DeriveApprodi da qualche anno sta ripubblicando i libri di Nanni Balestrini. Quest’anno è arrivata la ristampa di L’editore, che uscì da Bompiani nel 1989. Recita la quarta di copertina: «Un giovane regista, un professore universitario, un libraio e una giornalista si ritrovano durante un weekend in montagna a discutere sulla possibilità di realizzare una sceneggiatura cinematografica sulla vicenda di Giangiacomo Feltrinelli, l’editore dell’omonima casa editrice morto a causa di un’esplosione che nelle sue intenzioni doveva abbattere un traliccio dell’alta tensione a Segrate, alle porte di Milano».
Ho come l’impressione che Balestrini sia un autore molto conosciuto e poco letto. Nelle frequenti diatribe letterarie, in rete e non, il suo nome non compare quasi mai. Forse, come dice lui stesso in questa intervista, l’editoria italiana da un certo momento in avanti ha dimenticato gli anni ’70, e con loro ha dimenticato Balestrini, che di quegli anni è una delle principali voci narranti.
Nanni Balestrini è artista d’avanguardia quasi per antonomasia. Debuttò giovanissimo nel 1956 nella neonata rivista “Il Verri” di Luciano Anceschi, e nel 1961 fu uno dei poeti dell’antologia I Novissimi, che è un po’ il preludio della neoavanguardia e del gruppo ’63, di cui naturalmente Balestrini fece parte. Dopo il ’63 ha fatto anche il ’68 e ha partecipato per anni al movimento, come si chiamava quell’area politica eterogenea a sinistra del PCI, sempre in bilico fra velleità rivoluzionarie e tentativi di rappresentanza parlamentare sotto acronimi ormai dimenticati dai più, come Psiup e Pdup, fino al più sobrio Dp di Mario Capanna. Nel 1971 ha pubblicato con Feltrinelli Vogliamo tutto, un romanzo-cronaca sui moti operai di Torino del 1969. Fondatore e animatore di organizzazioni come Potere Operaio e Autonomia Operaia, nel 1979 fu accusato di omicidio e partecipazione a banda armata, e trascorse cinque anni in Francia, fino alla piena assoluzione nel 1984.
Vogliamo tutto era un libro scritto in presa diretta, semplicemente aprendo il microfono del registratore durante le riunioni, le assemblee, le manifestazioni del movimento operaio. L’editore, uscito diciassette anni dopo la morte di Giangiacomo Feltrinelli, è un libro della memoria, scritto registrando i ricordi di alcuni personaggi che all’epoca dei fatti erano su posizioni politiche di estrema sinistra. Con piglio decisamente metaletterario, il libro, per dirla con le sue stesse parole, è la storia di una storia che racconta un’altra storia o meglio altre storie o che piuttosto crede di raccontarle perché ciò che può essere mostrato non può essere detto.
Anche L’editore è a suo modo una registrazione in presa diretta, registrazione non di fatti, ma di memorie, e anche registrazione del senso di disillusione e di ritirata che caratterizza i vecchi movimentisti alla fine degli anni ottanta. Il ricordo della morte dell’editore si mescola con i ricordi personali dei personaggi, la Storia con le loro storie. Mentre cercano di tradurre la memoria in sceneggiatura, si accorgono di quanto le cose sono cambiate da allora e di quanto sono cambiati loro.
Alla dimensione storiografica, insomma, se ne aggiunge una sentimentale. I personaggi alla fine si rendono conto che la morte dell’editore non ha solo cambiato la fisionomia del movimento operaio, ma ha anche trasformato in modo irreversibile le loro vite: quelli che volevano tutto, che volevano cambiare il mondo, che volevano fare la rivoluzione, adesso non ci sono più. Per dirla ancora una volta con le parole del libro:
Tanto questo film non si farà mai disse lei la scena del funerale disse il biondo facendo finta di non sentirla e chiudendo la finestra perché c’era troppo vento è l’ultima scena è quella in cui tutti sono lì insieme per l’ultima volta per qualcosa che avevano in comune e che non c’è più
Soprattutto verso la fine della storia, Balestrini usa un tono quasi elegiaco, non senza qualche scivolata nel sentimentalismo, che è forse l’unico linguaggio possibile quando si parla della fine di un’epoca e di un modo di essere. A fine lettura resta una sensazione di incompiutezza, di sospensione indecifrabile. Né la morte dell’editore né le vicende dei personaggi acquistano un senso determinato e univoco, come se nell’atto di raccontare quelle storie a tanti anni di distanza l’autore non avesse voglia di emettere un giudizio, ma solo di riprodurre l’atmosfera di un periodo e riscattarlo dall’immagine cupa e violenta costruita dai media:
quello che è rimasto nella memoria di quasi tutta la gente di quel periodo degli anni 70 è che è stato un periodo cupo e sanguinoso mentre come tutti ci ricordiamo è stato un periodo sì duro e teso ma soprattutto di vitalità e di gioia e di intelligenza e di passione
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“avremmo potuto farne a meno”?
Dipende.
Nanni Balestrini fu anche collaboratore eminente di “Quindici”, il quindicinale del Gruppo ’63.
Bart
Sì, e ha fatto un sacco di altre cose, troppe per un solo post. Sul suo sito c’è una biografia molto dettagliata.