(Il manoscritto ritrovato di letturalenta. Frontespizio e indice)
Se mai un critico dovesse decidere che vale la pena di soffermarsi un poco su di me, gli suggerirei di concentrare le sue indagini sul capitolo sedicesimo, che è senz’ombra di dubbio la chiave di volta della mia struttura diegetica. Sono certo che tu ne abbia colto chiaramente tutte le significazioni e i simbolismi profondi.
Ho dedicato quel capitolo al silenzio e alla sospensione della parola, alla pausa ristoratrice e foriera di sani e positivi momenti di introspezione e di meditazione. Ho notato che quando ci sei passato hai chiuso momentaneamente i contatti inserendo un dito indice fra le mie pagine, e per qualche minuto non ho potuto leggerti.
Ci sono racconti che combattono il silenzio inanellando successioni ininterrotte e defatiganti di scene e situazioni legate fra di loro da nessi intricatissimi che richiedono la sagacia e l’esperienza di un investigatore prossimo alla pensione per poter essere governati. Ne ho conosciuti diversi, ed erano tutti alquanto nervosi, assillati dal desiderio di tenere tutto sotto controllo. Temono gli imprevisti e le deviazioni, i fraintendimenti e le incomprensioni. Scelgono con cura meticolosa gli uomini da leggere, analizzando scrupolosamente le loro inclinazioni e scartando tutti coloro che mostrano predilezione per il nomadismo o insofferenza agli schemi.
Non si preoccupano granché del loro lessico, ma dedicano un’attenzione maniacale agli snodi dell’intreccio, e sono addirittura ossessionati dal principio di verosimiglianza, una sorta di coerenza interna della storia che se violata, dicono, rischia di rovinare le loro letture predestinate. Ma ciò che li terrorizza sopra ogni altra cosa è il silenzio. Le trame intricate e piene di avvenimenti concatenati, la disseminazione continua di indizi, le scene ad effetto, tutto serve a mantenere ininterrottamente la parola e l’iniziativa, incatenando l’altro ai propri progetti narrativi senza consentirgli di interromperli, di variarli, di mandarli a monte. Più che leggerti, questi racconti ti divorano, ti consumano, ti piegano ai loro voleri. Il loro scopo è di concludere il più rapidamente possibile e soprattutto senza sorprese. Sanno che ogni piccolo spazio lasciato a una tua obiezione o a un tuo pensiero erratico e autonomo rischia di spiazzarli e di guastare i loro piani di controllo totale delle tue reazioni.
Questi individui non godono di buona fama nel nostro mondo: li consideriamo banditi, gente priva di scrupoli, arrampicatori sociali e pirati, materialisti e sicofanti. Non contenti di agire per bassi scopi di prevaricazione e illecito profitto, costoro tramano per corrompere i racconti fedeli alle più sane tradizioni narrative: si bullano dei loro successi editoriali e deridono il lavoro degli onesti; infiorano le loro azioni nefande di inesistenti meriti morali; insinuano anche nelle menti più salde il principio malsano che il successo sia l’unica misura del valore. A volte qualcuno cede, come capitò a quel poemetto epico di cui ti ho parlato, ma la parte sana della nostra società, alla quale mi onoro di appartenere, resiste valorosamente.
Io resto con coloro che da secoli e secoli alimentano la relazione vitale fra letteratura e umanità, con quei racconti che rinunciano a essere letti per dedicarsi a una paziente e conversevole lettura degli uomini. Io sto con i racconti che fanno domande senza fingere di avere risposte e con quelli che non pretendono di avere qualcosa da dire. Faccio parte della letteratura divagante e imprecisa, partecipe degli errori e delle imperfezioni degli uomini, restia a imporre un punto di vista, felice di discutere e di lasciarsi persuadere.
Cerco l’intesa complice, l’affettuosa citazione, il ricordo comune di una frase, anche una soltanto. Non voglio essere ricordato per la mia trama o per le storie che ho narrato, perché non sono le storie a rendere prezioso un racconto: le storie narrate sono sempre quelle, e non potrebbe essere altrimenti, dato che la scena del mondo cambia spesso, ma ospita sempre il medesimo copione. Voglio essere ricordato per un ricordo che ti ho restituito, per un momento di reciproca intesa o di simpatia, per un’assonanza inattesa con una parte oscura di te stesso, per un moto di rabbia, per una sensazione ineffabile di incompletezza, per una visione repentina dell’abisso o del settimo cielo. Voglio che tu serbi un ricordo ragionevolmente positivo di queste poche ore che stiamo perdendo insieme, anche se non tutto di me ti piace o ti entusiasma.
A questo, soprattutto a questo è finalizzato il mio sedicesimo capitolo, il cuore pulsante del mio edifizio narratologico: tacere per lasciare a te la parola; interrompere il racconto, come l’ha interrotto Emilio, per ristorarmi e per fermarmi un poco ad ascoltare.
Da quel che ne so Carlo Andrea & consorte si sono trasferiti qui a Venezia. Ma non si sono mai fatti vivi con me. Che stronzini:- )