(Il manoscritto ritrovato di letturalenta. Frontespizio e indice)
VI
Restava un ultimo dettaglio da sistemare, il più importante. Osservai con cura la disposizione dei volumi nella biblioteca per individuare i punti di provenienza di quelli allineati sul tavolo di consultazione. La vastità delle scaffalature mi stava dicendo con estrema chiarezza che quel lavoro avrebbe richiesto troppo tempo, quando un’intuizione salvifica ebbe la cortesia di suggerirmi la strada giusta: sul retro di copertina del primo libro trovai annotata a matita la sigla SO‑IV‑8‑27, che doveva corrispondere alla collocazione che andavo cercando. Anche gli altri libri avevano sigle simili e ipotizzai che la prima parte indicasse il punto cardinale, la seconda corrispondesse al piano della libreria partendo dal basso, la terza alla colonna partendo da sinistra, e la quarta alla posizione del libro nello scaffale univocamente determinato dalle prime tre.
Una rapida verifica sperimentale su due volumi scelti a caso confermò l’ipotesi, dato che alle coordinate definite dalle sigle c’erano vuoti perfettamente compatibili con il libro designato, preceduti e seguiti da volumi con sigle identiche nelle prime tre parti a quella mancante. Strappai un foglio dal piccolo bloc notes che portavo sempre in tasca e, usando il palmo aperto della sinistra come appoggio, vi ricopiai i titoli e le sigle, poi lo ripiegai e lo nascosi all’interno della cintura con lo stesso sistema usato per la scheda di memoria della macchina fotografica. Sfilai i segnalibri da tutti i volumi e li posai in un vassoio che ne conteneva molti altri, poi ricollocai ogni libro al suo posto, seguendo l’infallibile segnaletica delle sigle.
Per completare l’occultamento dell’Opera 40 e depistare eventuali indagini critiche future, portai sul tavolo di consultazione una guida turistica dell’Egitto aperta sulle pagine dedicate a Sharm‑El‑Sheik e una mappa di Chicago che avevo visto poco prima nello studio. Ancora una volta mi fermai a riflettere sul trattamento da riservare al libro tenuto ancora saldamente in pugno dal coniglio diventato grande suo malgrado: lasciarlo lì? Rimetterlo a posto come tutti gli altri? In fondo non era che un frammento del capolavoro postumo, un frammento da cui nessuno sarebbe stato in grado di ricostruire l’opera. D’altra parte, però, non distruggere quel frammento rendeva incompleta la consegna del tutto al necessario oblio.
Che fare? Il dilemma rischiava di durare troppo a lungo. Presto il rigor mortis sarebbe intervenuto a rendere pericolosa, se non impossibile, la sottrazione del reperto. Tolsi una moneta dalla tasca destra dei calzoni: testa si lascia, croce si toglie. Uscì croce. Reintascata la moneta, sfilai peritosamente il libro dalla zampa semirigida del roditore figurato e lo riposi nella collocazione NE‑V‑16‑18.
Osservai la scena palmo a palmo, cercando di prestare attenzione a ogni dettaglio per valutarne la concordanza con la mia ricostruzione dell’accaduto, quando l’occhio mi cadde su un particolare che mi era sfuggito: presso le terga della salma, seminascosto dallo zoccolo della libreria, giaceva il lapis che con tutta probabilità aveva materialmente tracciato le sottolineature creatrici della componente testuale dell’opera. Avvicinatomi, vidi che era una comunissima matita, del tutto simile a quelle che usavo nel quotidiano mestiere di studente, ma priva di masticature, graffi e altri segni d’usura: era stata adoperata per la prima e ultima volta. La raccolsi e la infilai nell’astuccio che portavo sempre nello zaino, preziosissimo documento a me solo destinato, mentre il resto del mondo, guardandola, non l’avrebbe distinta dalle coinquiline del portapenne.
Nel bagno di servizio mi disfai dei guanti buttandoli nel cesso, dove depositai subito appresso l’abbondante produzione escrementizia provvidenzialmente accumulata nei miei visceri. Dopo aver ricoperto la poltiglia merdoplastica con un adeguato strato di carta igienica solo in parte usata, tirai solennemente lo sciacquone. Tutto era compiuto.
Tornai alla scrivania. L’orologio del computer segnava le sedici e ventitré minuti. Perfetto. Dalla dipartita dell’Autore era trascorsa poco più di mezz’ora, uno scostamento dall’ora esatta del trapasso che nessun esame autoptico avrebbe potuto determinare con certezza. Sollevai la cornetta del telefono e composi il numero del soccorso medico. Con voce tremula comunicai le coordinate topografiche della casa e spiegai confusamente l’accaduto, terminando con un melodrammatico fate presto! Credo che… che sia… m‑morto!, seguito da un credibilissimo scoppio di pianto.
