La calura, si sa, favorisce l’evaporazione dell’acqua e degli umani, che in gran parte d’acqua sono composti. A questa osservazione naturalistica se ne aggiunga una d’ordine poetico: calura fa rima con clausura. Da codesti assiomi si evince che un individuo appartenente alla specie umana esposto a temperature elevate cercherà di ostacolare l’evaporazione di sé medesimo, imponendosi uno stile di vita claustrale.
Gli effetti del suddetto comportamento – dettato forse dal comune istinto di sopravvivenza, forse dalle superiori doti intellettuali dell’umano genere – sono le più disparate: stanchezza, indolenza, attacchi improvvisi di misantropia, sublimi onanismi mentali, visioni mistiche di campi innevati, e un generico rilassamento morale, che nei casi più acuti può spingere alle azioni più inconsulte, come seguire con interesse un talk show d’argomento socio-politico.
Questo, in sintesi, è quello che ho risposto a Fabio, che giusto ieri mi mandava un’email per invitarmi a mangiare una pizza, lui Mario e io. «Scusa neh» ha risposto Fabio quasi subito «ma non facevi prima a dire che non ne hai voglia?». Al che, lo confesso, mi sono risentito, ma mi sono armato di pazienza e ho risposto a mia volta:
Caro Fabio, dire che non ne ho voglia sarebbe una risposta superficiale e vaga. Potrebbe anche contenere un barlume di verità, non lo nego, ma a che serve la verità senza il supporto di un’adeguata coloritura? «Non ne ho voglia» – magari con l’aggiunta di uno «, scusa» diplomatico – è una risposta buona per un sms o per una telefonata. Roba che si dimentica il giorno dopo. Ma se tu mi scrivi per email, è evidente che non ti interessa conoscere la verità nuda e cruda, ma la vuoi ben nascosta in un oscuro apparato retorico.
Un’email, caro Fabio, è un’istigazione a scrivere, e la scrittura non ha il dono dell’immediatezza, ma in contraccambio ha quello della durata. Fra dieci o vent’anni – quando, illuminato da un lampo di nostalgia, indagherai sul tuo passato – scoverai questo scambio epistolare nell’archivio della posta elettronica, e le ormai molte rughe sparse sul tuo volto si spianeranno in un sorriso indulgente e commosso.
E poi, scusa sai, prendi la letteratura, prendi Anna Karenina. Secondo te, Tolstoj, che cazzo l’ha scritto a fare Anna Karenina? Poteva cavarsela con molto meno, no? Poteva, che so, farsi due chiacchiere con un mugiko amico suo, dirgli «Eh, Misha, le disgrazie… Pensa che una volta ho conosciuto una signora – bravo marito, bella casa, soldi a palate – che s’è persa dietro un ufficiale di cavalleria. Lui l’ha mollata e lei s’è buttata sotto un treno. Pensa te le disgrazie, caro Misha…» E invece no. Invece Tolstoj s’è rigirato in testa quella faccenda fino a cavarne un romanzo di ottocento pagine, ricco di osservazioni acutissime sull’infelicità familiare e sulla condizione della donna borghese nella società zarista del diciannovesimo secolo.
Il mugiko Misha era uno pieno di impegni, sai, mica uno sfaticato. Doveva pensare a mungere le vacche, arare e seminare, sistemare il tetto della stalla, vendere le uova e le mele al mercato. Preso com’era dalle sue occupazioni, figùrati se passati anche solo due giorni si sarebbe ricordato delle chiacchiere col signor conte. Invece, dieci o quindici anni dopo, Tolstoj gli avrà regalato una copia di Anna Karenina. Misha, tra una mietitura e l’altra, avrà letto tutto il libro e alla fine avrà concluso: «Pensa te, le disgrazie…». Vedi che poi, alla fine, il messaggio arriva lo stesso, ma vuoi mettere Anna Karenina contro una chiacchierata fra amici? Buona pizza, e salutami Mario.
Quasi non ho fatto in tempo a premere il tasto «Invia», che mi è arrivata la risposta di Fabio: «Appunto. Il messaggio che non ne hai voglia era arrivato subito :-). Scappo, che c’è Mario giù che aspetta».
Sono rimasto a fissare il monitor per dieci minuti buoni, scorrendo centinaia di volte le poche parole della risposta, e chiedendomi come Fabio avesse potuto leggere la mia mail in pochi secondi. Mi sono risposto che non l’aveva letta tutta. Quasi certamente ha letto solo l’ultima riga e ha risposto agganciandosi al mio «il messaggio arriva lo stesso». In fondo mi conosce da anni e sa bene che le cose importanti le dico solo all’ultimo, quando mi ricordo di dirle. Poi ho guardato e riguardato l’emoticon, la faccina sorridente, chiedendomi se fosse una semplice presa per i fondelli o non piuttosto l’espressione ammiccante della saggezza pratica di cui Fabio abbonda, e che a me manca del tutto. A questo non ho saputo rispondere.
