Devo ricordarmi, devo ricordarmi, devo ricordarmi di comprare l’ultimo libro di Michele Mari, che si intitola Verderame.
Michele Mari, che io sappia, è l’unico scrittore di letteratura cosiddetta “alta” ad avere un vero e proprio seguito di fan, gente che attende con ansia l’uscita del suo prossimo libro. Ansia del tutto paragonabile a quella che assale i fan di autori più popolari. Ansia accresciuta dall’estenuante irregolarità del ciclo produttivo del Sommo: capace di starsene zitto per cinque anni e poi uscire di botto con due libri, come è successo quest’anno. Una sorta di doccia scozzese letteraria.
Credo che il successo di Michele Mari dipenda in buona misura dalla sua capacità di racchiudere in forme raffinatissime temi e miti popolarissimi. Leggere Io venia pien d’angoscia a rimirarti per credere. Il fan club marista si distingue dagli altri per il suo carattere appartato e schivo, per non dire ctonio e catafratto, forse ispirato ad analoghi tratti psicologici del Maestro. Dei maristi si sa a malapena che esistono: niente forum o chatline dedicate; un sito periferico – aggiornato di lustro in lustro – a celebrarne i fasti; niente raduni; niente azioni di guerrilla marketing o di flash mobbing.
Tutto ciò alimenta la leggenda che i lettori di Mari siano tipi strani, asociali, ambigui e non esenti da un vago e verecondo onanismo, non necessariamente mentale. Tutte frottole messe in circolazione da detrattori infami. Verderame è uscito senza clamori, quasi in sordina. Dubito che D’Orrico abbia insignito Michele Mari del consueto titolo di più grande scrittore vivente della settimana e i maggiori litblog nazionali l’hanno praticamente ignorato. E tuttavia il tam-tam è partito, le scolte vegliano, le retrovie fervono nell’attesa. Nulla potrà fermare la taciturna avanzata dell’invisibile Michele Mari fan club.
Io l’ho finito un paio di settimane fa. Mari è l’unico che riesce a far mettere una copertina “Urania” sui SuperCoralli Einaudi. E già da questo raggio si dovrebbe intuire la luce.
“Verderame”, sia detto, non è il miglior Mari che abbia letto, ma è sicuramente una sintesi riuscita tra le due anime di questo autore: quella lirico-autobiografica (vedi “Tu, sanguinosa infanzia” o “Filologia dell’anfibio”) e quella epico-orrifica (e qui il capolavoro insuperato è “Tutto il ferro della torre Eiffel”).
L’uso spinto del dialetto costringe il lettore ad abbandonarsi a un’esperienza sensoriale piuttosto insolita: intendere il senso delle frasi senza capire il significato delle singole parole (a meno che non si sia padani madrelingua). Chi conosce “Mistero buffo” di Fo e il suo grammelot, sa di cosa parlo.
Federico, pazienza se non è il migliore (anche perché dopo “Tutto il ferro della torre Eiffel” è dura fare di meglio), ma in quanto sintesi lo eleggeremo Summa del Sommo e lo adotteremo come testo sacro del club.
A proposito di abbandono a lingue sconosciute, mi è capitata la stessa cosa con “Terra matta” di Vincenzo Rabito, un libro impressionante in tutti i sensi.
Sto Rabito mi giunge nuovo, caro lentore. Dovrei, da buon marista dell’ultim’ora, scrollarmi un po’ di dosso ‘sta misticanza onanistica d’asocialità, riservatezza, dippiezza e invereconda (sic!) ambiguità.
Tienila cara, la misticanza! Terra matta è qualcosa di indescrivibile, un’esperienza più che una lettura. Senti qua:
Questa è la bella vita che ho fatto il sotto scritto Rabito Vincenzo, nato in via Corsica a Chiaramonte Qulfe, d’allora provincia di Siraqusa, figlio di fu Salvatore e di Qurriere Salvatrice, chilassa 31 marzo 1899, e per sventura domiciliato nella via Tommaso Chiavola. La sua vita fu molta maletratata e molto travagliata e molto desprezata. Il padre morì a 40 anne e mia madre restò vedova a 38 anne, e restò vedova con 7 figlie, 4 maschele e 3 femmine, e senza pensare più alla bella vita che avesse fatto una donna con il marito, solo penzava che aveva li 7 figlie da campare e per darrece ammanciare.
Ma è strepitoso! maletratata me l’accattassi subbeto
Segnalo, se può interessare, che dovrebbe essere di Michele Mari anche la prefazione al libro “Arte e follia in Adolf Wölfli” di Walter Morgenthaler (edizioni Alet), dedicato a Wölfli, interessante esempio di artista “folle”… o di folle “artista”. Buondì, Oyrad
Dichiaro il mio amore incondizionato (non troverei le condizioni per non adorarlo) per Mari. Credo sia vero, come dice Platania, che Verderame non è il miglior libro del nostro, ma lo stupore, la perizia e il rigore gli appartengono come a tutti gli altri.
Michélin sembra essere un ragazzino troppo anomalo e intelligente e colto per essere vero, ma da quel che Michele mi ha raccontato della sua infanzia, non ho dubbio alcuno nel riconoscere che un siffatto bambino c’è stato e ancora gli appartiene.
Dove devo ritirare la tessera del club?
(ciao tassinari, un bacione)
aida
P.S.
Qui c’è lo scritto di Mari per il libro “Arte e follia in Adolf Wölfli” citato da Oyrad
http://www.aletedizioni.it/catalogo/incipit/978-88-7520-023-7.pdf
Sorbole matisse! Altro che tessera del club, sei nominata presidente a vita.
Solo perché sono, presumibilmente, la più anziana del club, ma uff…
Roman o Giacomu Leopardiju li Michelea Marija !
http://www.vjesnik.hr/pdf/2006%5C05%5C16%5C36A36.PDF
Mannò, matisse, solo per evidenti e documentati meriti sul campo.
E guarda te chi ti rispunta a parlar del Mari: Hugo Doyle! Anni e anni, dai tempi di icl. Ma non pensare di cavartela con il link al pezzo croato: mo lo traduci! :-)