Quando l’ispettore Giulio Renardi entrò nello studio, seguito da un paio di agenti e dall’equipaggio dell’ambulanza, mi trovò in un pietoso stato di sconcerto e terrore che avevo avuto tutto il tempo di preparare con cura durante la non breve attesa. Uomo di modi fermi e agile intelligenza, non disgiunti da una forma di signorile rispetto per l’interlocutore, il Renardi mi interrogò a lungo, mentre il personale medico paramedico e investigativo eseguiva di buona lena scrupolose procedure di documentazione fotografica e verbale della scena, propedeutiche all’imballaggio e sgombero del corpo previa riproduzione in gesso su legno dell’ultima postura assunta in vita.
Dopo avermi fatto ripetere ad nauseam la sequenza degli avvenimenti, interrompendomi ogni volta in un punto diverso del racconto, l’ispettore mi chiese di elencare con calma gli oggetti che avevo toccato prima e dopo lo schianto, ignorando scientemente il fatto che a ogni ricostruzione li avevo già nominati più e più volte: la scrivania e la poltrona; la sedia dalla quale ho ascoltato una notevole lezione di storia e critica letteraria; il mouse del computer mentre leggevo l’undicesimo capitolo del romanzo; le maniglie delle porte che ho trovato chiuse quando cercavo disperatamente di scoprire se c’era qualcun altro in casa; il coperchio della tazza e lo sciacquone del bagno di servizio, usato a causa di problemi intestinali dovuti, credo, all’accumulo di tensione nervosa; il telefono con cui ho chiamato i soccorsi; ah sì, e lo schema del romanzo, mentre chiedevo all’Autore delucidazioni su alcuni particolari; e poi naturalmente roba mia, come quaderni, matite, lo zainetto. Il corpo no, ne sono certo: ero troppo terrorizzato per farlo; e nemmeno la libreria o il tavolo di consultazione, anche se non ne sono altrettanto sicuro, però mi pare di aver soltanto attraversato la biblioteca, senza toccare nulla.
Verso la fine delle operazioni medico‑poliziesche, Renardi mi chiese di mostrargli il contenuto delle tasche e dello zainetto, una formalità, non si preoccupi. Esaminò con aria apparentemente distratta tutti gli oggetti che si accumulavano su una zona sgombra della scrivania: portafoglio; fazzoletto; chiavi; monete; gomma da masticare; bloc‑notes; confezione vuota e stropicciata di gomme da masticare; accendino usa e getta; abbonamento annuale per studenti dell’azienda dei trasporti pubblici; elastico; pacchetto di sigarette semivuoto; telefono cellulare; due quaderni zeppi di appunti; portapenne in tela di jeans con chiusura lampo; custodia vuota di CD‑ROM; dizionario tascabile; macchina fotografica digitale; copia alquanto rovinata di un’edizione economica di Moby Dick; cartelletta in plastica contenente stampa di un documento intitolato Tecniche e prospettive del romanzo contemporaneo nell’era posteriore al postmoderno; merendina al cioccolato un po’ schiacciata; lettore portatile di CD che alla domanda Può aprirlo? rivela un CD masterizzato in casa, e che Renardi richiude accompagnando la frase Questo non l’ho visto con un bonario sorriso d’intesa.
Poi con un cortese Posso? del tutto retorico accende la fotocamera, è uguale alla mia, sa?, e scorre pazientemente la quarantina di foto in memoria, dall’ultima alla prima. Il tono di voce si fa più confidenziale e amichevole man mano che si dilegua il doveroso sospetto di avere di fronte un possibile assassino. È la sua ragazza? molto carina. La facoltà di lettere! Conosce il professor Beniamini? insegna storia della letteratura francese. Eravamo compagni di liceo. Siamo rimasti molto amici.
La macchina investigativa non aveva più alcun interesse a frugare nella mia vita privata, o magari nella cintura dei miei pantaloni. Nessuna delle cose che avevo nascosto all’ispettore era una prova di reato, certo, ma non sarebbe stato facile spiegare perché avevo fotografato e poi modificato la scena della disgrazia, rimesso i libri al loro posto, appuntato le sigle di collocazione. Quelle azioni poco chiare avrebbero potuto spingere Renardi a esaminare più attentamente i miei appunti e forse a scoprire che avevo anche trascritto le frasi sottolineate di quei libri. L’occultamento dell’Opera 40 avrebbe corso un serio pericolo. Fortunatamente tutto andò nel migliore dei modi, e dopo una virile e cortese stretta di mano l’ispettore Giulio Renardi mi invitò a tornare a casa tranquillo.