Sono una intera, non sono più un’accozzaglia di frammenti, di parti. Abbasso gli occhi per guardare la parte inferiore del mio corpo. Mi fermo davanti a una vetrina per vedermi tutta.
Prima la cosa più importante: filate subito a leggere lo splendido racconto Le vie del corpo di Gaja Cenciarelli, qui. Marsch!
Segue, meno importante assai, qualche mia noterella sul racconto medesimo.
Che Gaja Cenciarelli fosse un’ottima scrittice lo sapevo da tempo. Che riuscisse ancora a sorprendermi non me l’aspettavo. Invece c’è riuscita. L’ha fatto con un racconto di quel genere a lei molto congeniale, quasi un suo marchio di fabbrica, che è la passeggiata narrativa. La bellezza di questo genere, e di questo Le vie del corpo in particolare, è innanzitutto una questione di movimento: movimento fisico per le vie della città e movimento psicologico per le vie della mente, a cui si affianca il movimento da una condizione frammentaria data, positiva, vissuta, al desiderio di una condizione unitaria.
Le vie e le piazze romane che scandiscono la passeggiata sono fratture e squarci in un corpo urbano che durante il racconto recupera lentamente l’unità, fino a diventare Roma, tutta Roma, la città per antonomasia, una e indivisibile. E questo movimento rimanda all’altro, quello di un corpo umano fratturato e scisso (“ero viva solo dal torace in su. Il resto di me in-esisteva”) che desidera tornare integro (“Io voglio la visione completa, voglio il corpo intero”), un corpo che desidera guarire per riattribuirsi “il più lurido di tutti i pronomi” che apre il racconto: Io.
Più correttamente Ia, una prima persona singolare che la lingua italiana ignora e che innesca un altro movimento ben visibile in questo racconto, un’oscillazione continua dal maschile al femminile, sottolineata anche graficamente dall’alternanza delle parole Io e Ia nel corpo del testo. Questo pronome negato, Ia, esprime un desiderio che va a completare quello di integrità e di unità, cioè il desiderio di una femminilità piena e singolare: “Ci vorrebbe una corpa. Ci vorrebbe una Ia. Oggi è la donna che cammina, non solo l’essere umano. Oggi, più che mai, è la donna”.
C’è un altro fattore che contribuisce a definire la bellezza del racconto, ovvero la tensione morale che si percepisce osservando la tenacia e la forza d’animo con cui la protagonista affronta il suo percorso di riabilitazione fisica e psicologica: “Una volta non riuscivo a camminare senza guardare a terra. La prima volta che ho distolto gli occhi ero a piazza Colonna: mi dicevo: Dai, prova. Non puoi aver dimenticato come si cammina!”
Ebbene, se dovessi riassumere questa tensione in una parola sola, userei virilità, una parola che nel campo maschile rimanda inevitabilmente a duri genitali, petti villosi e pugni serrati, ma che trasportata in territorio femminile recupera il suo significato etico e più pienamente umano. Anche questo riesce a fare un bel racconto: restituire dignità a parole abusate.
(Le altre passeggiate narrative di Gaja sono reperibili qui).
caro lucore/lentore.
sono commossa, sinceramente stupita da questa analisi del mio racconto. da questa *tua* analisi. è la prima volta in assoluto che qualcuno si prende la briga di recensire UN racconto (mio, in questo caso).
E con tanto rigore, tanta attenzione, tanta passione.
non so come ringraziarti, davvero.
ora mi vanterò, farò la ruota come una pavonessa (il che non è possibile, ma rende l’idea… ;), e linkerò questo tuo post *ovunque*. grazie, luca. di cuore.
Ma che grazie e grazie! Scrivine altre così. Subito! :-)
faròllo! :-)
qui la passeggiata è doppia: per le strade di roma e nell’anima di chi scrive. fosse solo la prima, sarebbe turismo. nel complesso, invece, è arte
enrico: grazie di cuore.
lucore/lentore, ho ricambiato il dono: http://www.sinestetica.net/leviedelcorpoletturalenta
“Ma io sono stanca degli arti, degli occhi, della testa, dei frammenti. Io voglio la visione completa, voglio il corpo intero.”
*
In questo passaggio riconosco Gaja nella sua “Mamma Roma”.
Ecco la città capitolina; ecco le zone amate dall’autrice; l’itinerario affascinante prescelto. Ma io risalgo soprattutto il Corpo di Gaja, come fece Giuseppe D’Arimatea con il Cristo.
Forse questo mio commento troverà dissensi, eppure il racconto di Gaja possiede qualcosa di “cristologico”… Il percorso del dolore e delle trafitture insopportabili, il loro ripudio, l’accettazione finale. La consapevolezza, oserei affermare, di “morire” solo per risalire una gioia purissima: riappropriarsi di un’identità fisica e psicologica percossa, “frastagliata” – come discutavamo ieri scrivendo su Iosif Brodskij.
“Ferro e piuma”. Concretezza e metafisica senza ontologia. E il parallelo con Brodski mi sovviene non a caso. C’è qualcosa che vi unisce in questi “viaggi”: scusami, preferisco chiamarli così. Poiché ogni tragitto che percorri è il vuoto che inizia a impregnarsi di Te: è un dire “Ti amo Gaja!”.
Iosif non era dissimile.
*
Questo insieme non è altro che il rapporto simbiotico con il Corpo della Città e la tua Entità Corporea-Corporale. La svisceri con la nudità che serve, che occorre, che ci avvicina a te.
Bel testo davvero. Sono felice che sister Gaja faccia parte di un’antologia così importante.
Con tutto il mio affetto,
Nina