Il bar sotto il faggio (acquistabile qui) è un libro divertente, ma non solo. Un bar della profonda provincia marchigiana funziona come una fabbrica di storie: il titolare, che risponde al nomen omen di Capitano, impone i nomi ai personaggi che varcano la soglia del bar, privandoli al contempo del loro nome proprio, se mai ne hanno avuto uno. Una volta entrati saranno Tosca, Seghevara, Takkinen, Il Muto, Il Bello, e cominceranno volenti o nolenti a raccontare.
Al di sopra di tutti, invisibile ma fino a un certo punto, l’autore si affanna a tenere le fila di queste storie che hanno il dannato vizio di voler andare dove vogliono, con scarso o nullo rispetto per l’autorità del narratore onnisciente. Regge fin che può, l’autore, ma ogni tanto perde la pazienza e interrompe la narrazione per notificare al lettore la sua fatica e le sue tribolazioni di estensore del testo. Per dirgli, ad esempio, che scrivere una storia è un po’ come cucinare le lasagne, ma molto meno rischioso.
Il bar sotto il faggio, insomma, racconta innanzitutto come si sviluppa un racconto, da dove viene, con quali parole si condensa nella mente del narratore, con quali malie sfugge al controllo per andare dove vuole. A differenza del Bar Sport di Benni l’obbiettivo non è tanto descrivere e mitizzare i tipi da bar, ma catturare le loro storie e il modo in cui le raccontano. Non a caso l’autore afferma candidamente di non essere mai riuscito a superare pagina 20 del libro di Benni, il secondo libro che non riesce a finire negli ultimi 30 anni. Non è colpa di Benni, dice, forse è colpa di Freud.
Ma non pensi l’incauto lettore di queste mie note che Il bar sotto il faggio sia una specie di trattato di narratologia. È a tutti gli effetti un romanzo, una storia d’amore e di avventura, comica e drammatica al contempo. Letturalenta ne ha parlato con l’autore, Mauro Gasparini.
La copertina del libro indica due autori, Mauro Gasparini e Marco Cameli, ma il lettore lento e responsabile individua una mano sola: chi ha scritto Il bar sotto il faggio?
Siamo partiti, Marco ed io, più che da un soggetto da un luogo: il bar. Lo sviluppo della storia, le vicende di Anna e del narratore sono mie, come le otto stesure successive che separano il racconto pubblicato in rete da quello finito sulla carta.
A tergo del frontespizio compare la nota formula di negazione della realtà: Questa è una storia di fantasia, ogni somiglianza a fatti o personaggi reali è puramente casuale. Fino a che punto è vera questa affermazione?
Non del tutto, ma abbastanza da reggere in sede penale…
L’autore abita nel laborioso nord-est della penisola, ma neanche un lettore uzbeco crederebbe mai che il dialetto usato dai personaggi abbia una sia pur vaga parentela con parlate trivenete: come si spiega questa incongruenza?
Il dialetto marchigiano mi piace tantissimo, è ricchissimo e molto meno corrotto dell’italiese che sentivo parlare all’epoca qui nel veneto. Allora facevo così: pensavo alla battuta in dialetto, la mandavo a cammelli che la correggeva e me la rispediva. In un caso invece, la battuta era il cuore di un aneddoto, ma per le ragioni di cui sopra, non è il caso di approfondire.
Il campo da calcetto del bar sotto il faggio confina con il cimitero del borgo, e spesso le partite sono giocate un po’ sul campo e un po’ fra le lapidi. Una metafora per denunciare la morte del calcio giocato? Un riferimento alla labilità dei confini fra la vita e la morte (oggi di qua domani di là)? Altro?
Il campo di calcio col cimitero è una citazione, una dedica agli "Album" di Marco Paolini. La mia metafora è sulla indifferenza della morte alle cose dei vivi, ma anche a un modo diverso di percepire l’avvicendarsi delle generazioni nei piccoli centri. Centri nei quali, tra l’altro, sta morendo il calcio come fenomeno sociale.
I personaggi del libro, senza discriminazioni di sesso, religione, orientamento politico o censo, svengono spesso e volentieri. Perché?
Non lo so, io sapevo cosa volevo dalla storia, ma sul come arrivarci hanno sempre deciso i personaggi in proprio. Magari inconsciamente lo svenimento mi era congeniale ad una pubblicazione per puntate senza data certa sulla successiva.
Nel libro ci sono personaggi un po’ stronzi, ma nessuno veramente cattivo o spietato. Ripeto all’autore, rovesciandola, la domanda (scema, e me ne assumo in toto la responsabilità) che Sainte-Beuve rivolse a sé stesso dopo aver letto Madame Bovary: dov’è il male nel Bar sotto il faggio?
La mia posizione sull’argomento è una delle poche che ho chiare, trasversali a tutto quello che scrivo: il male è banale. Non solo non merita attenzione, ma in natura non esiste allo stato puro. La maggior parte di cattivi che ho conosciuto, sono nella migliore delle ipotesi squallidi. Se sono interessanti, hanno anche delle motivazioni non banali: conoscerle non consente di odiarli del tutto.
Takkinen dice:”mejo na vokta oggi che domà nzè sà se ce rrivemo”.
Io sono daccordo.
GRAZIE!!!
quando lo danno markette?
Non c’è di che, Marco.
benefo’, procura di uscire 2 parole sul papiro di dongo, piuttosto, che per la pesca non è stagione.
tutti a parlare del bar, e nessuno che offre
l’ho letto – in bozza, perfino
Effe, qui non s’offre, ma quo e qua, a dire il vero, non si sentono molto bene.
E lo sbozzasti, gabryella, mi dicono.