XXIV – Novella terza, La morte dell’Autore [1]

(Il manoscritto ritrovato di letturalenta. Frontespizio e indice)

Saku Paasilahti: De te, fabula narratur (1999), tratto da http://rikart.lib.hel.fi/I
Dove mai è situato il confine fra ragione e istinto, geometria e caos, conoscenza e analfabetismo? Così andava interrogandosi da ore il taciturno e immobile Autore. Con i piaceri violenti accade come con le pene profonde: sono muti. Leggeva e rileggeva questa frase, l’Autore, a bocca chiusa. Apriva e richiudeva il Paradosso sull’attore. Lo riapriva senza fallo e senza alcun motivo apparente a pagina trentanove, e sempre gli occhi suoi ricadevano su quella frase, la percorrevano da sinistra a destra e la trasmettevano senza esiti apprezzabili al cervello, che si limitava a riecheggiarla, senza mai illuminarla del benché minimo baluginare di senso.

Si alzò dalla poltrona con lena di bradipo, le giunture del vasto corpo intorpidite dalla lunga e improduttiva meditazione. Uscì sul balcone del suo studio di Autore e accese di buona voglia una sigaretta, osservando attentamente la fumata grigia che usciva dalle sue labbra dopo la prima boccata. Il fumo correva veloce compatto e conico all’inizio, ma poi si separava in una congerie di spirali disordinate che il vento leggero disperdeva in milioni di particelle invisibili. Dove è mai situato il confine fra ciò che si sa e ciò che si ignora? Spense la sigaretta e appoggiò i gomiti alla balaustra, i pugni uniti a far da sedile al mento.

Pensò. Pensava alla sua carriera di Autore, un libro all’anno, tirature in costante aumento, interviste, conferenze, premi, denaro, recensioni entusiastiche e stroncature feroci. Indifferenza mai. Un pensiero parallelo e insidioso, però, si sovrapponeva al piacevole riepilogo dei fasti letterari: perché sempre a pagina trentanove, e perché sempre quella maledetta insignificante frase? Con i piaceri violenti accade come con le pene profonde: sono muti. Mi dice qualcosa, pensava parallelamente l’Autore, ma cosa?

Rientrò. Il breve percorso che lo separava dalla scrivania fu sufficiente a contenere una sequenza complessa di pensieri frammentati e schegge di immagini confuse e indecifrabili. Ultimamente gli capitava spesso di iniziare decine e decine di ragionamenti potenziali, senza mai riuscire a trattenerne il filo e tanto meno a portarli a conclusione. Ripeteva meccanicamente frammenti di discorsi uditi o letti di recente e da ciascun frammento cercava di costruire un discorso compiuto: un aforisma, una massima morale, un trattatello sui costumi dei connazionali, il fondamento di un nuovo sistema di interpretazione del mondo e della vita umana.

Il tentativo di tradurre in parole ordinate quell’ammasso confuso di pensieri e voci, però, abortiva presto, e una nuova sequenza di parole e immagini saliva dal fondo di quella poltiglia fino alle soglie della coscienza, scacciava l’aborto e tentava lei di essere partorita in forma ordinata e comprensibile, ma solo per fallire a sua volta e lasciare il posto ad altro, in una catena interminabile di incipit senza seguito. Dov’è dunque situato il confine fra ordine e disordine? continuava a domandarsi l’Autore, senza peraltro decidersi a fare il passo successivo, ovvero tentare di far seguire alla domanda una risposta per poi intraprendere un attento ed esaustivo esame critico del suo contenuto di verità, fino a decidere ultimativamente se avallarla o confutarla.

Prima però, pensava, dovrei procedere a definire col massimo rigore i termini di codesti opposti regni dei quali vado cercando la linea di marca. Cos’è l’ordine e cosa il disordine? Perché dico che ragione, geometria e conoscenza appartengono all’uno, istinto, caos e analfabetismo all’altro? Se questo fosse vero dovrei concludere che l’ordine è ragionevole, geometrico e conoscente, mentre il disordine è istintivo, caotico e analfabeta. Sono vere codeste proposizioni? Se dico dell’ordine che è ragionevole, mi alieno la possibilità di dire che è al medesimo istante irragionevole. Ma irragionevole è forse sinonimo di istintivo? Se dicessi che l’ordine è contestualmente ragionevole e istintivo violerei egualmente il principio di non contraddizione? Dovrei pensarci, concluse l’Autore per sbarazzarsi di quel pensiero.

Sedette. Il monitor del computer era occupato quasi per intero dalla centocinquantaseiesima pagina del suo nuovo romanzo, circa a un terzo dell’undicesimo capitolo. Sulla parete di fronte alla scrivania campeggiava lo schema dell’opera, un enorme foglio bianco di tre metri per due, ornato da linee colorate, orizzontali, verticali e oblique. L’occhio insipiente di un visitatore occasionale l’avrebbe interpretato come bozza di un quadro astratto o più probabilmente come indizio grafico di un’incipiente psicopatia, incapace, il superficiale, di cogliere la potenza ordinatrice che invece si disvelava radiosa a chi applicava le giuste chiavi di decodifica.

