[dtfn] VI – Novella prima

(Il manoscritto ritrovato di letturalenta. Frontespizio e indice)

Saku Paasilahti: De te, fabula narratur (1999), tratto da http://rikart.lib.hel.fi/Noto in te sintomi di perplessità: un sopracciglio inarcato, un leggero segno di diniego accompagnato da un ghigno ironico, una mano raccolta a imbuto che ripetutamente oscilla dalle parti del mento. Forse ti sembra che il mio discorso si stia facendo oscuro? Credi che la mia autocoscienza vacilli? Pensi che io stia divagando? No, davvero, su questo voglio rassicurarti: il mio percorso narrativo è sotto controllo, la mia trama si sta sviluppando secondo il progetto originario, e tutte le intenzioni e le promesse verranno mantenute. Però non hai tutti i torti a rilevare una piccola deriva sibillina. Capisco che ti turbi e ti perplima. Tenterò di rimediare portando a sostegno delle mie teorie poetiche l’esempio di un racconto non ancora trascritto, ma che qui da noi è già un best-seller.

[Senti, è inutile che tu continui a tormentarmi con questa solfa del diritto di prelazione, cosa inaudita che suppongo tu abbia inventato per l’occasione. Me ne frego se è giapponese, è chiaro? Una storia è una storia è una storia è una storia, ed è patrimonio di tutti, nessuno escluso! Se ti va di scriverla, scrivila come ti pare, ma piantala di assillarmi con queste baggianate!]

Scusa, sai, ma c’è un romanzo giapponese che mi ossessiona con questa assurdità: sostiene che una storia giapponese debbe essere trascritta in giapponese prima che altri racconti possano farla propria. Ma quando mai! La verità è che teme la concorrenza, l’infingardo. Va be’, basta là, tiruma innanz.

Storia di un giapponese anonimo che si dimenticò di morire

In un tempo non particolarmente remoto viveva in Giappone un tale che il mondo aveva perso di vista. Di giorno vagava per le periferie di Tokyo spingendo un carretto carico di mattoni, tavelle, travicelli e laterizi vari, forse oggetto di un suo minuto e misterioso commercio. Nessuno conosceva il suo nome, nessuno sapeva dove passasse la notte, era come se il mondo non lo vedesse. Una situazione alquanto imbarazzante, in verità, ma non era sempre andata in questo modo. Molti anni prima quel signore era stato un normalissimo bambino giapponese e, al pari della maggior parte dei bambini giapponesi, viveva con una madre giapponese e un padre giapponese in una casa molto bella con il pavimento di legno, i tramezzi di legno e un giardino piccolo ma molto ben curato. Aveva anche una sorella giapponese di qualche anno più grande di lui, e frequentava una scuola assieme a molti compagni di classe giapponesi, uniti dal desiderio di diventare un giorno uomini stimati e capaci di tenere alto nel mondo l’onore del Giappone.

Il padre era un ingegnere edile, titolare di un’impresa di costruzioni ben avviata che costruiva case in cemento e mattoni alla periferia di Tokyo. Un giorno il bambino chiese a suo padre perché mai loro abitavano in una casa di legno, se lui era capace di costruire quelle belle case di pietra che gli sembravano molto solide e confortevoli, e assai meno soggette di quelle di legno al rischio di prendere fuoco ogni volta che si preparava il tè. Il padre gli rifilò un manrovescio e gli urlò in faccia che era solo un bamboccio viziato e imbecille che non capiva un accidenti di case giapponesi. Il bambino si offese a morte, non tanto per il ceffone, che non era il primo che prendeva e – pensò allora – non sarebbe stato neanche l’ultimo, quanto per l’accusa di non capire niente di case giapponesi, specialmente perché a quell’epoca – preso com’era da uno spirito di emulazione tipico di tutti i bambini, ma particolarmente accentuato in quelli giapponesi – aveva letto molti libri sull’architettura giapponese dal neolitico all’età moderna, ed era certo di avere sull’argomento una preparazione molto superiore a quella del bambino giapponese medio.

