavamo recuperando, ma quello, poveretto, ne sapeva meno di noi e dopo qualche fermata si rincantucciò nel suo bugigattolo per sfuggire agli interrogatori. Allora il nonno, visto che non c’era modo di capire quando saremmo arrivati, si calmò un poco e prese a raccontarci di quando era un ragazzino poco più grande di me, al tempo in cui le ferrovie cominciavano appena a costruirle, e di come suo padre avesse fatto fortuna rifornendo i cantieri di olio vino farina frutta cuoio e legname, e a sentir parlare di tutto quel ben di dio che passava di mano in mano a staia ettolitri e quintali io immaginavo i granai colossali e gli enormi magazzini che dovevano servire per contenerlo, e stanze intere adibite a forzieri per montagne di monete d’oro, fiorini, marenghi, ducati, sterline e sesterzi, anche se poi ho imparato che a quei tempi i sesterzi non si usavano più. Il nonno cambiava faccia quando parlava di soldi, proprietà e commerci, e si vedeva che era orgoglioso di essere un gran signore e di poter fare e disfare come meglio credeva.
Viaggiavamo con in finestrini mezz’aperti per il caldo, ma l’aria che entrava era rovente e odorava di vapore, di polvere e di ruggine. Quando il treno si fermava, poi, il calore si faceva quasi insopportabile, e allora la Iole spalancava tutti i vetri e apriva la porta dello scompartimento per fare un po’ di corrente. E di stazioni ce n’erano tante, non come oggi che prendi un treno e scendi quando sei arrivato senza mai fermarti. Quella volta era più il tempo che si stava fermi in stazione, per caricare acqua o aspettare una coincidenza, che il tempo che si viaggiava. Però era bello così, perché un viaggio era una giornata a sé, anche se durava solo due o tre ore, e sul treno potevi mangiare, dormire, leggere e chiacchierare, ma per quanto tu facessi pareva che il tempo si fermasse a ogni stazione, e a ogni fischio del capotreno era come ricominciare daccapo.
E così, a forza di ripartire, siamo arrivati a Brescia.
V
Nel tardo pomeriggio, dopo aver pranzato ed esserci un poco riposati in albergo, siamo andati in giro per la città. Il nonno teneva la Iole a braccetto, e lei mi teneva per mano. Gli uomini che ci passavano accanto si giravano sempre a guardarla, e lei lo sapeva, perché teneva gli occhi bassi, guardava me e sorrideva con un sorriso strano, mezzo birichino e mezzo timido. Poi ci siamo fermati in un caffè all’aperto, e in un tavolino vicino al nostro c’erano Franz, Otto e Max, che parlavano in tedesco. Otto era un gigante con un vocione tremendo, ma aveva sempre un bel sorriso stampato sulla faccia, e a me sembrava buono. Max, suo fratello, era piccolo e grassoccio, con una testa che mi pareva enorme, e una voce tranquilla e sottile. Poi c’era Franz. Alto, magro, con le guance appuntite e gli occhi scavati, neri, tristi. Rideva spesso anche lui. Non come Otto, che quando rideva tremavano i bicchieri sui tavoli, ma come se si vergognasse della sua allegria. Naturalmente io non capivo niente di quello che dicevano, ma sembravano contenti, e io stavo bene lì, mi sentivo tranquillo.
Loro non si erano accorti di noi, anche perché Otto ci dava le spalle, e copriva la visuale agli altri due. A un certo punto, però, il nonno Primo, che parlava benissimo il tedesco per via di certi suoi commerci con le ferrovie austriache, si inserì nella conversazione con una battuta che fece ridere tantissimo Otto, tanto da farlo alzare per stringere la mano al nonno. Tu hai capito perfettamente, disse in un discreto italiano, e scoppiò di nuovo a ridere. Anch’io ho riso, perché mi piaceva la risata di Otto. Dopo le presentazioni gli uomini si sono messi a chiacchierare tutti assieme in tedesco, e ogni tanto il nonno ragguagliava me e la Iole, che non capivamo niente. Venivano da Praga per vedere le gare degli aeroplani a Montichiari, il giorno dopo, e poi sarebbero andati per qualche tempo a Riva del Garda, in vacanza.
Io guardavo soprattutto Franz, che non parlava molto, anche se continuava a sorridere, e allora ho visto che lui guardava soprattutto la Iole, che non parlava affatto, ma cercava di seguire la conversazione con l’aiuto del nonno. Però ogni tanto girava gli occhi verso Franz, come se avesse capito che lui la stava studiando. Sempre più spesso si girava, e sempre più a lungo, con quello sguardo birichino e timido che le avevo visto prima, ma un po’ più timido di prima, e pareva che quei due si stessero dicendo qualcosa e che si capissero perfettamente. Allora mi sono stretto forte al braccio della Iole, e ho iniziato a frignare che ero stanco e volevo rientrare, e mentre lo dicevo mi ricordo che guardavo Franz di sbieco, e pensavo tra me e me che era un uomo cattivo. Credo che lui abbia capito, perché ha abbassato lo sguardo, l’ha alzato per un attimo su di me e poi l’ha abbassato di nuovo, come se si sentisse in colpa. Quella sera, mettendomi a letto, la Iole mi ha scherzato un po’ con il solletico, ma non rideva più come al mattino, e mi abbracciava meno stretto.