Circa quattro anni fa, in una recensione a Lettere a Milena postata in icl, l’autrice Ol’ga riportava questo passo di una lettera di Kafka:
«È all’incirca come quando uno, prima di ogni passeggiata, dovesse non solo lavarsi, pettinarsi ecc. – già questo costa fatica – ma siccome prima di ogni passeggiata gli mancano sempre tutte le cose necessarie, dovesse anche cucirsi il vestito, farsi le scarpe, fabbricarsi il cappello, tagliare il bastone e così via».
Questo brano, dissi allora in risposta alla recensione, pone «l’accento sulla fatica di Kafka, la sua sensazione di non essere attrezzato per stare al mondo, l’angoscia di non saper andare al di là».
E aggiungevo:
«Quando cerco di leggere Kafka mi sento esattamente così: affaticato, disarmato, inquieto. È come un muro da scalare. Ci provo a più riprese, ci rinuncio, lo mollo per anni e poi ci riprovo, per vedere se il tempo mi ha fornito l’attrezzatura giusta per poter andare al di là. Macché! Io invecchio, divento più lento, più pesante, le mie chance di riuscire a oltrepassare il muro calano inesorabilmente».
E posso dire che negli ultimi quattro anni non ho fatto progressi significativi. Kafka per me continua a essere in buona misura invalicabile, e non perché sia un autore difficile o particolarmente oscuro, ma per motivi diametralmente opposti: è talmente chiaro e comprensibile da risultare inaccettabile, respingente, repellente. La realtà che mette in scena, soprattutto nei racconti, è così precisa, dettagliata e internamente coerente da risultare spaventosa. Kafka non è un surrealista o uno scrittore fantastico, ma un iper-realista che descrive il mondo citando tutti i particolari, anche i meno appariscenti, e dando a tutti i dettagli lo stesso rilievo e la stessa importanza. Questa precisione estrema ha un effetto sconvolgente, perché porta in primo piano questioni che nella vita di tutti i giorni noi comuni mortali tendiamo a considerare marginali o scontate. Atti naturali come mangiare e bere, passeggiare, assistere a uno spettacolo, addormentarsi e risvegliarsi, lavorare, vestirsi e spogliarsi, in Kafka diventano fatiche improbe, fonti di dubbi angoscianti, barriere insuperabili, incubi.
A riprova del fatto che i miei progressi su Kafka sono generalmente trascurabili, quasi un anno dopo sempre in icl scrivevo:
«Io, quando m’azzardo a leggerlo, cado in uno stato di sospensione della percezione, una sorta di straniamento, con forti rassomiglianze al rincoglionimento però. Il risultato è che al termine di una qualsivoglia lettura kafkiana ho bisogno di una forte iniezione di realtà, come fare una passeggiata, mangiare un gelato, o cose simili».
Una realtà in cui tutto è in primo piano è una realtà inquietante quasi per definizione. La prospettiva e la distanza sono rassicuranti: una diga vista da lontano non turba più di tanto, ma trovarsela davanti all’improvviso durante una gita nei boschi in una giornata nebbiosa – un gigantesco blocco di cemento sorto da chissà dove che occupa tutta la visuale – mette addosso una paura tremenda. Lo dico con cognizione di causa, perché mi è successo vent’anni fa e ancora non l’ho dimenticato. La realtà messa in scena da Kafka ha le stesse caratteristiche di quella diga: è angosciante perché incombe, perché è troppo vicina, perché non lascia vie di scampo, perché è talmente enorme da diventare tutto.
Nella discussione di tre anni fa Damiano Zerneri, kafkiano di lungo corso, esemplificava così la mia dichiarazione di straniamento tendente al rincoglionimento:
«Mi pare che il procedere dello straniamento agisca in questo modo: tu leggi una storia, poniamo si tratti del Processo di cui abbiamo appena parlato, nella quale non c’è nemmeno un particolare il quale nella sua essenza sia meno che reale. Eppure quella realtà è come traslata in un’area straniante, reale ma nello stesso altra, da suscitare sensazioni contrastanti. Riemergi dal libro, vale a dire dalla realtà altra e subito hai voglia, per reazione, per disagio, di una realtà questa».