Per non dare a suo padre la soddisfazione di vederlo piangere, si ritirò dignitosamente nella sua cameretta dalle pareti di legno, chiuse la porta scorrevole di legno e si accasciò sul pavimento di legno, in preda a violente convulsioni che inutilmente cercava di reprimere. Dopo un po’, quando la rabbia e l’umiliazione iniziarono a scemare, si alzò in piedi, strinse i pugni contro il cielo e giurò solennemente a sé stesso che un giorno sarebbe diventato il più famoso costruttore giapponese di case in cemento e mattoni, e che non avrebbe mai più abitato in una stupida casa di legno.

E così fu.

Dopo nemmeno trent’anni dal giorno del giuramento, quel signore viveva in una bellissima casa di cemento e mattoni che lui stesso aveva progettato e costruito e dotato altresì di pavimenti di marmo e solidi tramezzi in muratura. Aveva ingrandito il giro d’affari dell’impresa paterna, conquistandosi una notevole fama nel mondo dell’edilizia giapponese, e sognava il giorno in cui l’imperatore in persona l’avrebbe convocato a corte per consegnargli il Primo Ordine del Sacro Tesoro. Entrambi i genitori erano morti da tempo, e dell’antica famiglia sopravviveva soltanto la sorella, la quale, spirito invero alquanto tradizionalista, si ostinava ad abitare nell’avita dimora lignea. Così quel tale condivideva le numerose stanze soltanto con il figlioletto e con un paio di domestici, essendo la madre di suo figlio morta nel darlo alla luce. Un giorno il bambino chiese a suo padre perché mai loro abitavano in una casa di pietra e non in una casa di legno come quella della zia, che gli sembrava molto più accogliente ed elegante, anche se soggetta al rischio di prendere fuoco ogni volta che la zia preparava il tè. Il padre si accosciò davanti al bambino, gli prese entrambe le mani nelle sue, fissò occhi sorridenti in quelli grandi e neri e mandorlimorfi del figlio, e lo abbracciò.

Tempi difficili si apprestavano, e nubi oscure si addensavano sui cieli del Giappone. Dopo anni di crescita continua, l’economia cominciò a contrarsi fino a sfociare in aperta recessione. Milioni di posti di lavoro svanirono nel nulla, perché le imprese non erano più in grado di far fronte ai debiti. La domanda interna subì un tracollo, e presto arrivò lo spettro temutissimo della deflazione. Il denaro quasi sparì dalla circolazione, e molti non ne avevano a sufficienza nemmeno per campare la giornata, figuriamoci per comprare una casa di cemento e mattoni. La grande impresa edile crollò sotto il peso delle ingiunzioni delle banche creditrici. A stento quel signore giapponese salvò la casa di pietra, intestandola alla sorella, ma venne il giorno in cui anche quella dovette essere venduta a un prezzo tutt’altro che vantaggioso. Quello stesso giorno egli accompagnò il figlio dalla zia, nella vecchia casa di legno dove lui stesso era nato, e a lei lo raccomandò. Sorrise al figlio dicendogli che era un bambino molto fortunato, perché quel giorno realizzava il sogno di abitare in una casa di legno. A entrambi augurò buona fortuna e promise che sarebbe tornato quando fosse riuscito a ricostruire la propria. Il bambino rimase sulla porta di casa fin quando potè vedere la schiena del padre che si allontanava. Poi si ritirò dignitosamente nella sua cameretta dalle pareti di legno, chiuse la porta scorrevole di legno e si accasciò sul pavimento di legno, in preda a violente convulsioni che inutilmente cercava di reprimere. Dopo un po’ si alzò in piedi, strinse i pugni contro il cielo e pianse di nuovo.

Settant’anni dopo quel triste congedo, gli operai incaricati della demolizione di un casa in costruzione, ma abbandonata ormai da tempo immemorabile, rinvenirono in una stanzetta a piano terra lo scheletro di un uomo adagiato su una brandina da campo. Su un tavolaccio di legno lì accanto, oltre a un compendio di architettura giapponese dal neolitico all’età moderna finemente rilegato, trovarono un giornale di vent’anni prima e un mozzicone di matita, presumibilmente lo stesso con cui l’uomo che si era dimenticato di morire aveva cerchiato con mano malferma il titolo di un articolo a centro pagina. Sotto il titolo c’era la fotografia dell’imperatore nell’atto di consegnare un’onorificenza a un distinto signore giapponese sulla sessantina, molto sorridente. L’articolo diceva che quel signore era un famoso scrittore a cui l’imperatore conferiva il Primo Ordine del Sacro Tesoro per i suoi alti meriti artistici. I suoi tre romanzi – La casa di pietra, La casa di legno e Un padre perduto – avevano dominato le classifiche giapponesi negli ultimi dieci anni ed erano stati tradotti in venti lingue, asiatiche, europee e africane.