Ma non c’erano solo quelle domande. Pian piano, da un qualche mio recesso cerebrale, andava prendendo forma un pensiero vago, un dubbio. Sfumato e incerto, all’inizio, poi sempre più chiaro, fino a conquistarsi il diritto alla verbalizzazione con queste esatte parole: «Ma alla fin fine, Tolstoj, che cazzo l’ha scritto a fare Anna Karenina?».
Divertente e bella: mi vengono in mente in proposito le pagine del Diario Minimo di Eco: le conosci vero? Quelle sui riassunti dei romanzi e l’affermazione di Borges che un romanzo è un racconto allungato.
Ecco, adesso replica tu a Borges (se hai altro da aggiungere) che io vado a mangiarmi una pizza. :)
Eh, Borges… eh, Eco… roba troppo raffinata e culta per un povero lettore di provincia. Però il punto è proprio quello. Le vicende narrate, le trame, gli intrecci sono sempre riducibili a poche battute. Quel che conta in letteratura, come nella frutta, non è il nocciolo, ma quello che ci sta intorno.
E buona pizza anche a te!
non so se l’ho già detto, ma la scritta “Read the rest of this entry” è veramente angosciante.
un lol ci sta tutto.
divina, la sintesi – ah, la sint
A tal proposito, in questa storiella a me sta molto simpatico il Fabio, autore di email monoriga. Ancor di più il Mario, appena nominato e affatto taciturno :-)
Vedo che nei commenti al tuo blog è riaffiorato dalle nebbie di Icl Paolo Beneforti. Nei commenti al mio, niente ***popò*** di meno che Red Wine:- )
Occheè, il ritorno degli iclers viventi? Vado a sbirciare.
guardi, il percorso è un poco complesso, provo a a essere sintetico anche io
Allora, Lev l’aveva infatti detto, a Misha, di quella cosa delle disgrazie, ma a Misha gli turbinavano, quel dì, e avrà avuto i suoi motivi, no?, e non diede retta a Lev
Lev allora pensò: Mo’ gli scrivo un biglietto, a Misha, così se lo legge quando ci ha tempo
E poi lo sa come vanno le cose, il biglietto diventò pagina, la pagina capitolo, e il capitolo libro
Tutto contento, dopo due anni di scrittura e riscrittura Lev torna da Mischa e gli dice Ohé, Misha, te tu ricordi di quella cosa della Karenina?
Mmh? bofonchia Misha
Massì, riprende Lev, quella del treno.
Treno?, ripete dubbioso Misha, Niet treno.
‘Mbé, non importa se non ti ricordi, ti ho scritto tutto qui
Mmh?
Qui, nel libro.
Libro? Niet libro.
E, in effeti, il muzik mica sapeva leggere.
Nevvero, chi ha tempo per imparare a leggere, nella steppa.
Le dirò, Herr, lo facevo un po’ più sveglio, quel Misha. Dopotutto aveva un nipote seminarista. Poteva farselo leggere da lui, che diamine.
Va bene la lettura lenta, ma qui lenta, troppo lenta, è purtroppo la tua scrittura e non vi succede abbastanza per riempire o almeno animare quei tempi suoi che paiono interminabili.
Scusa, eh, se da passante mi son permesso (ma ho letto un po’ anche indietro).
Ciao e, comunque, complimenti per l’impegno
Oh be’, che succeda qualcosa qui e ora, con questo caldo e questa voglia di staccare la spina, mi pare una richiesta francamente esagerata. E poi devo farmi una cultura sui torni paralleli e le rettificatrici tangenziali.
cmq la settimana scorsa, che a mangiare la pizza è andato, non è venuta fuori una cosa così divertente.
Gli è che sono lento, ipa, costantemente sfasato di una settimana o due.
evaporo .
*O
Vaga stella dell’orsa, manco arrivata e già te ne vai.
Oggi se vuoi raccontare qualcosa, devi per forza scrivere. Non ci sono più i mugiki di una volta, né quei bei salotti pieni di nobili che, per darsi un tono, parlavano in francese. Nessuno ti sta a sentire, tutti hanno traduzioni da consegnare, partite imperdibili da vedere o hanno appena calato gli spaghetti. Non ci resta che scrivere.
Pamela, il tuo ‘non ci resta che scrivere’ ha un’assonanza sinistra con il ‘non ci resta che piangere’ del vecchio film di Troisi e Benigni :-) Comunque scriviamo, scriviamo, che qualcuno prima o poi leggerà.