La mia passione per Antonio Pizzuto risale a poco più di due anni fa. Nel gennaio del 2004, infatti, scrivevo su ICL (il newsgroup it.cultura.libri) un’entusiastica recensione della mia prima lettura pizzutiana. In questi due anni ho letto molto altro di questo ineffabile gigante della narrativa, ma devo dire che l’entusiasmo misto a naïveté di quella prima lettura non è venuto meno. Pizzuto è un po’ così: più lo leggi più ti accorgi che al suo cospetto sei un poppante della letteratura, le cui certezze e supposte (è il caso di dire) conoscenze letterarie si sciolgono come glicerina in corpore vili.
A mo’ di monito d’autore per l’aspirante lettore di Si riparano bambole, depongo qui un breve accenno al libro tratto da una lettera di Pizzuto a Vanni Scheiwiller del 3 ottobre 1960 (A.Pizzuto – V.Scheiwiller, Le carte fatate, a cura di Cecilia Gibellini, Scheiwiller 2005):
«Sono lieto che Lei stia per leggere Siribambole, dubito però che possa farlo dal 6 al 9 corr., poiché è un libro au lo ralenti, ma certo un’idea d’insieme potrà formarsela anche in 3 giorni e valga essa a invogliarla per una lettura più calma».
Si riparano bambole. Lettura di un novizio pizzutense.
Antonio Pizzuto (Palermo 1893 – Roma 1976) è un autore quasi inesistente. La sua indeterminatezza comincia all’anagrafe, dove non esiste proprio, essendo che lui, Pizzuto, si chiamava Antonino.
Ho inserito “Antonio Pizzuto” in un motore di ricerca e ho trovato duecentocinquanta pagine. A titolo comparativo ho cercato “Carlo Emilio Gadda”, e ne sono uscite quasi quattromila (Gadda soltanto, senza il nome, ne fa circa settantacinquemila). Guardo sulla garzantina: un ventina di righe appena. Apro Il Datario del raffinato sprezzatore Piero Cudini: unica citazione a pagina 165, all’interno di un lungo elenco di autori che hanno pubblicato un libro nel 1960, senza alcun commento, manco il titolo del libro. Va meglio l’aulico accademico Manacorda: una paginetta e mezza, su mille.
La fonte più prolifica su questo ectoplasma letterario è ICL: una quarantina di citazioni, tra il 1999 e il 2003, da cui si evince che esistono due scuole di pensiero: l’una, capitanata dal nobile senatore silvio, lo considera autore sommo, sebbene destinato a pochi; l’altra, rappresentata dal fiero tribuno lafrusta, lo classifica come accidente non necessario. Il termine di paragone è il corregionale Tomasi di Lampedusa, lettura passabile per il primo, capolavoro indiscusso per l’altro.
Spengo il computer e mi fiondo in libreria, ultima spiaggia. Palermitano, quindi Sellerio, penso. Ragionamento da imbecille, ma funziona. Collana “La memoria”, 2001, a cura di Gualberto Alvino, euro nove e trenta. Il titolo è Si riparano bambole, che è poi quello pubblicato da Lerici nel 1960, e che Cudini non nomina.
Leggo.
Verso la fine mi sorprendo a pensare che l’intero libro, fino al punto in cui sono arrivato, è un unico ricordo, un /flash-back/ che nella realtà durerebbe sì e no un paio di secondi, ma che ha voluto trecento pagine per essere trascritto. Mi accorgo di questo elemento “strutturale” del romanzo solo quando un personaggio secondario pronuncia la frase “si riparano bambole” all’interno di un discorso più ampio, di sfuggita.
Nello stesso istante penso che questa mia “scoperta” sarebbe di per sè un motivo sufficiente per rileggere tutto daccapo. Forse lo farò.
Il romanzo narra la vita del protagonista, un tal Pofi. Vita percorsa soprattutto da linee discendenti: dalla ricchezza dei primi anni alla povertà degli ultimi; dall’intraprendenza curiosa dell’infanzia all’immobilismo rassegnato della vecchiaia; dalla luminosa e proficua esaltazione degli studi giovanili ad umilianti fallimenti senili, non solo come aspirante scrittore, ma perfino come precettore privato di studenti delle scuole medie. Un solo desiderio appagato: quello di rivedere, ormai vecchio, la casa in cui era nato; imprimersi nella mente quei luoghi ormai vuoti e sfatti, per poterli riempire almeno di ricordi, in attesa della fine.
Ma son tutte fanfaluche. La verità è che il romanzo non ha trama, né chiavi interpretative, sensi unici o svolte obbligatorie. E’ il sogno inverato dell’opera aperta, dominio incontrastato del lettore quanto al senso e all’interpretazione.
E questo, penso, è un altro buon motivo per rileggerlo: chissà quali significati risalteranno al secondo giro, o al terzo.
