In quel tempo giunse sull’isola uno scrittore simbolista, e se un lettore distratto mi domandasse il nome dell’isola o quello dello scrittore, lo rimanderei senz’altro a tutto quanto le parole isola e scrittore possono significare in ogni senso, specialmente quando si trovano accostate nel medesimo testo, separate soltanto dalla cortina sottile dell’aggettivo uno, sorgente ancestrale d’ogni possibile simbologia, poiché mi sembra naturale, per non dire ovvio, che questo apologo sia intriso di simboliche evocazioni, data la natura del protagonista.
S’aggirava lo scrittore per l’isola, e pareva inquieto, e nel suo vagabondare disdegnava i sentieri che si spingevano all’interno, prediligendo piuttosto il periplo della costa. Viveva colà un vecchio pescatore ormai inabile a prendere il mare e avvezzo a spendere le sue giornate su un pontile ancor più in disarmo di lui, riparando reti così strappate da aver perso ormai da anni la speranza di essere calate in acqua. Non avendo in realtà molto da fare, se non attendere con pazienza il tramonto, costui osservava incuriosito quello straniero che ogni mattina — un buffo panama giallo in testa e un taccuino nero in mano — usciva poco dopo l’alba dalla casetta che aveva presa in affitto e si incamminava con passo svelto e nervoso lungo la costa a est del pontile, per poi ricomparire a ovest verso sera e rinchiudersi infine nella sua dimora fino al mattino successivo.
Quel giorno, vinto dalla curiosità, lo salutò con cortesia e calore e sebbene lo scrittore temesse sopra ogni cosa che una conversazione potesse interrompere il libero fluire dei suoi pensieri, la sua buona educazione non ammetteva la villania di ignorare un saluto, e così rispose a quello del pescatore, che a quel punto prese a interrogarlo:
— Chi sei tu, straniero, che ogni giorno ti incammini lungo le coste della mia piccola isola natìa?
— Sono uno scrittore simbolista, o pescatore.
— Sarebbe a dire?
— Io cerco il significato definitivo dell’universo e della presenza umana nell’universo, e so che questo significato mi apparirà in piena evidenza solo quando riuscirò ad accostare tutte le parole in modo tale che contiguità insolite di significanti svelino le verità che la trivialità del linguaggio quotidiano ha nascosto e reso inattingibili al senso comune. Io cerco il Simbolo, brav’uomo, il Simbolo che tutto svela e nulla copre.
— E per quale motivo tu lo cerchi lungo la riva? Non dovresti penetrare nel cuore delle cose per riuscire decifrarne la lingua? Non dovresti dirigere i tuoi passi al centro dell’isola?
— Al contrario, mio caro: il significato ultimo si cela al confine fra parola e parola, fra cosa e cosa. Come riconosciamo le figure geometriche dalla forma del loro perimetro, così possiamo conoscere quest’isola e così il tutto: l’isola non è tale per ciò che contiene, ma perché confina con il mare da ogni lato.
Da quel giorno lo scrittore simbolista prese l’abitudine di iniziare la giornata con un breve colloquio in cui illustrava al vecchio pescatore i particolari della sua ricerca e lo teneva aggiornato sui progressi quotidiani. Una volta gli diceva d’aver trovato nel modo in cui l’acqua lambiva la costa — ora sfiorandola con dolcezza, ora battendola con rabbia — il simbolo della varietà di relazioni fra uomo e uomo e fra uomo e natura; un’altra gli spiegava come gli scogli, che si lasciano erodere docilmente dalla furia delle mareggiate senza mai crollare del tutto, erano l’emblema dell’umanità che nelle catastrofi si trasforma senza perdersi. E sempre concludeva la conversazione allo stesso modo: «Un giorno» diceva «riuscirò a trovare l’unica combinazione di parole in grado di riprodurre esattamente tutto questo, e sarà un poema così perfetto e così ricco di significato da rendere superflua ogni altra letteratura».
Passarono i mesi, e al solstizio d’estate si compì l’anno da quando lo scrittore simbolista era sbarcato sull’isola. Il vecchio pescatore alzò gli occhi dalle reti consumate e li posò in un punto a lui noto, verso il tramonto di giacinto e d’oro. Restò in attesa per qualche minuto, mezz’ora, un’ora, ma ormai annottava ed era inutile aspettare oltre. Il giorno seguente, a sole già alto, andò a bussare alla porta dello casupola affittata, ma nessuno rispose, quindi si avviò sulla riva a ovest del pontile e dopo alcune ore di cammino vide il taccuino nero posato su un masso a pochi metri dalla battigia, ma dello scrittore non c’era traccia. Si sedette sul masso e aprì il taccuino alla prima pagina, che era bianca, a meno di una freccetta in basso a destra che sembrava un invito a proseguire la lettura. Bianca anche la seconda e la terza pagina, e così la quarta e la quinta, e immancabile la freccetta al fondo delle pagine dispari.
Il vecchio voltò le pagine una a una, lentamente, forse nemmeno sperando di trovare prima o poi una parola, una frase, un discorso. L’ultima pagina non terminava con la solita freccetta, ma con un punto. Allora il pescatore si rattristò, posò il taccuino sul masso e si alzò, si avvicinò all’acqua e cominciò a scrutarla facendosi visiera con la mano destra: scorse al largo un battello che nel vaporìo della canicola tremolava come un ubriaco, senza rotta e senza equipaggio; il resto del mare pareva deserto, ma il pescatore continuò a interrogarlo fin quando a poche decine di metri dalla riva vide galleggiare il buffo panama giallo, quasi immobile, come se un invisibile nume marino lo trattenesse per impedire alla corrente di riportarlo a terra.
Non so perchè, ma mentre leggevo, mi sono accorto di visualizzare mentalmente la figura dello scrittore simbolista identificandola con le sembianze di Fernando Pessoa… Perchè? Mah, chissà… Forse per il cappello… Non importa. Il racconto è piuttosto suggestivo. Mi ha ricordato un vecchio film con sir Ben Kingsley, “L’isola di Pascali”, che in fondo poco ha a che fare col suddetto componimento letterario. A metà strada – ma sarà un parere indubbiamente discutibile – fra Hemingway e Faulkner, e tuttavia con una punta di lirismo che è estranea ad entrambi.
“”verso il tramonto di giacinto e d’oro”” Una pennellata lirica fa sempre bene all’animo ;)
Grazie per la lettura, Sebastian. Ti confesso che la collocazione tra due mostri sacri come Hemingway e Faulkner mi imbarazza non poco: lasciamo che i giganti dormano in pace! Il tramonto “di giacinto e d’oro” è una citazione malandrina di una poesia di Baudelaire, invito al viaggio. Lo dico solo per non prendermi meriti altrui (e che altrui!).
Sai che fine abba fatto “Carlo Andrea Balduzzi”?
spero proprio che non ne abbia fatta alcuna.
bellobello.
graziegrazie