Al che concludevo:
«Sì, direi che ci siamo. Kafka è realista in una realtà che appartiene interamente solo a lui. Non è surrealista, non è impressionista, non rimanda in alcun modo intenzionale alla realtà questa, come dici tu. Quando leggo Kafka so perfettamente dove sono, ma non saprei dire come ci sono arrivato; so che non è il mio mondo, ma non saprei dire perché non lo è».
Sì d’accordo – dirà il perplesso lettore – ma perché stai qui a menarmela con queste kafkiane rimembranze?
Eh, che domande. Mi sembra ovvio che lo faccio a causa di un libro, altrimenti che razza di lettore sarei? Il libro è Kafka pro e contro, un saggio di Günther Anders pubblicato di recente da Quodlibet, in cui ho ritrovato molti dei temi che uscirono in quelle discussioni libresche di qualche anno fa: il realismo di Kafka, la sua inadeguatezza a vivere, l’invalicabilità della sua prosa, l’angoscia di non poter andare al di là.
E proprio su questo tema l’analisi stringente e raffinata di Anders offre un punto di vista originale ed efficace, l’idea cioè che per Kafka l’aldilà coincide con l’aldiqua comunemente inteso: mentre gli uomini solitamente identificano l’aldilà con il mondo ultraterreno, Kafka lo identifica con questo mondo, con la realtà da cui si sente escluso e a cui tenta invano di appartenere.
Sono già andato lungo e quindi mi fermo qui, ma forse sul libro di Anders dirò altro, presto o tardi.
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Quel libro di Anders, e le repliche di Max Brod, aprirono una serrato dibattito sull’autore, in un periodo, si stenta a crederlo ma è così, la ricezione di Kafka era, nella Germania del dopoguerra, appena agli inizi.
P.s.
Io ho rinunciato da tempo a leggere K, neanche ci provo più. Troppi oggetti nell’aldiquà, che non dovrebbero esserci, su cui si batte il naso.
Tra le tante cose che non ho potuto godere, e che non potrò più godere è certamente America di Fellini. Una sceneggiatura scritta con T. Pinelli. Un intermezzo, un progetto, forse spinto dal figlio di Simenon gia vice della fox, o forse un debito di fellini con se stesso, già perchè diceva:” K. sono io”. Cosa c’entra questo? Mi piace la storia della diga, e mi piace l’onestà e l’amore per la troppa comprensione. Per quel bisogno di rimandare, di urgente necessità a postecipare. Mi piace il dichiararsi non adatto, cioè adattissimo. Poi, riflettendo il nodo è già sciolto, e quello personale dirompente, quasi allucinatorio, perfettamente razionale, ed è il debito che si ha con noi stessi. Infondo sono atti consolatori, dove sappiamo che sta li e prima o poi riferiremo in prima persona.
Dissento e concordo (quando si parla di Kaaka, è possibile).
Dichiaro anzitempo d’essere un lettor-dipendene da Kakfa.
Il Processo e la Nausea di Sartre sono i primi libri che ricordo di aver “letto” veramente (invero la sensazione era stata di “venir letto” da quei libri, e lei sa di cosa parlo).
Ritengo esatto e insufficiente dire che Kafka è un realista.
E’ esatto perché Kaka denuda le cose, le mostra improvvise e mostruose per quel che sono. E’come una luce fredda che illumina il mondo, e non lo inventa o trasfigura.
E’ però insufficeinte, perché Kafka ha una visione che (a me) ricorda da un punto di vista tecnico quella di Magritte: particolari del tutto realistici, addirittura con pecisione da osservazione al microscopio, ma disvelati in contesti altri.
