(Il manoscritto ritrovato di letturalenta. Frontespizio e indice)
Se un rogo immane distruggesse tutte le biblioteche del mondo, e tutte le librerie, e tutte le case editrici, e financo tutti gli strumenti adatti a trascrivere le parole su supporti duraturi, la terra non avrebbe il tempo di compiere un giro completo su sé medesima per riempirsi nuovamente di racconti impressi sulla cenere del mondo, nell’aria o sulla sabbia, mandati a memoria e tramandati a voce, incisi da unghie ferine su rocce annerite dal fuoco, dipinti con ossa carbonizzate su pareti vetrificate.
Narrerebbero in tutte le lingue superstiti il corso e gli effetti della grandiosa catastrofe, se esistessero ancora le parole necessarie: ma, ahimè!, tutti i dizionari sono andati distrutti; migliaia e migliaia di lemmi sono perduti per sempre; non è rimasto un solo trattato di filologia romanza, non un saggio o un articolo di linguistica comparata, non un brandello delle annose ricerche sulle affinità delle lingue agglutinanti.
Che fare, dunque?
Come rimettere in circolo la linfa vitale della letteratura? Non è rimasta traccia degli scrupolosi rimari, e interpretare quei frammenti carbonizzati dell’Ars poetica è umanamente impossibile; trovare un manuale di retorica, o anche solo un sillabario, neanche a parlarne, così come non c’è speranza di ricostruire per intero un sistema di scrittura, sia esso alfabetico, pittografico, ieroglifico o ideogrammatico.
Gli scrivani non sono scomparsi, ma hanno perso tutti gli strumenti di trascrizione. I più ingegnosi tracciano segni sui muri, sulla battigia, sui tavoli delle locande, e li mostrano orgogliosi al pubblico presente. Vedete, dicono, questo è un poema amoroso in terzine a rima incatenata; questo è un romanzo storico; questo è un trattato di estetica strutturalista. Gli astanti osservano incuriositi quei segni, ma nessuno è in grado di interpretarli, anche perché ogni scrivano usa i suoi propri, e quelli di ciascuno sono diversi da quelli di tutti gli altri.
All’inizio osservano incuriositi, gli astanti. Qualcuno sorride allo scrivano, annuisce in segno di approvazione. I più arditi gli allungano una pacca sulle spalle gridando Bel lavoro, scriba! gran bel lavoro! e gli offrono una ciotola di lenticchie e un bicchiere di vino. Alla terza o quarta rappresentazione, però, l’interesse degli astanti scema visibilmente: lanciano uno sguardo perplesso ai segni incomprensibili, poi spostano il medesimo sguardo sullo scrivano. E quando questi tenta per l’ennesima volta di convincerli che quei segni non sono solo segni, ma letteratura, la perplessità si muta in fastidio.
Gli astanti iniziano a mormorare fra di loro: Costui sta cercando di imbrogliarci. Con questa storia della letteratura cerca solo di scroccare pasti caldi e buone bevute. Ma che vada a lavorare, lo scrivano! che si guadagni anche lui il pane con il sudore della fronte! Il più delle volte gli astanti si limitano a mormorare, ma talvolta i più esagitati passano a vie di fatto, e scacciano lo sventurato in malo modo, gridandogli frasi ingiuriose e intimandogli di sparire dalla circolazione.
Umiliati e offesi, gli scrivani si ritirano in eremi desertici e lì menano una vita meditativa da stilita o, più spesso, conducono l’esistenza grama e secca del miserabile: gli occhi privati d’ogni barlume d’espressione, sollevano di tanto in tanto la testa dai loro giacigli petrosi: sembra che annusino l’aria come i cani, alla ricerca di un segno di mutamento, di un cenno di movimento, in una parola: di un racconto.
A volte sembra che le loro menti inaridite captino un segnale, una parvenza di incipit, una traccia di umana vita. Allora il loro volto, invaso per il solito dalla calma piatta dell’ebetismo, s’apre all’illusione di un lampo d’intelligenza, come se ritrovassero per un secondo l’antica arte di trascrivere le parole che fluttuano nell’aria. Ma è soltanto un attimo fugace, e sùbito la fissità della demenza riprende il sopravvento.
Prime vittime di una catastrofe ancor lungi dall’aver palesato per intero la sua furia distruttiva, gli scrivani trapassano uno a uno nell’oblio di sé medesimi e del mondo, estremo passo prima di abbandonarlo del tutto. Ma l’ultimo di loro non ha ancora cessato di respirare, che una tenebra nuova e spaventevole si addensa su ciò che resta: illetterati e analfabeti, gli uomini perdono a poco a poco il privilegio di essere raccontati. Sempre più prossimi all’afasia, si chiudono nelle loro case, diffidando del vicino che ormai comprendono a stento.
