La seconda edizione di Hilarotragoedia — ancora Feltrinelli e ancora collana “I Narratori”, 1972 — è molto diversa dalla prima. Si tratta sempre di edizione rilegata, con copertina rigida in cartone, ma questa volta priva di sovracoperta. Il prezzo di copertina riportato in quarta è di Lire 2.200, contro le 1.700 del 1964.
Sparisce purtroppo il delizioso, notturno e anacronistico ritratto dell’autore che ornava la prima edizione, cedendo il passo a un’elaborazione grafica di Miki Toshihiro composta da nove cilindri colorati tra il fucsia e l’arancione su sfondo nero, e decorati con segni tra il geometrico e l’alfabetico che producono un effetto non molto distante dalle emoticon, le mitiche “faccine” sorridenti, perplesse, incavolate o tristi che da più di vent’anni in qua caratterizzano le comunicazioni elettroniche dell’universo mondo.
Niente sovracoperta, niente bandelle, e manca anche il segnalibro-prefazione della prima edizione. Il contenuto di questi supporti paratestuali scomparsi è trasferito all’interno del libro. In terza pagina ritroviamo la prefazione di pugno dell’autore, preceduta da una brevissima nota biografica diversa da quella dell’edizione precedente:
Giorgio Manganelli è nato a Milano nel 1922. Attualmente vive a Roma. Presso l’editore Feltrinelli nel 1964 apparve la sua prima opera Hilarotragoedia, pubblicata anche in tedesco, e nel 1967 Letteratura come menzogna. Quasi contemporaneamente a questa seconda edizione uscirà presso l’editore Einaudi (che già nel 1969 pubblicò Il nuovo commento) una raccolta di scritti dal titolo Agli dei ulteriori.
L’elenco di titoli pubblicati nella collana “I Narratori” — che era in bandella nella prima edizione — qui è spostato nelle ultime pagine, subito dopo il testo. Manca del tutto la classica formula “finito di stampare”, solitamente unita a una data e al nome della tipografia, che invece era presente nell’edizione del 1964.
Ultimo grande assente è il testo della quarta di copertina della prima edizione, sacrificata probabilmente alla logica ferrea dell’ubi maior minor cessat, essendo la quarta di questa edizione firmata da Italo Calvino. E lo scriba che è in me non può resistere alla tentazione di trascriverla pedissequamente:
Animato dalla “balistica discenditiva” che è uno dei suoi temi principali, questo libro precipitò come un meteorite dai cieli poco nuvolosi della nostra letteratura dei Late Fifties nei mari fortemente mossi degli Early Sixties, annuncio d’una stagione delle lettere italiane carica di perturbazioni atmosferiche, ma soprattutto fenomeno vivente che non avrebbe cessato di sbalordirci, fuor di tutti i calendari e le effemeridi, per una carica aggressiva che è lungi dal decrescere.
Da allora l’Hilarotragoedia continua dinanzi ai nostri occhi ipnotizzati a discendere chinare calare digradare dirupare piombare, tutti verbi che nella prospettiva lessicale del libro significano il più trionfale adempimento d’un destino. Era entrato in scena Giorgio Manganelli, personaggio unico nella letteratura nostra e altrui, somigliante solo e unicamente a se stesso, colui che sarebbe diventato il teorico e il critico della Letteratura come menzogna, l’autore che dal testo oggi raro del Discorso sulla difficoltà di comunicare coi morti al più divulgato Nuovo commento ha continuato a tessere una ragnatela sempre più sottile e a caricarla di tutti i plinti i capitelli le metope marmoree che i suoi scavi linguistici e iconici e sapienziali portano alla luce.
Se la formula del libro è quella del trattato, lo spazio che esso viene costruendo intorno a noi (fin dal titolo, che “ripete il nome di un’antica rappresentazione eroicomica”, come avvertiva la presentazione di copertina) è quello d’un teatro, teatro d’un’architettura composita tra il rinascimentale e il barocco con qualche merlettatura di neogotico, teatro dotato pure di una cupola zodiacale come un planetario — solo che questa cupola è rovesciata verso il basso –, teatro dedicato ai virtuosismi di un unico primattore: il linguaggio. Sulla scena manganelliana, il linguaggio dà spettacolo di se stesso, è esso stesso scenografia, macchina scenica, gioco d’acqua, fuoco d’artificio, prestidigitazione, acrobazia capriola sberleffo. Vocaboli imprevisti, metafore rapinose si susseguono col ritmo di un accesso d’ilarità prorompente, ma già per le crepe di quel terremoto interiore che è il riso ci addentriamo nell’ombra di cachinni sempre più cupi fin quasi a sbucare all’altro polo dell’ossimoro, alla tragedia. Nel centro o estremo nadir del trattato-teatro un dotto umanista, circondato dagli angeli neri dell’umore atrabiliare e dell’inchiostro erudito, rovescia come un guanto l’immagine trionfalistica dell’uomo e ne dimostra la natura derisoria e grottesca, (infierendo sempre di più, fino all’episodio della visita della madre, e a quello del non nato) non senza proporre grandiose mappe dell’animo umano (l’io e gli eidola) o del cosmo (il mondo come Ade) degne di un filosofo gnostico, per approdare alla tenebrosa illuminazione quasi taoista dell’Ade come buco nell’universo.
Italo Calvino