Si diceva di un’idea originale su Franz Kafka espressa da Günther Anders nel suo unico saggio sull’autore praghese, Kafka pro e contro, recentemente ristampato da Quodlibet. L’idea è che per Kafka l’aldilà, che compare nella sua opera come tensione verso un mondo sconosciuto e apparentemente ultraterreno, altro non è che questo mondo, ovvero l’aldiqua dei comuni mortali. Per Anders i personaggi di Kafka, e in particolare il K. di Il castello, sono uomini che vivono fuori dal mondo e che fanno di tutto per essere accettati dal mondo.
Anders vede un pericolo potenziale proprio in questo fare di tutto per essere accettati. L’uomo messo in scena da Kafka gli appare come un debole che, pur di entrare, è disposto a sospendere tutte le domande e le riserve sulla giustizia e sulla moralità del mondo che lo esclude. Non gli interessa che i potenti siano illiberali e che il sistema che governano sia intrinsecamente malvagio: l’unica cosa che conta per l’uomo kafkiano è entrare a far parte di quel sistema. Questo uomo disposto a tutto è per Anders il suddito ideale dei regimi totalitari, un uomo che, rinunciando in partenza a esercitare le sue facoltà critiche, è già pronto per essere ridotto in schiavitù. Per questo considera l’opera di Kafka come una minaccia, addirittura come qualcosa di potenzialmente utilizzabile a fini totalitari e liberticidi:
Chi aspira a essere ammesso e a venir riconosciuto come un appartenente, conosce soltanto il concetto negativo di libertà: è «libero» come Hagar cacciato via, all’«aperto». Della «libertà» o dell’«illibertà» come «rapporti all’interno del castello», Kafka non si preoccupa affatto. L’unica «libertà» che egli sogna (non importa se il castello è un sistema di libertà o illibertà) è di essere accolto nel castello. (…) Non si può negare che la sua sete di appartenenza totale si sia fatta largo, a volte, come una requisitoria a favore delle de-individualizzazione e dell’asservimento. «Unione, unione!» si dice in Durante la costruzione della muraglia cinese «Spalla a spalla, una danza di popolo, il sangue non più imprigionato nel meschino circolo delle membra, ma scorrente con dolcezza e con perpetuo ricorso attraverso la Cina infinita». Oppure «Allora per molti, anzi per i migliori, vigeva questo principio riservato: cercare di comprendere con tutte le tue forze le disposizioni dei dirigenti, ma soltanto fino a un determinato limite, e poi smetti di pensare. Un principio molto ragionevole».
Chi legge frasi simili senza sapere nulla, le dovrebbe ritenere, in virtù dei vocaboli organicisti, un documento letterario pre-fascista, una requisitoria a favore dell’obbedienza cieca e assoluta e del sacrificium intellectus. In effetti queste frasi, senza un’interpretazione, sono pericolose. [pag. 59-60]
È probabile che questo giudizio di Anders sia un po’ troppo estremo ed è certo, perché lo dice lui stesso nell’introduzione al saggio, che questa sospetto per l’accondiscendenza dei personaggi kafkiani al potere è dettata dall’avversione per le tendenze assimilazioniste degli ebrei tedeschi suoi contemporanei. Tuttavia va detto che Anders, che era un ebreo tedesco, scrisse il nucleo centrale del saggio nel 1934, quando le intenzioni del nazismo nei confronti degli ebrei erano già molto chiare (e infatti lui era esule a Parigi), anche se la macchina dello sterminio non si era ancora messa in moto. Poi riprese e ampliò quel primo nucleo nel 1946, quando la Shoah era un fatto compiuto. Se oggi si può dire con certezza che l’opera di Kafka (peraltro praticamente ignota ai più fino al secondo dopoguerra) non è stata utilizzata come serbatoio di immaginario per costruire regimi totalitari, all’epoca in cui Anders scriveva non si potevano coltivare simili certezze.
Oltre alla tesi centrale dell’aldilà inteso come aldiqua, il saggio di Anders offre un discorso critico molto articolato e argomentato sull’opera di Kafka. E non è da sottovalutare il fatto che si tratta di un discorso critico di prima mano, fatto in tempi non sospetti, ben prima che l’opera di Kafka diventasse mito e oggetto cult di tanta inutile kafkologia successiva (sul termine kafkologia si veda M.Kundera, I testamenti traditi). In questa edizione viene anche proposta la diatriba che oppose Anders a Brod dopo l’uscita del saggio in Germania nel 1951. Insomma, motivi per leggere il libro ce ne sono a bizzeffe, sia per i pro che per i contro-kafkiani.
A parte tutto, però, il particolare che mi ha impressionato di più in Kafka pro e contro è la sua genesi, raccontata da Anders nell’introduzione. Riporto testualmente:
Se poi sono giunto a occuparmi di Kafka, ciò ha avuto un motivo esterno. Si verificò nel 1933. Già da alcuni mesi ero rifugiato politico a Parigi, godendo già dell’onore di essere stato derubato della mia cittadinanza tedesca per merito di Hitler; e quindi, a differenza di K., che non apparteneva ancora al Castello, io non vi appartenevo più. Così, anche agli occhi delle autorità francesi, avevo perduto la mia personalità, identità, e il diritto all’esistenza, ed ero diventato qualcosa (proprio così: qualcosa), un qualcosa di politicamente irrilevante, che non aveva propriamente il diritto di esistere, giacché nella Préfecture de Police (un vero e proprio Castello, popolato anch’esso soltanto da Klamm) l’esistenza non era dimostrata cartesianamente, ma soltanto esibendo un documento di identità. Chi non ne aveva uno, non lo otteneva. Così kafkiana era la nostra situazione di allora.
In questa situazione gli si presentò l’occasione di tenere un corso di tedesco presso l’Istituto di Studi Germanici di Parigi, e lui accettò, scegliendo appunto come tema l’opera di quello che allora era l’illustre sconosciuto Franz Kafka. Insomma, per farla breve, Kafka pro e contro è forse l’unico saggio critico sull’opera di Kafka nato da una situazione tipicamente kafkiana: un uomo privo di identità, escluso dalla società civile, straniero cacciato via dalla sua patria, affronta una finzione letteraria che a tutti gli effetti parla di lui. A me basta per considerare questo libro preziosissimo.
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Che macchina da guerra è lei letturalenta. Non faccio a tempo a riflettere su un argomento, ad armarmi di qualche tomo da lei consigliato che è subito ad aprire altre campagne. Eh va bé! Compriamoci pure questo. Alla faccia della lettura lenta!
“l’esistenza non era dimostrata cartesianamente, ma soltanto esibendo un documento di identità. Chi non ne aveva uno, non lo otteneva.”
La situazione in cui si trovò Anders mi ha fatto venire in mente il film Banana Joe, di Steno, del 1982, con Bud Spencer. E’ un film davvero esilarante. Non mi piace quel genere, ma devo riconoscere – fu mia moglie ad insistere perché lo vedessi – che è un film godibile e meritevole.
Bart
suppongo, mi pare e credo che capiti di frequente e a tutti, di attendere invano una chiamata dal Casello.
Per questo, e solo per questo, il Castello è un libro totalitario; perché parla di tutto e ogni cosa e, soprattutto, dell’impossibile.