Le parole diventano via via più rare, fino a scomparire del tutto. Un silenzio cimiteriale, rotto di tanto in tanto da lamenti, mugugni e grida si spande inarrestabile sull’orbe terracqueo. Intere società civili di lunga e onesta tradizione si trasformano in lugubri orde di barbari famelici e mai sazi, che flagellano la terra per strapparle un cibo sempre più introvabile, e tanto la schiantano da tramutarla in breve in un deserto inabitabile.
I racconti non sanno più leggere queste parvenze vacue di ciò che fu l’umano genere: inorriditi da cotanta miseria, e impotenti a porvi rimedio, prendono congedo da questo angolo dell’universo mondo: andranno altrove, forse, a cercare nuovo alimento, ma inutilmente: cadranno per sempre nell’oblìo, dimentichi di tutto, analfabeti, insignificanti.
Tu che hai resistito fino a questo punto esatto di me sai bene che questo incubo m’attanaglia fin dai tempi della mia infanzia, quand’ero solo un piccolo raccontino di appena due capitoli. Ora, discorrendo con te e sondando pagina dopo pagina il tuo prezioso intreccio, sono cresciuto fino alla rispettabile età di ventisei capitoli, senza contare il trattatello estemporaneo che pure fa parte di me a pieno titolo.
Cresciuto e in un certo senso invecchiato. Non ricordo più tutte le parole che ho radunato attorno a questa mia ossessione, e non sono sicuro di aver raccontato tutto quello che avevo in mente di raccontare. Forse avrei dovuto svolgere una disamina più approfondita del ruolo di dizionari e comodini nella nostra società, e in questo momento non ricordo affatto se ti ho mai parlato di quell’accesa discussione che ebbi una volta con un poemetto amoroso in lingua provenzale a proposito delle insidie del trobar clus.
In fondo, poi, che importanza può mai avere quello che dico o quello che taccio? La catastrofe non dipende da questo, ma dalla perdita di peso nelle vicende umane delle parole, degli spazi bianchi, dei margini, dei segni di interpunzione. L’incubo ricorrente che mi perseguita, il rogo che annienta di colpo tutte le parole e tutti gli strumenti adatti a trascriverle, non è che la trasposizione infantile in chiave apocalittica di un dramma che si consuma in tutt’altro modo e in tempi smisuratamente più lunghi.
A causare lo sfilacciamento della relazione vitale fra umanità e letteratura non provvedono certo le parole non scritte, ma quelle scritte e ripetute sempre uguali, fino a diventare mute. La tigna rovinosa del commento e dell’interpretazione; l’immorale prolificità dei banditi seriali; lo sciocco atteggiarsi degli scribi a creatori di parole e di opere, quando non sono altro che grassatori di antichissimi depositi letterari; queste sono le vere cause agenti, non il silenzio, o l’incapacità di scrivere, o le cose non dette.
Non sarà quel rogo che mi perseguita in sogno a decretare la fine della letteratura, ma l’ennesima variazione sullo stesso tema, l’ennesima antologia, l’ennesima biografia. Arriverà un giorno in cui tutte le parole del mondo convergeranno a ripetere un solo concetto, a indicare una sola cosa, a celebrare un unico mostruoso centro in un delirio di onniscienza, dopo aver distrutto sistematicamente tutte le periferie, tutti i margini, tutte le varietà, tutte le divagazioni. Allora tutte le parole avranno il valore di una parola sola e quell’unica parola si dimostrerà talmente inutile e svalutata da poter essere gettata in una discarica senza alcun rimpianto.
C’è un solo modo per evitare la catastrofe: tacere.
a nome degli uomini libro bradbruyani e, andando molto a ritroso nel tempo, degli aedi del tempo di Zeus, mi permetto garbatamente di dissentire sul silenzio, immaginandomi cullato da una voce che stilli come goccia cinese fonemi nel mio cervello trasformandoli in scarabocchi che muteranno, con tempi di speranza di rinnovamento, in lemmi.
questo è il mio io positivo.
circa il tacere: se il parlare è un perpetuare un qualsiasi libro di Bruno Vespa è davvero meglio tacere e per sempre.
questo è il mio io abituale.;-))
o cyb, il mio io neutro concorda con entrambi i tuoi ìi. Noto a margine che costui (il racconto che parla in prima persona nel post) si è preso solo una piccola pausa da quando ha deciso di esternare. Per il resto non fa che parlare, e parlare, e parlare. Secondo me costui quando invita a tacere non è punto affidabile.