10 Responses to “[dtfn] VI – Novella prima”

  1. Racconti molto bene.

    Bart

  2. Gabriella says:

    Opperbacco! Davvero bella codesta novella!

  3. Complimenti per il pezzo sulla Stampa di oggi… “profeta del lentismo”. In questi giorni posso intervistarti?

  4. letturalenta says:

    Grazie della notizia Tonino! Sapevo che l’articolo doveva uscire, ma non sapevo quando. Ti nomino all’impiedi capo ufficio stampa di letturalenta. Intervistarmi, dici? Contento tu, intervistami pure :-)

  5. tonino pintacuda says:

    Onorato, Luca. Preparo una bozza sul piacere della lettura e implicazioni di tale esperienza e ti passo una serie di domande.
    Grazie a te.

  6. Sonnenbarke says:

    Bellissima novella, Luca, grazie.
    E complimenti per l’apparizione sulla Stampa.

    PS: Ma hai mai fatto caso che molti dei tuoi post sono pubblicati alle 0:01? Secondo me è inquietante…

    Marina

  7. letturalenta says:

    Ciao Marina, grazie della visita. In realtà le 0:01 non sono un caso, ma un vezzo. Insomma, lo faccio apposta! Complimenti a te per l’occhio finissimo, piuttosto.

    Quanto alla novella, giro il complimento al racconto protagonista di questo strampalatissimo manoscritto ritrovato. Il quale racconto ha peraltro verso il suo autore parole tutt’altro che lusinghiere… (vedi il finale del capitolo I)

  8. Sonnenbarke says:

    Ah, volevo ben dire!

    Sì sì, mi ricordo le pochissimo lusinghiere parole che il tuo racconto rivolge al suo autore. Impertinente, a dir poco.

    Ti leggo sempre con grande piacere.

  9. CalMa says:

    L’ultimo comma del commento precedente lo fo mio. Bellissima novella.

  10. […] Più ti leggo e più mi convinco che tu nutra un sincero amore per la verità e un’ottima disposizione d’animo nei confronti dell’attesa e delle avversità. Raramente un uomo vede i suoi sogni realizzati nel breve lasso di sua vita mortale, e ancor più di rado, credimi, questa sorte tocca ai racconti. Per rendere salda e inattaccabile codesta similitudine dovrei spiegare tritamente in che consiste la vita mortale di un racconto, e cosa la distingua da quella che precede la sua nascita e da quella che segue la sua morte, ma il timore di cedere a quell’afflato gnomico e didascalico che tanto male ha recato e reca alla narrativa di tutti i tempi mi trattiene dal farlo. La Storia di un giapponese anonimo che si dimenticò di morire allude in minimissima parte a questo mistero così denso e affascinante, ma quanto ancora si dovrebbe dire su di esso, se solo le parole vi aderissero. Molti frammenti di vita, però, tanto di vita letteraria quanto di vita umana, sfuggono lesti e agili alla salda immortalante presa delle parole, non so se per timidezza o per alterigia. Né saprei dire se questo sia guadagno o danno per la letteratura, ma in ogni caso noi racconti siamo rassegnati alla presenza dell’indicibile, e lo trattiamo da sempre per via di simboli, metafore, allegorie, similitudini, allusioni, infingimenti, maschere, velami, paludamenti, ermetismi, se non talvolta con autentiche svergognate menzogne. Ma il nostro mentire, sàppilo, non è certo una disdicevole truffa per procurarci illeciti profitti, bensì il frutto ineluttabile del nostro amore illimitato e castissimo per l’umanità. Non per dolo narriamo cose inverosimili o diciamo il contrario di un onesto dire, ma ciò accade nostro malgrado, mentre tentiamo di distillare l’essenza pura e vera delle vostre adorabili esistenze. […]

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