Chiosa –> spiegazione, interpretazione. Così recita la sbiadita nota a margine della mia copia di Hilarotragoedia, seconda edizione del 1972. L’ignoto lettore che mi precedette nel possesso del volume non ha lasciato altri esempi della sua calligrafia. Riesco a immaginarlo, pensoso e perplesso, togliere dalla libreria un ponderoso dizionario, cercare con impegno la parola misteriosa, e infine trascrivere a matita sul libro un sunto in due parole della definizione appena scoperta.
Nel momento esatto in cui annotò, l’anonimo annotatore appose a sua volta una chiosa al testo di Manganelli, e per di più a un capitolo intitolato dall’autore chiosa del precedente. Questa chiosa al quadrato è molto manganelliana e particolarmente adatta a un libro che è anche una parodia di certa trattatistica erudita non avara di glosse, note a margine e commenti.
E come tutte le chiose che si rispettino, anche questa contiene un enigma. Perché mai quel lettore invocò il soccorso del dizionario soltanto per una parola tutto sommato non inconsueta? Possibile che solo quella gli procurò un brivido di incomprensione? Colse forse senza bisogno di sussidio alcuno il senso di fràngole e tecche, che avrebbe letto di lì a poco? Possibile che abbia assimilato al primo colpo i ciambreri, le illecebre, gli spiralanti ecatodentati?
Mi sembra di vederlo, quell’ignoto lettore. Poveraccio, dopo la sua zelante ricerca sul vocabolario di una parola “non inconsueta”, all’imbattersi nella successiva caleidoscopia dei lessemi manganelliani, gli son cadute le braccia, e con esse il libro. Poi si è chinato, l’ha raccolto ed è subito andato a venderlo alla bancarella dove tu l’hai trovato.
Macondo mi ha preceduto nella maligna (ma forse non infondata) supposizione, e tuttavia Luca ha colto, all’inverso di noi più realisti del re, l’autentico spirito manganelliano che possiede i suoi lettori e (spesso) i suoi critici. Lo spirito, vorrei dire, dell’idioma ecatodentato che solo si riconosce e si apprezza nel suo esser monstrum, assemblaggio di più nature e extravagante, mostruoso in quanto irriducibile a norma, dismisurato e immisurabile. “Chiosa”, immagino, era forse parola troppo piana e comune per l’anonimo, sì che l’asintoto verso il quale il genio tapiresco puntava era un lettore per il quale già la “e” congiunzione fosse verbo incomprensibile.
Mi piace pensare che quel lettore zelante e armato di inane vocabolario si sia infine rassegnato a godere della prosa discenditiva come puro suono, finalmente libero dal futile desiderio di dare a ogni singolo lemma un significato univoco e prescritto. Inutile dire che, se quella glossa infantile mi ha colpito, è perché io mi riconosco appieno in quel lettore così goffo e improbabile. Un lettore, tuttavia, a cui dev’essere bastato un solo ricorso al dizionario per percepirne l’inutilità, tanto che da lì in poi il libro — pur recando i segni inequivocabili di una lettura protratta fino all’ultima pagina — è affatto mondo di ulteriori annotazioni.
Mi fai tornare in mente un ragazzo del mio liceo che, quando entrò in vigore l’euro, spiegò a tutti qual era la figura sui 20 centesimi: “Forme uniche della continuità nello spazio”, scultura del 1913 di Umberto Boccioni”. Poi non riconobbe la Venere del Botticelli sui 10 centesimi.
Spero che il nostro Manganelli non sia parente di quel buonuono che al G8 sfoderò a detra e a manca il suo cognome
Il nostro sarebbe in ogni caso innocente, data l’impossibilità di scegliersi i parenti (e in particolare i discendenti).
Il progetto è quello di tentare un abbozzo generale, di dare i lineamenti costitutivi di una
fenomenologia della poesia, esaminando la domanda fondamentale “che cosa è la poesia”. La
domanda è in se stessa oscura, difficile, può determinare una sorta di orrore; ha a che fare con
una materia che già Kant diceva ‘sfuggente e aggroviglita’; è stata considerata ‘pregalileiana’;
molti pensano che sia inutile porsela.
(Luciano Anceschi, Che cosa è la poesia?, Bologna, Clueb, 1999)
Ai primi dell’anno uscirà un nuovo libro di Andrea Cortellessa, una raccolta di saggi per metà dedicati al tapiro, non perdetelo!
Grazie della segnalazione Sergio.
In cambio segnalo che Aragno ha pubblicato un volume di “lettere familiari” di Manganelli, che se non mi sono perso qualcosa dovrebbe essere il primo del suo genere.