Intanto spulcio le poche fonti che ho trovato. Ne vien fuori la figura di uno sperimentatore tanto pionieristico da guadagnarsi l’oblio da parte della cosiddetta industria culturale, più facilmente seducibile dalle comode scritture seriali che dal rigore impegnativo dei novatori autentici.
A parte un breve tratto di strada percorso accanto ai “rivoluzionari istituzionali” della neoavanguardia, Pizzuto ha lavorato in solitudine (“fuori d’ogni società letteraria” dice Contini) ad un suo progetto di scardinamento dello stile narrativo, finalizzato a ridurre il più possibile la distanza fra linguaggio e mondo, per riprodurre il mormorio sconnesso della memoria che “avvolge” i propri oggetti più che “descriverli”, per renderli presenti tutti interi simultaneamente.
I tempi e i modi della determinazione, indicativo presente e passato, cedono il passo a quelli dell’indeterminazione e della durata: l’imperfetto, l’infinito, il participio presente, il gerundio. Ma i verbi tendono a sparire del tutto, sommersi da sostantivi e aggettivi che indicano appena gli oggetti, vi accennano. Oggetti che tentano di costruire da soli un’azione, per giustapposizione. Al lettore il compito di ricostruire la sintassi per ricollegare i frammenti sparsi:
Veniva giù l’uragano, bello dalle finestre, deserta la rotonda piazzetta, macchine e tassì sferzati, per ogni arco o rifugio pavide sentinelle, i tram passatala in giro, non contesi iniziavano un’altra corsa.
Altro motivo per rileggere una quarta volta, forse una quinta, frase per frase, fino a quando tutti i nodi saranno saldi.
Dice Contini che “non si smetterebbe più di parlare di Pizzuto, come Goethe diceva di Shakespeare”. Ma non si può dire tutto, non si può dar conto in modo esauriente di tutti i risvolti di una lettura.
Meglio leggerlo, Pizzuto. Meglio ancora rileggerlo.
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Erano quelli i tempi in cui scemava a mano a mano i.c.l.
Sono andato a ricercare quel thread ed è stato un tuffo al cuore. Ma bando alle tristezze! Rompo gli indugi che ibs c’ha i Sellerio con lo sconto del 20%. Però, ‘sto Contini, carteggiava tanto con Gadda che con Pizzuto… che culo eh?
Hanno un loro destino i niusgruppi, ma ICL tutto sommato è ancora lì. Sicuramente è molto diverso da allora, ma non è un brutto posto neanche adesso. Se compri Siribambole ricorda il monito d’autore: tre giorni solo per farti un’idea! (più lettura lenta di così…)
L’ho testé ordinato, da buon supercoglione, via ibiesse. E visto che Sellerio mi garba e dimolto ci ho messo anche qualcosa di Roberto Bolano hai visto mai?
Ma ritornando a Pizzuto (che io so’ di quelli che quando uno gli piace si sciroppano l’opera omnia, pe’ capisse), tu che bene ‘l conoschi dimmi: “Se m’azzardassi a prendere ciò che ha stampato Polistampa (cosa che, considerando la lentezza che mi consigli, dovrebbe garantirmi una lettura felice fino alla domanda di pensione) non è che poi mi ritrovo sul groppone una sòla come già c’ammannì minimumfax? Nel senso che, hai visto mai, compri tre quattro tomi da non meno di 14 euros e ti ritrovi che l’uno è quasi la copia spiccicata di quell’altro se non fosse per quei due tre raccontini…”
Comprando tutto il catalogo pizzutiano di Polistampa non solo non ti becchi doppioni, ma devi aggiungerci come minimo il catalogo pizzutiano di Cronopio e quello di Scheiwiller, e credo che anche così non avresti l’opera completa.
La produzione di Antonio Pizzuto è sterminata, considerando anche i ritmi di lettura che impone, ma se ti dai tempo fino alla pensione e oltre puoi farcela!
La prima lettura, assai frettolosa, di “Siribambole” m’ha impegnato per due notti e per due tratte ferroviarie Arezzo Milano e viceversa. Ma sono rimasto letteralmente ammaliato. Il fatto è che, hai voglia ad ammonire “tre giorni solo per farti un’idea!”, è stato come addentare qualcosa di gustoso quando già hai fame di tuo. E allora è bulimìa sfrenata, è sgroppata da berbero. Poi, passata l’indigestione, ci si rifarà con la lentezza dovuta. In ogni caso è veramente scandaloso, a mio modestissimo avviso, che un fuoriclasse un funambolo del genere sia rimasto un fenomeno, come dire, di nicchia.
Evviva! La nascita di un pizzutiano è sempre un evento felice. Non so se Pizzuto uscirà mai dalla nicchia, ma finché avrà nuovi lettori entusiasti almeno sopravviverà.