Io mi accosto a lei, perché ogni cosa necessita del suo contrario: da anni provo a rendermi indipendente da Kafka, e ora che invecchio credo d’avere più pretesti per farlo.
Ma non ci riesco, e forse non ci riuscirò mai.
Miku, ti lancio un appello (tanto è leggero e anche se ti colpisce non fa male): torna a leggere Kafka! Soprattutto tu, che puoi apprezzarne anche la raffinatezza linguistica in originale, non puoi non leggere Kafka.
michele, è assolutamente vero: Kafka può essere differito, rimandato, lasciato a dormire per anni sugli scaffali, ma prima o poi torna a giudicarci.
Io concordo completamente, Effe, anche per la parte in cui Ella dissente. Un realismo esasperato, curato nei minimi particolari, diventa giocoforza “altro”. Diventa quanto meno una forma di allucinazione (ma preferisco il termine iper-realtà, perché allucinazione fa pensare a droghe e sostanze stupefacenti, cosa che Kafka non è).
Le definizioni, poi, sono insufficienti… per definizione, perché si tratta comunque di tracciare confini e mettere paletti, e qualcosa resta fuori per forza. Ridurre uno come Kafka a un solo termine, come “realista”, poi, sarebbe non solo insufficiente, ma criminale.
a me succede con virginia woolf, per un eccesso di descrizione della realtà interiore. Ssto cercando di leggere Le Onde da mesi, ma ogni quarto d’ora mi fermo desiderando la visione di un film dei Vanzina. L’attenzione per tutti quei pensieri e sensazioni anche minuscole mi spaventa, ho paura se iniziassi ad esercitarla su me stessa potrei scivolare nella follia (forse perché ho la tendenza a un eccesso di introspezione ma so che devo ridimensionare se voglio vivere).
AmeriKa, è finisco, non è un viaggio di piacere (ritorna l’antico tema ebraico dell’esodo) così esplicitamente Kafka fa “servire” al suo protagonista Karl in una cittadina che si chiamerà Ramses, come una di quelle in cui gli ebrei patirono la schiavitù (Esodo I,11-14). Il percorso continua, con il precedente, i precedenti. Perec ci ricorda che la statua della libertà in America di K. non ha la fiaccola ma bensì la spada, e ci vuole raccontare del suo di progetto: “Ellis Island”. Così riporto in “sono nato” “….fu così che la mia esperienza di sognatore divenne, per forza di cose, esperienza di sola scrittura: né rivelazioni di simboli, né divagare di senso, né messa in luce della verità (sebbene mi sembri che, sotterrato infondo a questi testi, sia descritto un percorso, una ricerca esitante), ma…” Mi sono permesso pedantemente qui in “Casa D’altri” di tracciare un maldestro parallelo se critico, ma è solo un affettuoso ricordo, un ringraziamento a letturalenta, alle forme (muri e dighe) che sono anche sostanza. Così come una diga trattiene l’acqua (per un attimo, sarà stata quella del nilo, ne sono c’erto), improvvisamente in una passeggiata, nella nostra passeggiata da lettori traghettati.
Sono sempre meravigliato quando trovo delle similitudini in qualche blog, così non ho potuto fare a meno di commentare questo post, dal momento che proprio ieri sera, cercando un libro da (ri)leggere, sono finito sulla “Metamorfosi e altri racconti”. Non sono ancora in grado di dire se anche le impressioni alla lettura siano simili alle tue, ma perlomeno stamattina, gli arti li ho ritrovati al loro posto e ho potuto alzarmi senza dovermi buttare di peso giù dal letto. ;-)
Zycron, non oso consigliarti di mollare la Woolf per passare a Kafka. Gli effetti potrebbero essere devastanti!
Michele, grazie per il parallelo con Perec, che qui è particolarmente gradito.
Robi, mi fa piacere questa coincidenza di letture kafkiane. Fortunatamente l’effetto metamorfico sparisce a libro chiuso, ma ti posso garantire che, mentre leggevi, eri a tutti gli effetti dotato di elitre e zampette.