Luglio

cascina, tratto da ibambiniforesto.splinder.comZitto in camera mia, e dormire fino a quando lei non sortirà dal pisolino, giunone adagiata su lenzuola bianche, nero e lustro il testile impiallacciato, lustra e nera la sottoveste di nailon, scuri accostati per tenere fuori il caldo e le mosche. Evadere è necessario, questo è chiaro, ma con accortezza. Se si sveglia sono guai. Se la sveglio fa la faccia cattiva fino a sera e grida, e ogni parola che dico merita scherno, e castigo ogni cosa che faccio.

Muoversi con prudenza, quindi. Ricorda: calibrare bene la forza applicata alla maniglia, che in questo caso non serve per aprire la porta (è solo accostata), ma per alzarla di qualche millimetro da terra. Spalancare velocissimo e poi accompagnare piano, in modo che ricada con dolcezza sui cardini. Combinando il lieve sollevamento con la rapidità d’esecuzione della manovra, si ottiene un’apertura silenziosa, esente da perniciosi cigolii e sfregamenti.

Poi: controllare d’aver indossato i calzini di cotone. Per la calura di luglio, infatti, la pianta nuda appiccica e, quando si stacca dal pavimento, emette un sottile pigolio, onda sonora debolissima, ma capace di raggiungere il giaciglio matriarcale e titillare il timpano della sentinella. Essere scoperti per uno sfortunato imprevisto non è disonorevole, ma fallire per imprudenza o faciloneria è da sciocchi.

E ancora: portare il tallone appena oltre le dita del piede d’appoggio e alzare le punte con cautela, strategia deambulatoria doppiamente vantaggiosa. Si evita in primo luogo che un movimento brusco provochi scrocchi d’articolazioni o scatti di tendini, che nella quiete perfetta del corridoio risuonerebbero come colpi di frusta; inoltre non si corre il rischio che una piastrella sconnessa – inavvertitamente sollevata calpestandola di spigolo – ricada col botto quando il peso del corpo l’abbandona in eccesso di velocità. Avanti così.

Ogni tanto mi fermo ad ascoltare. Bene se russa, vuol dire che non mi ha sentito e posso proseguire, ma se smette di ronfare o si rigira nel letto devo aspettare che il respiro torni a essere lento e sonoro. Talvolta parla. Poiché l’ultima cosa che fa prima di addormentarsi è intimarmi la ritirata e il silenzio, perdura in lei l’umore del piantone, così che quando un soprassalto di dormiveglia la fa rigirare, crede per un istante d’essere ancora di guardia e biascica al mio indirizzo assopite minacce caporalesche. Le prime volte mi spaventavo, credendola desta, ma ora so che sono falsi allarmi.

Oltre la porta in fondo al corridoio il più è fatto, ma bisogna ancora superare con perizia le insidie della scala. I gradini sono rivestiti di legno ma non sempre i listelli sono a contatto con la marmiglia sottostante, avvallata in più punti dalle salite e dalle discese di molte generazioni. Se il piede preme in corrispondenza di una concavità, esce dal legno un gemito breve, non fortissimo, ma bastante a rivelare l’incauto. Si evita il disastro rasentando il muro, dove la pietra fu meno calpestata dagli antenati e ora offre più saldo appoggio al rivestimento.

Dopo aver svoltato l’angolo fra la prima rampa e la seconda, non cedere alla tentazione di accelerare, e questo per due motivi: primo, il piede calzato di cotone tende a scivolare sul legno lucidato, e il rumore del capitombolo manderebbe tutto all’aria; secondo, devi dare agli occhi il tempo di abituarsi all’oscurità dell’androne malamente illuminato dalla lunetta sopra l’uscio.

Infine: sostare al fondo della scala per riposare le membra irrigidite dai movimenti circospetti e contratti, e anche per dar modo alla pompa cardiaca di ristabilire la distanza regolare fra sistole e diastole, abbreviata dal sovraccarico di tensione nervosa. Raggiungere la nicchia delle scarpe ed estrarre al tasto le scarpe di tela, quelle con le fibbie dorate e la tomaia occhiuta.

«Ciao mamma, io esco». È l’ite missa est della mia fuga quotidiana. Vano come saluto, dato che la dormiente non può riceverlo, ma utile ad attenuare il rimorso della disobbedienza: la buona volontà di avvisarla io ce la metto, non è colpa mia se nel sonno non può sentirmi. Alzo il chiavistello di scatto, in modo che il suo clac rimbombi glorioso nell’androne vuoto, balzo oltre la soglia e richiudo così forte che lo schianto del battente sembra uno sparo. Poi via di corsa nella campagna rovente, fingendo di non sentire le urla di sconfitta della svegliata, che spalancando gli scuri invoca su di me l’ira dei cieli e le pene degli abissi.

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