(Il manoscritto ritrovato di letturalenta. Frontespizio e indice)
Immagino che tu ti sia chiesto come mai io non abbia ancora commentato il mio ventiquattresimo capitolo, ovvero novella terza, ovvero La morte dell’autore. Semplice: non l’ho fatto perché il capitolo ventitreesimo, intitolato Letteratura e vita, è di fatto un commento ante-litteram a quella novella. Son cose che succedono nei racconti, specialmente in quelli di genere erratico e inconcludente come me.
Potresti facilmente verificare tu stesso l’assoluta sincerità di codesta mia affermazione andando ora a rileggere la suddetta novella, proseguendo poi nella lettura del succitato capitolo. È però mio dovere avvisarti che, qualora tu decidessi di procedere alla verifica, cadrebbe uno dei pilastri – e forse il più importante – che sorreggono la nostra amichevole conversazione, nonché buona parte della storia della letteratura: nel tempo che tu dedicheresti a ripercorrere quelle pagine, non sarei più io a leggerti, ma tu a leggere me.
Le conseguenze di questa alterazione gravissima dei termini del nostro rapporto sarebbero drammatiche: in quel momento tu non saresti più oggetto del racconto – come il mio titolo spiega – ma semplice lettore e, che le muse te ne scampino, correresti seriamente il rischio di tramutarti in recensore.
È proprio questo desiderio irragionevole di scorrere più volte pagine già viste a generare l’abisso del commento. È il desiderio di verificare ipotesi che si affacciano alla mente durante la prima lettura a trasformare l’uomo letto e rivelato dal racconto in caparbio e disonesto indagatore di significati reconditi. Soggiogato dal dèmone dell’intelligenza, costui non si perita di compulsare il testo avidamente, frase per frase, cercando di chiudere conti che il libro non ha mai aperto.
Già vedo il freddo notomizzatore di pagine avventurarsi fra le pieghe del mio capitolo vigesimo quarto, e su quelle esercitare la feroce acribia del commento. Egli ha in mente un’ipotesi e vuole convincere prima di tutto sé stesso che le mie parole altro non sono che un velo pudicamente deposto sopra i suoi trastulli ermeneutici. Girando e rigirando il testo, voltandolo e rivoltandolo, egli tenta in tutti i modi di piegarlo ai suoi voleri, e di fargli dire a tutti i costi ciò che lui ha in mente.
Ecco allora spuntare fra le sue dita sottili l’arma temibile dell’interpretazione allegorico‑politica: la biblioteca non è più biblioteca, ma mondo; il romanzo in corso di stesura non è più romanzo, ma l’azione della classe dominante; i libri allineati sul tavolo non tengono più il loro naturale ruolo di libri, ma si trasmutano in simboli degli umani saperi; il laureando non è più tale: egli allude evidentemente alle forze rivoluzionarie che si agitano nel tessuto sociale desiderose di sovvertire l’ordine costituito. Non oso andare oltre in questa mia satira sulla devastazione operata sulla letteratura dall’intelligenza umana, nel timore che a qualche impavido interprete venga in mente di prendermi sul serio.
Ma tu, se vuoi, puoi divertirti a proseguire su quella strada, verificando la buffa ipotesi politica direttamente sul testo. Se metterai a tacere la parte oscura e sentimentale di te medesimo, lasciando mano libera alla parte luminosa e razionale, vedrai che tutti i tasselli del mosaico ermeneutico andranno al posto giusto, sebbene a volte necessitando di qualche spinta un po’ vigorosa. Alla fine del gioco ti ritroverai fra le mani una perfetta interpretazione allegorico‑politica della mia umile novelletta.
Puoi ripetere il gioco usando altre chiavi. La psicologica, per esempio: l’Autore è il padre, il laureando il parricida, la biblioteca l’utero materno, e così via. O magari una chiave moralistica: l’Autore è il portatore di sani princìpi pedagogici che il diabolico laureando tenta subdolamente di sviare: il male sembra trionfare, ma alla fine l’Autore vedrà riconosciuti i suoi meriti, mentre il malvagio finirà i suoi giorni in solitudine, negletto dal mondo. Ti posso garantire fin d’ora che otterrai sempre risultati plausibili e facilmente difendibili in un eventuale contradittorio, anche se palesemente inutili a chiarire a te stesso che cosa quella novella abbia mai detto a te.
Ma io so bene che tu, taciturno e paziente amico, non hai bisogno che altri ti spieghino cosa io ho voluto dire, perché sai che dire qualcosa non è nei miei piani. E sono altresì sicuro che avrai già notato come l’ultima e più pregnante morte che accade in quella novella non è affatto quella dell’autore.
“Son cose che succedono nei racconti, specialmente in quelli di genere erratico e inconcludente come me”. Suggerisco la variante: “Son cose che succedono nei racconti, specialmente in quelli di genere erratico e inconcludente come il mio”.
Grazie Lucio, ma questo racconto parla proprio in prima persona, dando del tu al lettore.
Ah. Evidentemente lo riferivo a “genere” (il mio genere, quello a cui appartengo io).