(Il manoscritto ritrovato di letturalenta. Frontespizio e indice)
Mai cominciare una frase con un avverbio. E tanto meno con una congiunzione.
A questo si dedicano prevalentemente i manuali di scrittura creativa. Sono individui sedentari ed eleggono le isole maggiori a loro stabile dimora. Raramente salpano le ancore e solo per piccoli spostamenti, il più delle volte per incontrare i manuali di isole vicine, o per partecipare a una conferenza sui recenti sviluppi nell’uso dell’articolo indeterminativo nei romanzi epistolari. Diffidano dei racconti, troppo vaghi e itineranti per i loro gusti ma, pur non amando la loro compagnia, spesso li osservano di nascosto.
Giusto ieri stavo discutendo del mio capitolo precedente con un racconto poliziesco, quando ne ho beccato uno rimpiattato presso un moletto, tutto intento a prendere appunti. Si occupano infatti di segnaletica per racconti, disseminando ovunque esortazioni più o meno esplicite, avvisi amichevoli, ordini indiscutibili: non esagerare con gli aggettivi; evita le ripetizioni; non esprimere un concetto semplice con parole complicate; attento alle cacofonie; parla di ciò che conosci; cerca sempre di farti capire.
Questa fioritura di indicazioni e cartelli lascia intuire un rischio e una meta: il rischio è quello di smarrirsi, ma la meta? Posto che non avrebbe senso dare indicazioni per raggiungere un luogo inesistente, giacché a nessuno verrebbe in mente di andarci, il proliferare di obblighi, divieti, avvisi di pericolo, svolte, precedenze, semafori e rotatorie deve per forza di cose alludere a una meta a cui il racconto dovrebbe tendere, ed è pacifico che chi esagera con gli aggettivi, indulge alle ripetizioni, esprime concetti semplici con parole complicate, non schiva le cacofonie, parla di ciò che non conosce, non cerca di farsi capire, costui è condannato a vagare in eterno senza arrivare mai.
Senza mai arrivare là.
Sì, ma là dove? Una meta, inoltre, presuppone uno scopo o quanto meno un’intenzione. Fatto salvo il diritto dell’ubriaco o del folle a vagare fino a smarrirsi, in genere colui che s’incammina ha in mente non solo la meta, ma anche un accadimento che ivi avrà luogo: il macellaio va alla bottega per tagliare carni, sbudellare ventri e spezzare ossa. Così il postino, raggiunto l’indirizzo stilato con rara previdenza sulla busta, vorrà consegnare la lettera al destinatario. Ma il racconto? dove va il racconto? e per fare cosa?
Della nostra vocazione al viaggio ho parlato distesamente nel capitolo quindicesimo, ricordi?, un mio lacerto il cui titolo del tutto casuale, ma a posteriori assai significativo, evocava correttamente il finale. Se il racconto ha un finale, una stazione d’arrivo, allora non è irragionevole supporre che vi pervenga da un punto diverso, o magari dal medesimo se è un racconto votato alla circolarità dei traghetti, e che in un tempo non facilmente determinabile, ma assai probabilmente anteriore al momento dell’approdo, esso si trovasse per l’appunto in viaggio. Ne deriva, a mio avviso, e spero che tu ne convenga, che il ruolo sociale dei manuali di scrittura creativa, ovvero quello di disseminare il tragitto di opportuni cartelli segnaletici, non è del tutto infondato, anzi è assai probabile che codesta magistratura avesse in antico solide giustificazioni pratiche.
Ritengo tuttavia che, mercé il trascorrere del tempo e la consuetudine, le ragioni fondative siano state travisate e distorte fino a volgere l’uso in abuso, anche attraverso insidiose trasformazioni terminologiche sfociate in quel mostro fantastico che la locuzione scrittura creativa inopinatamente partorisce. L’unione in apparenza casta di quel sostantivo con quell’aggettivo è in realtà un accoppiamento innaturale e sfortunatamente non toccato dalla grazia dell’impotentia generandi.
Il sostantivo preso di per sé solo, infatti, altro non definisce se non il graffiare del pennino o l’incidere dello stilo, attività prettamente umana e affatto innocua, com’è innocua la concia delle pelli o la trebbiatura del grano. Parimenti innocuo è l’aggettivo quando s’accompagna a sostantivi votati all’astrazione, quali fenomeno o atto, ma in compagnia di termini più prossimi alla terrigna concretezza della materia rivela un’insospettabile inclinazione alle più turpi perversioni. Egli sa di appartenere alla nobile schiatta delle parole elevate, ma forse proprio per questo va in cerca di relazioni piccanti e deplorevoli con termini di più bassa estrazione sociale per procurarsi il piacere del frutto proibito, non tenendo conto delle conseguenze deleterie che derivano da ciò che egli considera innocenti scappatelle.