Dev’essere per l’appunto un problema di codici, pensò l’Autore mentre accomodava i larghi fianchi nell’ampia seduta della poltrona girevole, e si ripromise di approfondire al più presto la questione, giacché i codici e le crittografie dovevano avere qualcosa a che fare con la demarcazione fra ordine e disordine, o almeno così gli sembrava in quel preciso istante.

Sull’asse orizzontale del diagramma, nella parte bassa del foglio, era rappresentato il tempo nel suo naturale sviluppo lineare, dalla data inclusa nel romanzo più prossima all’origine del mondo fino alla più distante. Sempre in orizzontale, ma sulla parte alta, si allineavano i capitoli, la cui successione numerica non corrispondeva al fluire del tempo, cosicché i primi cinque occupavano una zona alquanto centrale dello schema, il sesto precedeva il primo, i capitoli dal settimo all’undicesimo seguivano il quinto, quelli dal docicesimo al sedicesimo procedevano controcorrente dietro il sesto fino a sfiorare l’asse verticale di sinistra, mentre gli ultimi quattro, dal diciassettesimo al ventesimo, seguivano il corso del tempo alla destra dell’undicesimo.

Ogni capitolo era contrassegnato da un foglio di tredici centimetri per venti di altezza, incollato allo schema, sul quale era annotata la scaletta, ovvero la successione di accadimenti, movimenti, riflessioni, catastrofi, agnizioni, sogni, congiungimenti carnali, delitti, viaggi, rivelazioni, nascite, fallimenti, progetti, patti, malattie, tradimenti, deliri, scomparse, passioni e rendiconti che in quel capitolo erano rappresentati. Per un vezzo estetico dell’Autore, privo di qualsivoglia potere euristico, i fogli corrispondenti ai capitoli in cui prevaleva la presenza di un personaggio femminile erano di un tenue rosa pastello, mentre quelli a prevalenza maschile erano azzurri. Il foglio dell’ultimo capitolo era significativamente violetto.

Sbuffò. Mani intrecciate dietro la nuca, gomiti larghi, premette la spina dorsale sull’alto schienale avvolgente della poltrona basculante (oltre che girevole). Qualche tempo prima era venuto da lui un laureando in lettere moderne che aveva chiesto un colloquio per la sua tesi sulle Tecniche e prospettive del romanzo contemporaneo nell’era posteriore al postmoderno, un lavoro condannato a precoce invecchiamento fin dal titolo. L’imberbe, ricevuta ampia e dettagliata esposizione delle chiavi interpretative dello schema, aveva osservato che in esso non vi era spazio per l’imprevisto, né possibilità alcuna di divagazione. L’Autore, assunta la medesima postura che ora imitava nel ricordo, impostata la voce su un registro pacatamente didattico, modellato il volto su un’espressione vicina al sorriso paterno, ma non priva di una piega di sufficienza, replicò:

Veda, mio giovane amico, lei non può seriamente credere che in un romanzo possa esservi spazio per l’imprevisto. Immagini cosa sarebbe la Divina Commedia, se Dante non ne avesse pre‑visto fin dal principio ogni luogo, accadimento e situazione. Tutti i capolavori epici comici e tragici, dall’antichità ai giorni nostri, creda, nacquero in seguito ad un attento lavoro di pre‑parazione e schematizzazione pre‑ventiva. Non avremmo I fratelli Karamazov o la Récherche se Dostoevskij e Proust non ne avessero steso per tempo un dettagliato pro‑getto.

L’autore sta al romanzo come Dio alla creazione: le leggi che governano il moto dei pianeti; la durata delle ere e l’estensione delle galassie; il ritmo delle alternanze fra pieno e vuoto, giorno e notte, mare e terra; tutto questo dovette pre‑esistere nella mente del creatore, prima che egli procedesse alla realizzazione fattuale del creato. Parimenti nel romanzo anche l’imprevisto deve essere pre‑visto dall’autore creante, che ha il dovere di dominare ogni piega dell’opera, anche la più riposta, e di essere assimilabile alla divinità anche per l’attributo di onniscienza.

Il romanzo, qui le consiglio di prendere appunti, può includere accadimenti imprevisti, ma imprevisti dai personaggi, non dall’autore. Il suicidio di Anna Karenina sorprese Vronskij, non certo Tolstoj. All’autore del romanzo si può applicare senza fallo ciò che Diderot dice dell’attore nel suo celebre Paradosso, e cioè che per rendere plausibile la finzione teatrale è più adatto un attore di carattere freddo e calcolatore, capace di studiare per ore ogni movenza del corpo e ogni inflessione della voce per rendere credibile il suo personaggio, laddove un attore istintivo e passionale si affiderebbe all’identificazione emotiva, cadendo nella trappola dell’improvvisazione, prodromo certo di una recitazione scadente.

One Response to “XXIV – Novella terza, La morte dell’Autore [1]”

  1. CalMa says:

    Sciapò, lentore. E basta

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