Nel suo primo numero di quest’anno, la rivista di informazione libraria Bookshop ha lanciato una simpatica inchiesta intitolata «Troppi libri, un mercato a due velocità. Il problema della “superproduzione” editoriale».
L’ipotesi di fondo è che l’uscita di oltre 50.000 novità all’anno combinata con un 67% di popolazione allergica all’acquisto di libri – come da recente indagine Demoskopea – sia un cocktail esplosivo. «L’intasamento dei canali» si legge nell’editoriale della rivista «e l’accorciamento del ciclo di vita di ciascun titolo, a livello distributivo, minaccia di far saltare principalmente il modello di business della libreria indipendente».
Nella prima parte dell’inchiesta sono state interpellate le piccole case editrici «scoprendo che, tra queste, c’è chi ha già iniziato a dare segnali concreti lanciando, da gennaio 2006, una campagna di informazione ai librai che annuncia il 15% della riduzione dei propri titoli. Si “taglia” per concentrare lo sforzo su un numero minore di libri, per raggiungere, grazie ad un lavoro più efficace di comunicazione e promozione, risultati migliori per tutti gli altri. Una iniziativa che sulla carta “potrebbe” far vendere di più».
Come tutti i fedelissimi adepti di letturalenta ricorderanno (ih ih ih, quanto mi piace sparare ‘ste monate), nell’ultima puntata del mio profondissimo e rivoluzionario saggio Le diatribe letterarie, prefiguravo uno scenario apocalittico in cui il lettore, stufo di essere preso per i fondelli dagli editori, adottava una strategia di difesa anticonsumistica. Mi autocito:
Il concetto di lettura si sta appiattendo su quello di consumo. (…) Ai fini statistici, leggere l’opera completa di Shakespeare è del tutto equivalente a leggere un pari numero di romanzetti da spiaggia. Ora, essendo molto più facile scrivere un romanzetto da spiaggia che un nuovo Amleto, ed essendo del pari consapevoli gli editori che un romanzetto da spiaggia ha un pubblico potenziale più vasto di un Amleto – e specialmente di un Amleto non targato Shakespeare – gli scrittori sanno che, in un regime letterario prono alle leggi di mercato, le probabilità di essere pubblicati sono direttamente proporzionali alla spiaggiabilità della loro opera, e inversamente proporzionali al suo amletismo.
Alla fine del giro, insomma, a rimetterci sarà il lettore, il quale in un futuro non molto lontano si ritroverà a investire i suoi quattrini e il suo tempo su libri sempre più scadenti. Che fare? Smettere di leggere? Improponibile: triplicherebbero gli omicidi volontari e le rapine a mano armata. Boicottare le grandi case editrici? Inutile: Melissa P. verrebbe pubblicata ugualmente. Far finta di niente? Moralmente deprecabile. Leggere un libro all’anno, ecco cosa si può fare. Scegliere un libro con criteri a piacere, anche casuali, piazzarlo in un luogo classico, tipo il bordo del caminetto o il comodino da notte, e leggerne due o tre pagine al giorno, non di più. Poi, quando è finito, rileggerlo da capo. Per un anno intero.
Questi primi risultati dell’inchiesta di Bookshop sono pertanto una piacevolissima sorpresa per me. Sembra che gli editori, almeno quelli piccoli, stiano cercando di andare incontro al lettore sulla strada di una ragionevole riduzione della dose media giornaliera di ingurgitazione libraria: meno libri per una lettura sempre più lenta e consapevole.
Forse è superfluo notare che un calo della quantità non implica necessariamente un innalzamento della qualità, tuttavia è evidente che produrre dieci titoli invece di quindici, a parità di risorse, consentirebbe di curare meglio le singole uscite, a partire dalla scelta dei testi da pubblicare fino alle azioni promozionali. Se tutto questo possa tradursi in maggiori opportunità di successo per i singoli titoli non dipende solo dalla volontà e dall’impegno dei piccoli editori: se i grandi continueranno a sfornare a ripetizione nuove uscite di qualità medio-bassa, il mercato tenderà a livellarsi su quegli standard e i piccoli rischieranno le penne.
Qualcosa mi dice che le major editoriali risponderanno all’inchiesta difendendo a spada tratta il diritto-dovere di inondare le librerie con migliaia di uscite, in modo da occupare una porzione più ampia possibile degli scaffali e, soprattutto, dei banchi dedicati alle novità. Spero di sbagliarmi, naturalmente.
Mah: a me il problema essenziale continua a sembrare la distribuzione, però. Tutto è viziato dal 55-60-65% sul prezzo di copertina degli strozzini nazionali: è chiaro che se tutti ‘sti soldi finiscono in tasca loro… per inciso aggiungo che fanno consapevolmente malissimo il loro lavoro, e che distribuiscono solo ciò che dà più incassi, e a volte neanche questo. Ci sarebbe da aggiungere, lo dico per chi non lo sapesse, che alcuni distributori stabiliscono anche il numero di copie che devono uscire, eleggendo a loro rappresentati chi può sostenere i ritmi indiavolati di una produzione ipertrofica e folle.
Eh eh, io invece io rovescerei la questione, e riporto il pensiero misantropo di un signore tedesco: “Piú ventagli di alberi spogli, ventagli di pizzo bruni, filigranati; piú libri e metri quadrati a testa: insomma meno persone!”.
Miku, l’alemanno in questione è Arno Schmidt? Se è lui, mi sa tanto che mi toccherà leggerlo, prima o poi.
Ma prima si deve sfornare ;-)
ciao letturalenta, mi fa paicere vedere un mio aticolo pubblicizzato sul tuo blog. grazie mille
melpunk, redattore di BS
Mel, lo imparo adesso che sei redattore di Bookshop, quindi non merito ringraziamenti. Attendo con curiosità la seconda parte dell’inchiesta.