Perché, vedi, l’espressione scrittura creativa potrebbe ancora essere tollerabile e addirittura divertente, se non creasse terreno fertile per abusi gravissimi. Consentimi per una volta di indulgere alla tentazione di considerare opportune e sensate le mie similitudini, per mostrarti che la questione non è priva di una sua comicità primitiva, purtroppo degenerata in dramma. Dicevo poc’anzi che la scrittura è attività umana, non diversamente dalla concia delle pelli o dalla trebbiatura del grano. Bene, ora supponi che il nostro creativo adeschi quei sostantivi e osserva il risultato, ovvero concia creativa e trebbiatura creativa.
Noterai che, per ricavare da queste locuzioni una figura simile a quella che ottieni dai soli sostantivi, sei costretto a immaginare una concia che produca qualcosa di diverso da una pelle conciata e una trebbiatura che sfoci in un prodotto ben più nobile del nudo chicco di grano separato dalla pula. Se poi sposti l’attenzione dall’azione all’agente, dovrai figurarti un conciatore alquanto pensoso, probabilmente autore di una poetica della scarnificazione e dell’essiccatura delle pelli, o un trebbiatore perennemente afflitto dalla sua incapacità di produrre il chicco noumenico.
Questo effetto comico si mantiene intatto quando il nostro vizioso aggettivo s’accoppia alla scrittura, se convieni che essa altro non è che l’atto di incidere segni alfabetici o geroglifici su supporti cartacei, o cerosi, o marmorei. L’effetto non muta passando all’agente, se ti astieni per ora dall’indicarlo con una parola affatto falsa e pretestuosa come scrittore, utilizzando invece termini di gran lunga più onesti, come scriba o scrivano. Lo scriba è un dignitoso funzionario imperiale che redige accurati resoconti di processi o incide su apposite tavole la volontà legislativa del faraone. Mai in vita sua è stato sfiorato dall’assurda pretesa di creare, tanto che la locuzione scriba creativo non risulta attestata in alcun reperto paleografico, e a coniarla oggi non potrebbe indicare altro che uno scriba un po’ svagato, spesso distratto durante il lavoro da insidiosi ragionamenti sull’estetica dei verbali processuali, e quindi assai prossimo al licenziamento per giusta causa.
A questo punto si fa strada l’ipotesi che l’origine dell’espressione scrittura creativa non sia spiegata soltanto dalla perversione dell’aggettivo, ma anche da un’immorale civetteria della scrittura che per favorire l’abboccamento ha indossato un abito provocante con intenzioni evidentemente adescatrici. Da sempre relegata alla base della piramide sociale, fra le parole umili e lavoratrici, essa ha intravisto nel corteggiamento del creativo una possibilità di riscatto da non lasciarsi sfuggire, e c’è da giurare che avesse in mente fin dal principio di gabbarlo, una volta raggiunto lo scopo.
Ha dunque lasciato intendere allo sprovveduto che la scrittura sia mestiere ben diverso dall’inchiostrare carta con segni convenzionali, e che il suo prodotto sia cosa assai più notevole di un semplice foglio inchiostrato, e affatto degna della compagnia di sì nobile qualificativo. S’è dunque data da fare per trasformare la scappatella in fidanzamento e questo in matrimonio. Una volta ascesa al rango di parola elevata, s’è data a menar vita da gran signora frequentando sempre di più la buona società, e sempre meno in compagnia del marito, fino a confondere definitivamente le acque e a far credere a tutti che la scrittura, creativa o meno, appartiene da sempre all’élite dei significanti.
I due malandrini disonesti e perversi non hanno tenuto conto del fatto che la loro unione, scaturita da bassi istinti e trame deplorevoli, era ahimè feconda e ha generato quel mostro informe e deleterio che è lo scrittore, così come oggi lo si intende, ovvero uno scrivano che produce un’opera, parola a sua volta strappata al suo onesto abituro alchimistico per condurla a forza nei fastosi palazzi della scrittura artificiosamente nobilitata. Un disastro di proporzioni incalcolabili. Questo succede a non tenere in debito conto le conseguenze delle proprie male azioni.
Ecco dunque la domanda, e lascio a te l’onere di fornire la risposta: può una locuzione con origini così disoneste pretendere di insegnare ai racconti come muoversi, dove dirigersi e a qual fine?