Oggi, alle due del pomeriggio, il termometro segnava otto gradi sotto zero. La minima di questa notte è stata meno tredici. Sabato mattina nel cortile di casa mia, che si trova a quindici metri sul livello del mare, c’erano quarantadue centimetri di neve. Finalmente un principio d’inverno come si deve, dopo anni e anni trascorsi quasi senza vedere un solo fiocco fioccare in pianura.
Quando ero giovane, se mai lo sono stato, passavo il capodanno in una casetta sull’appennino bolognese, a mille metri d’altitudine. Vicino a casa c’era un laghetto artificiale che in quel periodo dell’anno gelava. Ho ancora delle foto da qualche parte, dove si vede l’allegra brigata che gioca a pallone sul ghiaccio: la mia futura moglie, io, tre o quattro amici. Allora, metà anni ottanta del secolo scorso, c’era ancora il muro di Berlino e per mettere paura alla gente non si minacciava il global warming, ma la guerra atomica (chissà se chi è giovane adesso ha mai sentito parlare di euromissili).
Oggi cade il solstizio d’inverno, la notte più lunga, il giorno in cui gli antichi celebravano la festa del sole invitto per ricordarsi che sì, era vero che quel giorno lì iniziava l’inverno, la stagione più dura dell’anno, ma era anche vero che da lì in poi il sole avrebbe ricominciato a sopravanzare la tenebra, stendendo sui campi innevati un fausto presagio di primavera. Noi moderni non ci facciamo più tanto caso a questa faccenda delle giornate che riprendono ad allungarsi, perché a differenza degli antichi abbiamo l’illusione di dipendere meno dalla cruda natura e di poterci prendere il lusso di fottercene un po’ delle stagioni, perché tanto d’inverno ci sono i caloriferi e d’estate i condizionatori. Secondo me erano più saggi di noi, gli antichi, ma meno fortunati.
Quando ero giovane, negli stessi anni in cui trascorrevo il capodanno in montagna, d’estate andavo al mare all’Isola d’Elba, tra la metà di luglio e la metà di agosto. Là c’era un signore, il padre di un mio amico, che si divertiva a ripetere quasi ogni giorno una frase di dubbia sintassi: “non siamo neanche in estate che siamo già in inverno un’altra volta”. Il significato era più o meno questo: ma tu guarda, l’estate è iniziata da poco e già le giornate si accorciano, annunciando a noi mortali che la terra continua a girare intorno al sole verso l’inverno prossimo venturo. In quegli anni l’alternarsi delle stagioni era ancora un argomento di conversazione. In quegli anni esistevano ancora le conversazioni.
Oggi non siamo neanche in inverno che siamo già in estate un’altra volta.
Tags: estate, festa del sole invitto, inverno, solstizio
e ancor più vicina è la primavera :-) bello il tuo solstizio innevato, il nostro, qui a roma, è solo bagnato fradicio … ma poi arriva la primavera
Finalmente sviluppato il concetto “Non ci sono più le stagioni di una volta”*-°
è uno sporco lavoro, signora mia, ma qualcuno deve pur farlo.
Farly, a Roma siete ancora fermi alla nevicata del ’56 o si è visto qualche fiocco anche dopo?
nel 1986 ce ne fu una memorabile, tentai di andare in giro in motorino sotto la neve, divertente ma poco pratico. finii con il camminare dal centro alla periferia (10km) abbandonando il mezzo :)
A Siena dicono: “Finito ‘l Palio, è subito ‘nverno”.
Un post bellissimo. Mi sono permesso di citarlo nel mio blog http://nottedinebbiainpianura.blogspot.com/2009/12/vorrei-averlo-scritto-io.html
Grazie per l’apprezzamento Angelo. Mi fa piacere.
Eh Isa, ma se lo dicono al Palio dell’Assunta, a un mese dall’autunno, è troppo facile: il padre del mio amico iniziava a dirlo il 21 giugno! (e noi pischelli ci incazzavamo sul serio, perché ci rovinava il gusto della vacanza. Mica lo capivamo che ci prendeva per i fondelli).
Come ogni anno, a maggio, mia madre annunciava: “L’inverno deve ancora venire”. A quel tempo, chissà come e perchè, nel mese di maggio arrivava zitto zitto lesto lesto un colpo di coda di sua maestà l’Inverno e noi…giù! a sbobinare sciarpe e a squadernare coperte, innevate di naftalina, indimenticabile zucchero mefitico.
Ancora oggi, se guardo il calendario e leggo Mese di Maggio, lascio socchiuso il baule e ripiego una sciarpa in fondo al letto. Cara sua maestà l’Inverno, ormai…ti conosco, mascherina! E quella faccia da Maggio pallido ben nascosta dietro un paio di occhialoni anni Sessanta, non m’inganna!Certo che…se ti chiamassi Giugno… forse…sì;-)
Ciao Luca,
a e alla tua famiglia i migliori auguri si serenità. Sgnà
ma quanto è bello!